sabato 12 marzo 2022

Il virus della guerra – L’antidoto della memoria - Marco Revelli


Il 24 febbraio, quando tutto è incominciato, per un gesto quasi automatico, mi sono trovato tra le mani Mai tardi, il diario di guerra di mio padre con le pagine tragiche della ritirata di Russia. Forse perché quella fuga a ritroso nel tempo, in un lontano orrore conservato nella memoria familiare mi aiutava a metabolizzare quest’altro orrore contemporaneo affidato al racconto pubblico. O, più probabilmente, perché quella rilettura mi aiutava a meglio capire la doppia angoscia che mi veniva dalla sovrapposizione di quelle due temporalità coesistenti nello stesso territorio. Giocava, in quel grumo emotivo, la coincidenza cronologica: il 24 febbraio (del 1943) è segnato nel diario come quello dell’arrivo nel villaggio di Verkievka, finalmente fuori dalla “sacca” chiusa dai russi sull’Armata italiana, quando il giovane tenente degli alpini diventato di colpo “vecchio” incominciò a raccogliere i brandelli della propria vita per rielaborare il suo pensiero sulla guerra, e non solo. Ma soprattutto mi colpiva la coincidenza geografica: tutte le fasi di quella guerra maledetta di allora si sono svolte, dall’inizio alla fine, esattamente nelle stesse terre di quest’altra, di oggi.

Gorlovka, la stazione d’arrivo dove il 2 agosto (del ’42) il battaglione Tirano fu sbarcato dalla tradotta e da dove sarebbe incominciata la marcia a piedi verso il Don, si trova ad appena una novantina di chilometri a nord-ovest di Luhansk, la capitale dell’autoproclamata repubblica russofona del Donbass. Per raggiungerla il lungo treno militare aveva attraversato la Polonia, nelle cui stazioni era ben visibile la presenza dei deportati ebrei, aveva toccato Minsk – con lo spettacolo lugubre dei grandi cimiteri di guerra -, Gomel con le sue rovine fumanti, aveva sfiorato Charkiv (con le zone limitrofe controllate dagli alleati ungheresi di cui “si dice che siano truppe specializzate e terribili, che impicchino i partigiani [russi] con particolare arte e crudeltà”) prima di percorrere l’ultimo breve tratto di ferrovia. Appena un centinaio di chilometri più a sud si vede, sulla carta (uso google earth), Mariupol. A metà strada, più sulla sinistra, c’è l’oblast di Zaporižžja, oggi terreno di scontro per il controllo della micidiale centrale nucleare.

 

Belgorod, d’altra parte, dove all’inizio di febbraio (del ’43) finì la prima parte della ritirata, quella più feroce e terribile, e i sopravvissuti misurarono tutta la portata del disastro (“siamo a pezzi, malati, piú o meno congelati, catarrosi, con diarrea senza fine, con negli occhi le visioni orrende del nostro calvario”), sta ad appena una sessantina di chilometri a nord-est di Charkiv. Mentre Belogorje, all’altro capo della lunga marcia, 330 chilometri più a est, sulle sponde del Don, dove era attestata la Divisione Tridentina, è già in territorio russo. E Voroscilovgrad, dove aveva sede l’ospedale-bordello simbolo della corruzione delle retrovie e il grande cimitero militare in cui erano seppelliti centinaia e centinaia di soldati italiani morti ancor prima che la grande tragedia si compisse, non è altro (ancora una volta) che l’attuale Luhansk, prima che con la fine del “culto della personalità” le fosse cambiato nome.

Lì il sottotenente Revelli, ricoverato per una brutta ferita rimediata il 25 settembre in un’azione di pattuglia sul Don, aveva incominciato a capire qualcosa del Paese che l’aveva mandato a uccidere o a morire, con lo spettacolo della corruzione, le ruberie da parte degli imboscati, il menefreghismo e il cinismo dei privilegiati a spese dei poveri cristi in prima linea, tanto da chiedere anzitempo di ritornare al suo caposaldo dove si rischiava ma non ci si vergognava. Così come quattro mesi più tardi, il 25 gennaio, poco più a nord, nella piana tra Nikitovka e Nikolaevka, nella “notte dei pazzi”, che precedette l’ultimo sfondamento disperato per uscire dalla sacca, nei 40 gradi sotto zero, con tutto che crollava intorno, le isbe in fiamme, i congelati abbandonati, l’immensa colonna di sbandati ormai senza guida, e gli occhi dei muli i soli a esprimere un’umanità ormai perduta dagli uomini, aveva – come scriverà e ripeterà infinite volte – “capito tutto”. Troppo tardi, ma capito cos’era il fascismo. E non solo. Quella notte, scriverà, il sottotenente degli alpini in servizio permanente effettivo Nuto Revelli, allievo scelto dell’Accademia militare di Modena, ufficiale modello considerato un “najone” per la serietà con cui interpretava il suo ruolo tanto da aver chiesto nella primavera del ’42 l’invio anticipato sul fronte russo, definito dai superiori “un tedesco”, una medaglia d’argento appena conferitagli, aveva urlato a sé stesso e perché tutti sentissero “Non farò mai più l’ufficiale” di quell’esercito. Allora, dichiarerà in un’intervista molto sofferta a Laura Pariani, “ho maledetto il duce, ho maledetto il re, ho maledetto (una breve pausa) l’esercito… Ho maledetto (una pausa più lunga, come se la parola non volesse uscire dai denti) la patria”. Era incominciata in fondo, allora, la sua “seconda vita” – morto l’alpino nasceva il partigiano che sarebbe diventato, come scriverà nella canzone dal titolo terribile, Pietà l’è morta -. La vita dedicata a combattere il fascismo, ma soprattutto, col fascismo che ne incarnava l’essenza, la GUERRA. Non avrebbe cessato mai di ripetermelo, tra le mura domestiche, e di ripeterlo ai tanti studenti incontrati nelle scuole, che la guerra è il male. Il male assoluto, o, forse meglio, universale. Ogni guerra, anche la più “giusta”, persino la guerra partigiana, che pur ebbe per lui un effetto catartico, di riscatto dei tanti morti lasciati nella steppa e dalla sensazione umiliante si sentirsi “un vinto”, persino quella – mi ripeteva -porta in sé un’ombra, ti lascia dentro cicatrici che fanno male. Perché la guerra trasforma gli uomini. Tira fuori il peggio che hanno dentro. Usava l’aggettivo “bestiale”, come antitesi dell’”umano”. Bisogna evitarla ad ogni costo, perché una volta scoppiata, il suo effetto di perversione non lo fermi più, negli altri, e anche in te stesso…

 

Ci ho ripensato tante volte, in questi giorni in cui la guerra sembra essersi impadronita delle menti con la velocità del fulmine. In fondo nessuno detesta tanto profondamente la guerra quanto chi l’ha conosciuta direttamente. Ne ha visto l’effetto devastante sui corpi e le anime. E sa la distanza che passa tra le parole e le cose, tra le retoriche e la realtà “sul campo”. Può sembrar strano, ma oggi i più prudenti nella generale chiamata alle armi e nell’evitare uno storytelling bellico irresponsabile – che contagia come un virus politici, intellettuali da intrattenimento e giornalisti da talk show –, sono proprio i militari. Quelli veri, intendo, che sono stati in “zona di operazione”, non quelli da tavolino in un qualche ufficio stampa. Il generale Fabio Mini, per esempio, che ha comandato l’interforze nel Kossovo, e che ci ammonisce saggiamente sul pericolo di “credere alla nostra stessa propaganda”, usando toni e argomenti assai meno enfatici di quelli di un Enrico Letta, tanto per fare il nome di un politico da cui ci si aspetterebbero parole di pace e non di guerra. O il generale Giorgio Battisti, presidente della Commissione Militare del Comitato Atlantico Italiano, che fin dal primo giorno ha ammonito sul fatto che in guerra “l’informazione è propaganda”, da entrambe le parti in conflitto, e si è sforzato di raffreddare l’immagine degli scontri in Ucraina come “guerra totale”, che come tale non ammetterebbe trattativa e quindi sia pur parziale riconoscimento delle ragioni reciproche [con lo stesso approccio anche il direttore di “Analisi Difesa” Gianandrea Gaiani].

Sono tutti molto freddi, per non dire ostili, sulla parola d’ordine che va per la maggiore delle “armi al popolo” ucraino (su cui si vedano in questo sito gli articoli critici di Tomaso Montanari e di Domenico Gallo). Un tema che mi lacera, e mi fa male – tanto più quando si accompagna al colpo basso dei riferimento ai partigiani -, perché so che molti miei amici, e antichi compagni, in sicura buona fede, l’hanno sposata senza remore. Ma con cui sento il dovere di dissentire, non usando certamente l’argomento, mai proponibile, di “cosa ne avrebbe detto mio padre”, per la ragione che è sempre operazione indecente accreditare un ipotetico giudizio sull’attualità a chi è morto da anni. Ma dicendo quello che, sulla base del suo insegnamento, e dei criteri di giudizio che mi ha trasmesso, ho maturato oggi, a cominciare dal fastidio di pelle, pre-politico e trans-storico, per le retoriche dell’”armiamoci e partite” che mi ha trasmesso. Un’allergia, come dire?, genetica, per le infatuazioni da “maggio radioso” di chi evoca politiche mortali senza prefigurarsi le vite (altrui) che quelle pratiche bruceranno (restandosene peraltro al sicuro lontano dalle concrete conseguenze delle loro parole). E qui, non da parte di tutti ma certo di tanti, di retorica ce n’è molta, e ragionamento razionale poco, forse per soffocare il senso di colpa della propria precedente ignavia e per l’attuale impotenza. Per la frustrazione di vedere un’ingiustizia compiersi, in un rapporto sproporzionato tra aggredito e aggressore. Per lo spettacolo di brutalità “putiniana” che ogni giorno irrompe dal video nelle nostre case e a cui non si riesce a immaginare una risposta adeguata. L’evocazione delle armi, lo so bene perché in parte non ne sono immune, in queste circostanze è quasi istintiva, per tentare di saziare una fame di giustizia.

 

Ma credo che anche in queste circostanze, accanto alla weberiana “etica dei principi”, che si orienta ai valori universali (e astratti), debba praticarsi la simmetrica “etica della responsabilità” che vede le conseguenze dell’agire e si sforza di calcolarne l’adeguatezza al fine. E qui l’inadeguatezza, o peggio la contrapposizione della moltiplicazione delle armi sul terreno rispetto al fine, se questo è la pace e comunque il risparmio maggiore possibile di sofferenze e di vite umane, mi pare evidente. Intanto perché quando inizia un incendio, occorre tentare di soffocarlo sotto una coperta più che gettare benzina sul fuoco, prima che divampi in modo irreparabile. E poi perché mettere in conto una quantità di sofferenze e di lutti, anche per chi pratica forme di realismo politico che non rifiutano a priori armi e violenza, deve presupporre la possibilità di un qualche sia pur relativo successo: evitare mali peggiori in termini di sacrifici umani, accelerare la trattativa per favorire la pace successiva, stabilire un potere di dissuasione credibile verso gli invasori… E non mi pare questo il caso, in un contesto in cui la sproporzione delle forze tra la “gente di Kiev” e i tank di Putin appare disperante (perché è di questo che si tratta quando si parla di “armi al popolo”: di una sorta di sacrificio testimoniale). In questo caso armare la popolazione civile non inquadrata militarmente per spingerla alla “resistenza”, avrebbe il solo scopo di produrre un effetto identificante – noi siamo armi in pugno con voi, anche se poi sono loro e non noi a morire -, ma scarso peso strategico. O addirittura rischierebbe di produrre una sorta di “eterogenesi dei fini”, facendo affluire disordinatamente armi letali a milizie o gruppi non controllati né controllabili che potrebbero usarle per sabotare possibili accordi e prolungare le ostilità. O si dovrebbe ricorrere per le consegne  all’uso dei contractor, che come è noto giocano soprattutto in proprio e non certo a scopi umanitari…

Se invece si tratta, ed è cosa diversa, di armare l’esercito regolare, come sta avvenendo oggi, a entrare in campo sono gli Stati e la Nato, continuando quello che già è stato fatto in questi anni riarmando l’Ucraina in vista di uno scontro puntualmente avvenuto. Ma questo è un altro scenario, che se portato oltre un certo limite aprirebbe prospettive catastrofiche di conflitto generalizzato e potenzialmente totale. E’ questo che si vuole? O che si è disposti a rischiare? E poi, supposto che dopo un periodo più o meno lungo di conflitto endemizzato, si riuscisse finalmente a terminarlo, magari per estenuazione dei contendenti, come si pensa che potrebbero riavvicinarsi, dopo essersi a lungo scannati a vicenda, quei popoli incatenati a territori contigui? Come potrebbero continuare a parlarsi (in parte parlano la stessa lingua). A scambiarsi beni (l’Ucraina dipende in gran parte dalla Russia per l’energia). Insomma, a “con-vivere”?

 

Un’osservazione ancora sul tema caldo dei “partigiani”. E sulle pressioni ostili piovute sull’ANPI da chi ricordava i lanci alleati a favore delle formazioni combattenti con l’insistente domanda se anche quelli fossero “sbagliati”. Purtroppo l’uso propagandistico della storia è diventato un brutto vezzo mediatico, giocato sulla cancellazione delle specificità di contesto e sull’eticizzazione simbolica di fatti storici tra loro diversi ricondotti a un unico, semplificato, effetto emotivo. Ma in questo caso l’arbitrarietà dell’operazione risulta più evidente. Intanto perché la Resistenza in tutta l’Europa occidentale si è inserita nell’ambito di un conflitto che già da tempo aveva acquisito carattere mondiale e totale, all’interno del quale le opportunità di vittoria di uno e dell’altro campo erano in relativo equilibrio. La possibilità che l’insorgenza di un conflitto “civile” accanto a quello militare-regolare facesse deflagrare ulteriormente su scala maggiore la guerra, o che addirittura ne ritardasse un esito negoziale, era escluso; come pure il carattere meramente sacrificale-testimoniale della partecipazione volontaria alla lotta partigiana. Condizioni tutte abissalmente diverse – anzi opposte – rispetto a quelle del conflitto attuale.

Aggiungerei che l’afflusso di armi alle formazioni combattenti “dall’esterno” – i tanto citati “lanci”, appunto – ha avuto, nell’economia della Resistenza italiana un peso secondario: le armi i partigiani se le procurarono soprattutto raccogliendo quelle abbandonate dal regio esercito all’8 settembre, quando i reparti si sciolsero seminando armi e bagagli; e subito dopo attaccando “caposaldi nemici” – come si canta in “Oltre il ponte” -, disarmando distaccamenti fascisti, stazioni dei carabinieri, convogli in transito. Solo più tardi, e con molte remore e parsimonia (si pensi alla parentesi seguita al “proclama Alexander” che invitava i partigiani a tornarsene a casa), gli alleati, in particolare gli inglesi, e in forme spesso selettive (le formazioni garibaldine ne erano spesso escluse), incominciarono i rifornimenti, che tuttavia ebbero sempre un peso specifico relativo: negli ultimi quattro mesi di guerra, quelli che precedettero il 25 aprile e in cui si ebbe il picco massimo dei rifornimenti, furono paracadutate in tutto 666 tonnellate di “armi e munizioni” (in una tonnellata ci stanno una cinquantina di fucili con dotazione di un migliaio di colpi l’uno, oppure una decina di mitragliatrici, o ancora 5 o 6 mortai con relativo munizionamento molto molto contato). Una minima parte dell’armamento necessario a mettere in campo i 200.000 uomini che si calcola costituissero nel punto di massimo sviluppo l’esercito di liberazione.

 

Quanto alla fornitura da parte di Stati “amici” ai belligeranti, vale l’esempio della guerra civile spagnola dove, fin dal 1936 l’aiuto militare delle cosiddette potenze occidentali fu negato alla repubblica democratica aggredita dai golpisti del generalissimo Franco. La stessa Francia del socialista Leon Blum si astenne dal rifornimento di armi e altri mezzi bellici (si limiterà all’invio semiclandestino di appena 13 caccia e 6 bombardieri privi di armamento), su suggerimento esplicito del governo inglese, entrambi nel timore di una “globalizzazione del conflitto” e accontentandosi della finzione da parte di Mussolini e Hitler di mantenersi neutrali mentre al contrario nei fatti partecipavano  al conflitto. Anche la democraticissima America di Roosevelt si astenne, decretando anzi un blocco navale per intercettare eventuali aiuti stranieri in territorio spagnolo, che si risolse in un vantaggio per i nazionalisti, mentre Stalin esitò a lungo sulla politica degli aiuti, e vi partecipò in modo assai reticente.

Ora si può discutere, in sede storiografica e politica, sull’ opportunità e lungimiranza di quelle decisioni, che non evitarono come è noto il successivo precipitare nel conflitto mondiale e che permisero al fascismo di segnare un punto forte a proprio favore. Ma il precedente può aiutare a ragionare con maggior coscienza di causa sulle caratteristiche e i rischi di politiche simili, e sulla necessità di valutarne l’opportunità con estrema cautela, all’opposto delle scanzonate proclamazioni di politici senza spessore e di statisti improvvisati. La legittimità, in base al diritto internazionale, di fornire armi a uno stato belligerante passa su un crinale molto stretto: lo status di “aggredito” del paese aiutato, e l’esclusione che strumenti letali cadano nelle mani di gruppi colpevoli di crimini contro l’umanità (la prima evidente in Ucraina, la seconda no). Ma le remore politiche per l’iniziativa restano tutte sul terreno, a cominciare dal fatto che per questa via ci si preclude irrimediabilmente la possibilità di un ruolo di mediazione, che sarebbe esattamente quello che l’Europa dovrebbe giocare oggi, predisponendo in modo forte e credibile un tavolo di negoziazione. E soprattutto che avrebbe dovuto praticare in chiave preventiva fino a ieri, cercando di evitare ad ogni costo il precipitare di una crisi devastante per tutti.

Resta così la sgradevolissima sensazione di essere finiti, come individui e come area geo-politica, l’Europa appunto, a fare le pedine di un gioco tra potenze a vocazione imperiale (più o meno fondata, entrambe comunque in declino anche se in misura asimmetrica). Il cui prezzo finirà per essere fatto pagare agli ucraini in primo luogo, e al Vecchio Continente, mai così vecchio e impedito nei movimenti e nel pensiero, immediatamente a seguire.

da qui

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