Il 24
febbraio, quando tutto è incominciato, per un gesto quasi automatico, mi sono
trovato tra le mani Mai tardi, il diario di guerra di mio padre con
le pagine tragiche della ritirata di Russia. Forse perché quella fuga a ritroso
nel tempo, in un lontano orrore conservato nella memoria familiare mi aiutava a
metabolizzare quest’altro orrore contemporaneo affidato al racconto pubblico.
O, più probabilmente, perché quella rilettura mi aiutava a meglio capire la
doppia angoscia che mi veniva dalla sovrapposizione di quelle due temporalità
coesistenti nello stesso territorio. Giocava, in quel grumo emotivo, la
coincidenza cronologica: il 24 febbraio (del 1943) è segnato nel diario come
quello dell’arrivo nel villaggio di Verkievka, finalmente fuori dalla “sacca”
chiusa dai russi sull’Armata italiana, quando il giovane tenente degli alpini
diventato di colpo “vecchio” incominciò a raccogliere i brandelli della propria
vita per rielaborare il suo pensiero sulla guerra, e non solo. Ma soprattutto
mi colpiva la coincidenza geografica: tutte le fasi di quella guerra maledetta
di allora si sono svolte, dall’inizio alla fine, esattamente nelle stesse terre
di quest’altra, di oggi.
Gorlovka, la
stazione d’arrivo dove il 2 agosto (del ’42) il battaglione Tirano fu sbarcato
dalla tradotta e da dove sarebbe incominciata la marcia a piedi verso il Don,
si trova ad appena una novantina di chilometri a nord-ovest di Luhansk, la
capitale dell’autoproclamata repubblica russofona del Donbass. Per raggiungerla
il lungo treno militare aveva attraversato la Polonia, nelle cui stazioni era
ben visibile la presenza dei deportati ebrei, aveva toccato Minsk – con lo
spettacolo lugubre dei grandi cimiteri di guerra -, Gomel con le sue rovine
fumanti, aveva sfiorato Charkiv (con le zone limitrofe controllate dagli
alleati ungheresi di cui “si dice che siano truppe specializzate e terribili,
che impicchino i partigiani [russi] con particolare arte e crudeltà”)
prima di percorrere l’ultimo breve tratto di ferrovia. Appena un centinaio di
chilometri più a sud si vede, sulla carta (uso google earth),
Mariupol. A metà strada, più sulla sinistra, c’è l’oblast di Zaporižžja, oggi
terreno di scontro per il controllo della micidiale centrale nucleare.
Belgorod,
d’altra parte, dove all’inizio di febbraio (del ’43) finì la prima parte della
ritirata, quella più feroce e terribile, e i sopravvissuti misurarono tutta la
portata del disastro (“siamo a pezzi, malati, piú o meno congelati, catarrosi,
con diarrea senza fine, con negli occhi le visioni orrende del nostro
calvario”), sta ad appena una sessantina di chilometri a nord-est di Charkiv.
Mentre Belogorje, all’altro capo della lunga marcia, 330 chilometri più a est,
sulle sponde del Don, dove era attestata la Divisione Tridentina, è già in
territorio russo. E Voroscilovgrad, dove aveva sede l’ospedale-bordello simbolo
della corruzione delle retrovie e il grande cimitero militare in cui erano
seppelliti centinaia e centinaia di soldati italiani morti ancor prima che la
grande tragedia si compisse, non è altro (ancora una volta) che l’attuale
Luhansk, prima che con la fine del “culto della personalità” le fosse cambiato
nome.
Lì il
sottotenente Revelli, ricoverato per una brutta ferita rimediata il 25
settembre in un’azione di pattuglia sul Don, aveva incominciato a capire
qualcosa del Paese che l’aveva mandato a uccidere o a morire, con lo spettacolo
della corruzione, le ruberie da parte degli imboscati, il menefreghismo e il
cinismo dei privilegiati a spese dei poveri cristi in prima linea, tanto da
chiedere anzitempo di ritornare al suo caposaldo dove si rischiava ma non ci si
vergognava. Così come quattro mesi più tardi, il 25 gennaio, poco più a nord,
nella piana tra Nikitovka e Nikolaevka, nella “notte dei pazzi”, che precedette
l’ultimo sfondamento disperato per uscire dalla sacca, nei 40 gradi sotto zero,
con tutto che crollava intorno, le isbe in fiamme, i congelati abbandonati,
l’immensa colonna di sbandati ormai senza guida, e gli occhi dei muli i soli a
esprimere un’umanità ormai perduta dagli uomini, aveva – come scriverà e
ripeterà infinite volte – “capito tutto”. Troppo tardi, ma capito cos’era il
fascismo. E non solo. Quella notte, scriverà, il sottotenente degli alpini in
servizio permanente effettivo Nuto Revelli, allievo scelto dell’Accademia
militare di Modena, ufficiale modello considerato un “najone” per la serietà
con cui interpretava il suo ruolo tanto da aver chiesto nella primavera del ’42
l’invio anticipato sul fronte russo, definito dai superiori “un tedesco”, una
medaglia d’argento appena conferitagli, aveva urlato a sé stesso e perché tutti
sentissero “Non farò mai più l’ufficiale” di quell’esercito. Allora, dichiarerà
in un’intervista molto sofferta a Laura Pariani, “ho maledetto il duce, ho
maledetto il re, ho maledetto (una breve pausa) l’esercito… Ho maledetto (una
pausa più lunga, come se la parola non volesse uscire dai denti) la patria”.
Era incominciata in fondo, allora, la sua “seconda vita” – morto l’alpino
nasceva il partigiano che sarebbe diventato, come scriverà nella canzone dal
titolo terribile, Pietà l’è morta -. La vita dedicata a
combattere il fascismo, ma soprattutto, col fascismo che ne incarnava
l’essenza, la GUERRA. Non avrebbe cessato mai di ripetermelo, tra le mura
domestiche, e di ripeterlo ai tanti studenti incontrati nelle scuole, che la
guerra è il male. Il male assoluto, o, forse meglio, universale.
Ogni guerra, anche la più “giusta”, persino la guerra partigiana, che pur ebbe
per lui un effetto catartico, di riscatto dei tanti morti lasciati nella steppa
e dalla sensazione umiliante si sentirsi “un vinto”, persino quella – mi
ripeteva -porta in sé un’ombra, ti lascia dentro cicatrici che fanno male.
Perché la guerra trasforma gli uomini. Tira fuori il peggio che hanno dentro.
Usava l’aggettivo “bestiale”, come antitesi dell’”umano”. Bisogna evitarla ad
ogni costo, perché una volta scoppiata, il suo effetto di perversione non lo
fermi più, negli altri, e anche in te stesso…
Ci ho
ripensato tante volte, in questi giorni in cui la guerra sembra essersi
impadronita delle menti con la velocità del fulmine. In fondo nessuno detesta
tanto profondamente la guerra quanto chi l’ha conosciuta direttamente. Ne ha
visto l’effetto devastante sui corpi e le anime. E sa la distanza che
passa tra le parole e le cose, tra le retoriche e la realtà “sul campo”. Può
sembrar strano, ma oggi i più prudenti nella generale chiamata alle armi e
nell’evitare uno storytelling bellico irresponsabile – che
contagia come un virus politici, intellettuali da intrattenimento e giornalisti
da talk show –, sono proprio i militari. Quelli veri, intendo, che
sono stati in “zona di operazione”, non quelli da tavolino in un qualche
ufficio stampa. Il generale Fabio Mini, per esempio, che ha comandato l’interforze nel
Kossovo, e che ci ammonisce saggiamente sul pericolo di “credere alla nostra
stessa propaganda”, usando toni e argomenti assai meno enfatici di quelli di un
Enrico Letta, tanto per fare il nome di un politico da cui ci si aspetterebbero
parole di pace e non di guerra. O il generale Giorgio Battisti, presidente
della Commissione Militare del Comitato Atlantico Italiano, che fin dal primo
giorno ha ammonito sul fatto che in guerra “l’informazione è propaganda”, da
entrambe le parti in conflitto, e si è sforzato di raffreddare l’immagine degli scontri in Ucraina come “guerra totale”, che come tale non ammetterebbe
trattativa e quindi sia pur parziale riconoscimento delle ragioni reciproche [con lo stesso approccio anche il direttore di “Analisi Difesa” Gianandrea
Gaiani].
Sono tutti
molto freddi, per non dire ostili, sulla parola d’ordine che va per la maggiore
delle “armi al popolo” ucraino (su cui si vedano in questo sito gli articoli
critici di Tomaso Montanari e di Domenico Gallo). Un tema che mi lacera, e mi fa male – tanto più quando si accompagna al
colpo basso dei riferimento ai partigiani -, perché so che molti miei amici, e
antichi compagni, in sicura buona fede, l’hanno sposata senza remore. Ma con
cui sento il dovere di dissentire, non usando certamente l’argomento, mai
proponibile, di “cosa ne avrebbe detto mio padre”, per la ragione che è sempre
operazione indecente accreditare un ipotetico giudizio sull’attualità a chi è
morto da anni. Ma dicendo quello che, sulla base del suo insegnamento, e dei
criteri di giudizio che mi ha trasmesso, ho maturato oggi, a cominciare dal
fastidio di pelle, pre-politico e trans-storico, per le retoriche dell’”armiamoci
e partite” che mi ha trasmesso. Un’allergia, come dire?, genetica, per le
infatuazioni da “maggio radioso” di chi evoca politiche mortali senza
prefigurarsi le vite (altrui) che quelle pratiche bruceranno (restandosene
peraltro al sicuro lontano dalle concrete conseguenze delle loro parole). E
qui, non da parte di tutti ma certo di tanti, di retorica ce n’è molta, e
ragionamento razionale poco, forse per soffocare il senso di colpa della
propria precedente ignavia e per l’attuale impotenza. Per la frustrazione di
vedere un’ingiustizia compiersi, in un rapporto sproporzionato tra aggredito e
aggressore. Per lo spettacolo di brutalità “putiniana” che ogni giorno irrompe
dal video nelle nostre case e a cui non si riesce a immaginare una risposta
adeguata. L’evocazione delle armi, lo so bene perché in parte non ne sono
immune, in queste circostanze è quasi istintiva, per tentare di saziare una
fame di giustizia.
Ma credo
che anche in queste circostanze, accanto alla weberiana “etica dei
principi”, che si orienta ai valori universali (e astratti), debba praticarsi
la simmetrica “etica della responsabilità” che vede le conseguenze dell’agire e
si sforza di calcolarne l’adeguatezza al fine. E qui l’inadeguatezza, o peggio
la contrapposizione della moltiplicazione delle armi sul terreno rispetto al
fine, se questo è la pace e comunque il risparmio maggiore possibile di
sofferenze e di vite umane, mi pare evidente. Intanto perché quando inizia un
incendio, occorre tentare di soffocarlo sotto una coperta più che gettare
benzina sul fuoco, prima che divampi in modo irreparabile. E poi perché mettere
in conto una quantità di sofferenze e di lutti, anche per chi pratica forme di
realismo politico che non rifiutano a priori armi e violenza, deve presupporre
la possibilità di un qualche sia pur relativo successo: evitare mali peggiori
in termini di sacrifici umani, accelerare la trattativa per favorire la pace
successiva, stabilire un potere di dissuasione credibile verso gli invasori… E
non mi pare questo il caso, in un contesto in cui la sproporzione delle forze
tra la “gente di Kiev” e i tank di Putin appare disperante (perché è di questo
che si tratta quando si parla di “armi al popolo”: di una sorta di sacrificio
testimoniale). In questo caso armare la popolazione civile non inquadrata
militarmente per spingerla alla “resistenza”, avrebbe il solo scopo di produrre
un effetto identificante – noi siamo armi in pugno con voi, anche se poi sono
loro e non noi a morire -, ma scarso peso strategico. O addirittura rischierebbe
di produrre una sorta di “eterogenesi dei fini”, facendo affluire
disordinatamente armi letali a milizie o gruppi non controllati né
controllabili che potrebbero usarle per sabotare possibili accordi e prolungare
le ostilità. O si dovrebbe ricorrere per le consegne all’uso dei contractor,
che come è noto giocano soprattutto in proprio e non certo a scopi umanitari…
Se invece si
tratta, ed è cosa diversa, di armare l’esercito regolare, come sta avvenendo
oggi, a entrare in campo sono gli Stati e la Nato, continuando quello che già è
stato fatto in questi anni riarmando l’Ucraina in vista di uno scontro
puntualmente avvenuto. Ma questo è un altro scenario, che se portato oltre un
certo limite aprirebbe prospettive catastrofiche di conflitto generalizzato e
potenzialmente totale. E’ questo che si vuole? O che si è disposti a rischiare?
E poi, supposto che dopo un periodo più o meno lungo di conflitto endemizzato,
si riuscisse finalmente a terminarlo, magari per estenuazione dei contendenti,
come si pensa che potrebbero riavvicinarsi, dopo essersi a lungo scannati a
vicenda, quei popoli incatenati a territori contigui? Come potrebbero
continuare a parlarsi (in parte parlano la stessa lingua). A scambiarsi beni
(l’Ucraina dipende in gran parte dalla Russia per l’energia). Insomma, a
“con-vivere”?
Un’osservazione
ancora sul tema caldo dei “partigiani”. E sulle pressioni ostili piovute
sull’ANPI da chi ricordava i lanci alleati a favore delle formazioni
combattenti con l’insistente domanda se anche quelli fossero “sbagliati”.
Purtroppo l’uso propagandistico della storia è diventato un brutto vezzo
mediatico, giocato sulla cancellazione delle specificità di contesto e
sull’eticizzazione simbolica di fatti storici tra loro diversi ricondotti a un
unico, semplificato, effetto emotivo. Ma in questo caso l’arbitrarietà
dell’operazione risulta più evidente. Intanto perché la Resistenza in tutta
l’Europa occidentale si è inserita nell’ambito di un conflitto che già da tempo
aveva acquisito carattere mondiale e totale, all’interno del quale le
opportunità di vittoria di uno e dell’altro campo erano in relativo equilibrio.
La possibilità che l’insorgenza di un conflitto “civile” accanto a quello
militare-regolare facesse deflagrare ulteriormente su scala maggiore la guerra,
o che addirittura ne ritardasse un esito negoziale, era escluso; come pure il
carattere meramente sacrificale-testimoniale della partecipazione volontaria
alla lotta partigiana. Condizioni tutte abissalmente diverse – anzi opposte –
rispetto a quelle del conflitto attuale.
Aggiungerei
che l’afflusso di armi alle formazioni combattenti “dall’esterno” – i tanto
citati “lanci”, appunto – ha avuto, nell’economia della Resistenza italiana un
peso secondario: le armi i partigiani se le procurarono soprattutto raccogliendo
quelle abbandonate dal regio esercito all’8 settembre, quando i reparti si
sciolsero seminando armi e bagagli; e subito dopo attaccando “caposaldi nemici”
– come si canta in “Oltre il ponte” -, disarmando distaccamenti fascisti,
stazioni dei carabinieri, convogli in transito. Solo più tardi, e con molte
remore e parsimonia (si pensi alla parentesi seguita al “proclama Alexander”
che invitava i partigiani a tornarsene a casa), gli alleati, in particolare gli
inglesi, e in forme spesso selettive (le formazioni garibaldine ne erano spesso
escluse), incominciarono i rifornimenti, che tuttavia ebbero sempre un peso
specifico relativo: negli ultimi quattro mesi di guerra, quelli che
precedettero il 25 aprile e in cui si ebbe il picco massimo dei rifornimenti,
furono paracadutate in tutto 666 tonnellate di “armi e munizioni” (in una
tonnellata ci stanno una cinquantina di fucili con dotazione di un migliaio di
colpi l’uno, oppure una decina di mitragliatrici, o ancora 5 o 6 mortai con
relativo munizionamento molto molto contato). Una minima parte dell’armamento
necessario a mettere in campo i 200.000 uomini che si calcola costituissero nel
punto di massimo sviluppo l’esercito di liberazione.
Quanto alla
fornitura da parte di Stati “amici” ai belligeranti, vale l’esempio della
guerra civile spagnola dove, fin dal 1936 l’aiuto militare delle cosiddette
potenze occidentali fu negato alla repubblica democratica aggredita dai
golpisti del generalissimo Franco. La stessa Francia del socialista Leon Blum
si astenne dal rifornimento di armi e altri mezzi bellici (si limiterà
all’invio semiclandestino di appena 13 caccia e 6 bombardieri privi di
armamento), su suggerimento esplicito del governo inglese, entrambi nel timore
di una “globalizzazione del conflitto” e accontentandosi della finzione da
parte di Mussolini e Hitler di mantenersi neutrali mentre al contrario nei
fatti partecipavano al conflitto. Anche la democraticissima America di
Roosevelt si astenne, decretando anzi un blocco navale per intercettare eventuali
aiuti stranieri in territorio spagnolo, che si risolse in un vantaggio per i
nazionalisti, mentre Stalin esitò a lungo sulla politica degli aiuti, e vi
partecipò in modo assai reticente.
Ora si può
discutere, in sede storiografica e politica, sull’ opportunità e lungimiranza
di quelle decisioni, che non evitarono come è noto il successivo precipitare
nel conflitto mondiale e che permisero al fascismo di segnare un punto forte a
proprio favore. Ma il precedente può aiutare a ragionare con maggior coscienza
di causa sulle caratteristiche e i rischi di politiche simili, e sulla
necessità di valutarne l’opportunità con estrema cautela, all’opposto delle
scanzonate proclamazioni di politici senza spessore e di statisti improvvisati.
La legittimità, in base al diritto internazionale, di fornire armi a uno stato
belligerante passa su un crinale molto stretto: lo status di “aggredito” del
paese aiutato, e l’esclusione che strumenti letali cadano nelle mani di gruppi
colpevoli di crimini contro l’umanità (la prima evidente in Ucraina, la seconda
no). Ma le remore politiche per l’iniziativa restano tutte sul terreno, a
cominciare dal fatto che per questa via ci si preclude irrimediabilmente la
possibilità di un ruolo di mediazione, che sarebbe esattamente quello che
l’Europa dovrebbe giocare oggi, predisponendo in modo forte e credibile un
tavolo di negoziazione. E soprattutto che avrebbe dovuto praticare in chiave
preventiva fino a ieri, cercando di evitare ad ogni costo il precipitare di una
crisi devastante per tutti.
Resta così
la sgradevolissima sensazione di essere finiti, come individui e come area
geo-politica, l’Europa appunto, a fare le pedine di un gioco tra potenze a
vocazione imperiale (più o meno fondata, entrambe comunque in declino anche se
in misura asimmetrica). Il cui prezzo finirà per essere fatto pagare agli
ucraini in primo luogo, e al Vecchio Continente, mai così vecchio e impedito
nei movimenti e nel pensiero, immediatamente a seguire.
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