Nuovi scenari scaturiscono dai droni houthi
La crisi
umanitaria in Yemen, generata da un grave conflitto militare che non accenna a
estinguersi, viene raccontata a fasi e intensità alterne dai media
internazionali. Letto unicamente attraverso il prisma della rivalità regionale
tra Arabia saudita e Iran, ciò che accade nel paese raccontato da Pasolini tende a guadagnare i titoli delle prime pagine quando
i suoi spillover – cioè gli “sconfinamenti” di un conflitto in un contesto
diverso da quello in cui ha luogo – sono particolarmente visibili, cioè quando
coinvolgono paesi più presenti nel (selettivo) immaginario collettivo
occidentale.
È successo
alla fine del mese di gennaio, quando i ribelli yemeniti di Ansarullah – anche
conosciuti come Houthi – nel giro di due settimane hanno sferrato tre distinti
attacchi con droni e missili balistici negli Emirati Arabi Uniti (uno dei quali
durante la prima visita ufficiale negli Emirati del presidente israeliano Isaac
Herzog) con l’obiettivo di colpire la base militare di Al Dhafra – che ospita
truppe britanniche e americane –, un aeroporto e un deposito di carburante.
Dopo aver intercettato i missili sui cieli di Abu Dhabi, le forze della
coalizione filosaudita, di cui gli emiratini sono parte, hanno bombardato
alcune aree sotto il controllo degli Houthi, tra cui la capitale Sana′a e la
provincia di Saada, cioè l’area dove il movimento si è strutturato negli anni
Novanta.
Lo “Yemen utile”, dimezzato e marginalizzato
Dal punto di
vista formale, la situazione in Yemen appare quasi speculare a quella
determinatasi in Siria: se nel paese levantino l’esercito di Bashar al Assad,
coadiuvato da milizie regionali alleate e soprattutto dall’aviazione russa,
dopo quasi dieci anni di conflitto ha ripreso il controllo della gran parte del
territorio, e anzitutto di quella che gli osservatori definiscono “Siria utile”
(cioè l’area del paese più densamente abitata, lungo la direttrice
Damasco-Aleppo), in Yemen sono oggi i ribelli – quelli emersi nel tempo come i
più organizzati, cioè gli Houthi – a controllare le regioni più abitate, nonché
la capitale Sana′a.
La guerra in
Yemen ha finora prodotto quasi mezzo milione di morti, dei quali il 70 per
cento erano bambini. Secondo la Banca mondiale, su una popolazione iniziale di
30 milioni, oggi in Yemen sono non meno di 20 milioni le persone che hanno
bisogno di assistenza umanitaria permanente, e almeno 14 milioni a soffrire la
fame. Quattro milioni sono gli sfollati, e un bambino su due soffre di
malnutrizione. Lo Yemen era già lo stato arabo più povero – il quartultimo per
Indice di sviluppo umano, dopo Sudan, Mauritania e Gibuti – prima dell’inizio
delle primavere arabe del 2011, e oggi sembra affogare nella più grave crisi
umanitaria del pianeta, trovandosi ai margini della narrazione tanto quanto,
geograficamente, si trova ai margini della regione.
Lo scenario precedente: le “primavere” del 2011
Come si è
arrivati sin qui? Sette anni di feroce conflitto hanno forse contribuito a
rendere sfocato il ricordo del 2011: anche a Sana′a, la capitale del paese, nel
mese di gennaio esplodono proteste popolari estremamente partecipate, proprio
nei giorni successivi alla “cacciata” di Ben Ali in Tunisia. Le proteste – che
prendono di mira anzitutto il presidente Ali Abdullah Saleh – si espandono a
macchia d’olio in brevissimo tempo, e in diverse aree si trasformano in piccole
rivolte, represse duramente. Già ad aprile, un terzo dei diciotto governatorati
dello Yemen sfuggono al controllo del governo.
Come in
tutte le rivolte che aspirano a diventare rivoluzioni, partecipate in modo più
o meno orizzontale dalla società civile, c’è sempre un gruppo più organizzato,
più radicato, più predisposto a prevalere sugli altri nella conquista e nella
successiva gestione del potere, nel sovvertimento delle istituzioni esistenti.
Gli Houthi – perlopiù riconducibili al ramo zaydita dell’Islam
sciita, cioè quello che prende il nome dal pronipote di Ali Ibn Abi Talib,
figura fondante dello sciismo – iniziano a avanzare le loro rivendicazioni e la
loro soggettività politica nella prima metà degli anni Novanta, insistendo
sulla lotta alla corruzione sul piano interno e sull’ostilità verso gli Stati
Uniti, avversando Israele come posizionamento geopolitico. Sin dal principio si
oppongono al presidente dello Yemen, Ali Abdullah Saleh (al potere dal 1990),
riconducendolo all’interno di una narrazione che lo descrive come vassallo
dell’Arabia Saudita, e di riflesso degli Stati Uniti.
Il punto di
svolta, cioè il momento in cui l’opposizione degli Houthi si trasforma in
sistematica insorgenza anche armata – a intensità diverse, nel corso del tempo
– arriva nel 2004: dopo aver rigettato un mandato d’arresto, il leader del
movimento sciita Hussein Badreddine al Houthi viene ucciso dall’esercito
durante un’offensiva a Saada. Da quel momento, sarà il fratello Abdelmalik al
Houthi a guidare il movimento, ed è proprio lui che nel febbraio 2011 dichiara
il suo appoggio alle proteste antigovernative, invitando i suoi a parteciparvi,
soprattutto nella “roccaforte” di Saada.
Intrecci settari: regionalismo imposto al radicamento
territoriale
Non è quindi
un caso che il primo dei sei governatorati a scivolare via dalla giurisdizione
del governo yemenita sarà proprio quello di Saada, che a fine marzo viene
dichiarato indipendente dagli stessi membri di Ansarullah. In questo periodo
inizia anche una fase di polarizzazione settaria con altre formazioni
antigovernative di orientamento sunnita come Al Islah (vaga espressione della
Fratellanza musulmana), accusati dagli Houthi di avere legami con al-Qaeda,
laddove invece gli Houthi, anche alla luce di una effettiva identità di
posizionamenti internazionali, nonché della affiliazione religiosa, vengono
sempre più ricondotti a movimento organico alle strategie internazionali
dell’Iran, rivale regionale dell’Arabia saudita.
Un
importante sviluppo si ha nel novembre 2011, quando gli Houthi, già detenendo
il controllo di una porzione rilevante di territorio, rifiutano un piano
mediato dai paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, che intendeva
dividere lo Yemen in sei regioni federali: secondo i ribelli zayditi, il piano non avrebbe cambiato nulla nella
distribuzione del potere e nella governance, e anzi avrebbe rafforzato la netta
divisione dello Yemen tra regioni ricche e povere. In più avrebbe frazionato
aree già sotto il controllo degli Houthi, che in questo vedevano un tentativo
di indebolirne la posizione negoziale. È la prima vera rottura di portata
regionale, il momento in cui il piano inizia a inclinarsi verso una feroce
guerra civile, alimentata anche da istanze esterne, figlie della proxy war tra Iran e Arabia Saudita.
Milizie. Coperture, forniture, alleanze
È in questo
periodo che Ansarullah entra stabilmente in contatto con l’Iran e la sua orbita di milizie regionali, che forniscono
addestratori e in seguito armi di vario genere. Dopo aver catturato Sana′a nel
2014, gli Houthi resistono ad alcune offensive saudite nella capitale e si
scontrano a Est con formazioni qaediste sotto l’ombrello di Aqap (al Qaeda in the Arabic peninsula).
L’offensiva saudita viene declinata soprattutto dal cielo: secondo lo Yemen
Data Project, sono circa 25.000 i raid aerei sauditi dal 2015 a oggi, con i
picchi più severi nel 2015, 2016 e 2020.
D’altro
canto dal 2016 gli Houthi smettono in qualche modo di essere solo una
formazione dedita alla guerriglia interna – dal 2018 le battaglie più feroci
sono quelle contro gli Amaliqah [i
Giganti], un esercito di circa 20.000 uomini, sostenuto da Dubai – e portano a
termine diversi attacchi oltre confine, prendendo di mira aeroporti, giacimenti
petroliferi e di gas, sia in Arabia Saudita che negli Emirati arabi uniti. Lo
fanno servendosi di armamenti via via più
sofisticati – e sempre più diffusi in movimenti armati che non
possono contare su una copertura aerea – come droni e missili a corto raggio. A
partire dai dati del Center for Strategic and International studies, Riad
avrebbe intercettato circa 4000 tra missili e droni provenienti dalle zone
controllate dagli Houthi negli ultimi 5 anni.
Ed è
interessante notare come Ansarullah sia
entrato in possesso o abbia direttamente assemblato questo tipo di armamenti,
se ancora lo scorso gennaio un report delle Nazioni Unite rilevava la
violazione dell’embargo sulle armi, continuando «ad ottenere componenti
fondamentali per i loro sistemi d’arma da società europee (soprattutto tedesche,
i cui componenti arrivano a Sana′a dopo esser transitate per Atene e Teheran, N.d.R.) e asiatiche, utilizzando una complessa
rete di intermediari per occultare la catena di custodia».
Droni in
dotazione
In modo
simile a quanto fatto da altre milizie sciite, più o meno organiche
all’impalcatura di politica di sicurezza regionale dell’Iran, anche gli Houthi
dal 2019 hanno persino presentato in via semiufficiale una piccola flotta di droni presumibilmente assemblati in
Yemen: si tratta dei velivoli da ricognizione Hudhed 1, Raqib, Rased, Sammad 1
e di quelli da combattimento, Sammad 2, Sammad 3, Qasef 1 e Qasef 2k, questi
ultimi praticamente identici ai droni Ababil di fabbricazione iraniana. Se fino
al 2019 i droni utilizzati erano soprattutto quelli non armati, che però
venivano fatti schiantare contro i radar dei sistemi di difesa della coalizione,
da almeno due anni i droni utilizzati sono caricati con esplosivo e hanno un
raggio più lungo. In sostanza: da qualche anno gli Houthi hanno accresciuto di
molto le loro capacità militari, e questo costituisce uno dei motivi della loro
resilienza a fronte della campagna di bombardamenti sauditi ed emiratini.
Dopo sette
anni dall’inizio dell’offensiva filosaudita, gli Houthi controllano ancora
buona parte dell’area occidentale del paese, che a nord incontra un confine di
1300 km con l’Arabia saudita, mentre a ovest termina sulla costa di fronte allo
stretto di Bab el Mandeb, una cruciale zona di transito commerciale. L’unica
zona occidentale del paese non controllata dai ribelli di Ansarullah è il lembo
di terra costiero a sud, dove sorge la città portuale di Aden, che dal 2019 è
sotto il controllo del Southern Transitional Council a guida saudita-emiratina,
cioè il governo temporaneo dello Yemen, alternativo a quello guidato dagli
Houthi e riconosciuto dalla comunità internazionale.
La guerra finisce con lo Yemen
La guerra in
Yemen racconta anzitutto di una incomunicabilità strategico-militare: da una
parte una coalizione che, a fronte della quota più alta di import
di armi in
tutta la regione e di un dispiegamento di forze senza precedenti, non riesce a
riportare sotto al proprio controllo gran parte di un paese considerato
importante per la propria sicurezza regionale; dall’altra un movimento di
resistenza yemenita, endogeno, ma la cui crescente integrazione con gli
obiettivi regionali iraniani (a loro volta connessi alla propria idea di
sicurezza regionale) ne ha aumentato l’isolamento sia interno – a causa di una
gestione draconiana del potere e delle amministrazioni locali – che
internazionale (il cui ultimo capitolo è l’inserimento nella lista delle
organizzazioni terroristiche).
Il dramma
dello Yemen sta soprattutto in questa incomunicabilità, in grado di protrarre
un conflitto che non sembra poter avere vincitori, né soluzioni politiche che
non passino da un accordo tra Iran e Arabia Saudita, a oggi molto lontano. Gli
Houthi controllano una parte di paese sofferente e isolato, senza poter
disporre dei suoi confini, e dovendo fare i conti con le campagne di
bombardamenti che mirano ad annientarli: un movimento di guerriglia che sembra
sempre più propenso a difendere le proprie posizioni e sempre meno destinato ad
aver un ruolo politico concreto, in un eventuale futuro Yemen pacificato. I sauditi
e gli emiratini, dal canto loro, accanto a una impossibilità di trovare una
soluzione politica, mostrano alla regione una rischiosa inefficacia militare:
non sufficiente a farli desistere, anzi in grado di suggerire pericolosamente
che la guerra in Yemen possa finire soltanto quando sarà finito lo stesso
Yemen.
Nessun commento:
Posta un commento