Nelle banche elvetiche si conserva il 12% del Pil mondiale. È lì, nella
seconda banca del paese, Credit Suisse, nei conti cifrati protetti dal segreto
bancario, che una rete di giornalisti d’inchiesta ha scoperto il connubio tra
business e ogni sorta di malaffare. Ma le autorità di vigilanza dov’erano?
Otto trilioni di euro, o quasi. Il dodici per cento
del Pil mondiale. È quanto le banche svizzere conservano nei propri conti.
Denaro protetto da una storico e paradigmatico segreto bancario, quello
svizzero appunto. Che resta assai “più segreto” che negli altri paesi,
nonostante le tante pressioni dell’opinione pubblica e le richieste di Unione
Europea e istituzioni internazionali alla maggior collaborazione e trasparenza.
Non poteva pertanto che chiamarsi Suisse Secrets l’importante inchiesta
giornalistica su quanto celano i conti di una delle primarie banche elvetiche,
il Credit Suisse, seconda banca del paese (la prima è UBS), che gestisce un
quarto dei citati otto trilioni.
Domenica 20 febbraio il Guardian ha pubblicato un lungo resoconto di quanto
sta emergendo. La testata inglese è uno dei 48 media partner che si sono
occupati del dossier, da Le Monde al New York Times, in un consorzio guidato dal giornale
tedesco Süddeutsche Zeitung e dalla organizzazione non profit Organized crime and
corruption reporting project (Occrp), con la partecipazione
di 163 giornalisti, come spiega bene qui Duccio Facchini.
Le informazioni rivelate toccano i conti collegati a
circa 30.000 clienti, in tutto il mondo, cui afferiscono oltre 100 miliardi di
franchi svizzeri (95 miliardi di euro). Le storie di questo denaro sono varie
ma hanno una costante: si associano sempre a crimini, illeciti, scandali e
malversazioni, insomma qualunque tipo di attività che richieda la necessità di
“pulire” i soldi.
È qui che entra in gioco il segreto bancario. Rinomato
quello svizzero, seppur (flebilmente) indebolito dagli accordi siglati dal
governo elvetico negli ultimi anni. Perché in finanza resta valida una regola
aurea: tutto si può ottenere, pagando il giusto. Allora ecco comparire conti
cifrati, pensati apposta per essere più protetti degli altri. Chiamiamolo
“conto crime”: un conto corrente bancario che offre più segretezza, e per
questo costa di più.
Fatto un prodotto, va venduto. Pertanto i manager
della banca svizzera sono incentivati a offrirlo: in tempi di tassi piatti,
alla ricerca di commissioni per alzare i margini (l’ultimo trimestre 2021 per
il Credit Suisse si è chiuso con una perdita di 1,5 miliardi di euro), il
“conto crime” va promosso presso la clientela che se lo può permettere. E che,
per definizione, ha qualcosa da nascondere.
Dunque, non solo queste pessime prassi attraggono il
denaro proveniente dal crimine, ma chi le può garantire va in cerca di clienti
con tali caratteristiche. Un connubio perfetto tra malaffare e business, che si
avvitano l’uno all’altro.
Dietro i numeri, molte sono le storie nauseanti (no,
non è eccessivo). Ci sono dittatori, criminali di guerra, torturatori, evasori
fiscali, narcotrafficanti. Per chi vuole approfondire, in Italia ne ha
scritto La stampa, ma soprattutto ne scrive il sito IRPI Media (Investigative
Reporting Project Italy), aderenti al consorzio giornalistico globale.
Come ha commentato il premio Nobel Stiglitz, “il
Credit Suisse ha permesso troppo a lungo ai corrotti di continuare a rubare ai
più poveri”. È un’efficace sintesi delle gravi responsabilità di una banca che
esasperando il concetto di segreto bancario ha fatto della complicità con il
crimine un modello di business. Evidente che ciò pone un tema di etica negli
affari. Ma a parere di chi scrive c’è anche dell’altro.
La questione veramente centrale, andando oltre il
folclore e lo scandalo della notizia, diviene: le autorità di vigilanza avevano
elementi per sospettare qualcosa? Una banca di queste proporzioni può assumere
comportamenti così estremi senza che vi siano sospetti da parte di chi deve
controllare? E chi supervisiona ha o non ha strumenti per intervenire?
Sicuramente non è indifferente che il tutto accada in
Svizzera, nel cuore dell’Europa, cioè, ma fuori dal perimetro della vigilanza
della Banca Centrale Europea. Ma quante sono le banche europee coinvolte nelle
transazioni incriminate? Molteplici, per forza: basta scorrere le storie e la
provenienza dei clienti più noti per comprenderlo. E se una banca in una zona
quasi franca fa da hub per
traffici irregolari, le autorità europee e nazionali degli Stati membri
veramente non hanno strumenti per monitorare e intervenire?
Ci sentiamo di dire che no, le cose non stanno così.
Anzi, nell’era della
iper-regolamentazione bancaria, dei big data, dell’intelligenza artificiale al servizio dei
controlli anti riciclaggio, è assai misterioso come tutto ciò possa accadere.
La verità è che il modello di supervisione bancaria
continua ad essere inadeguato. Come già visto troppe volte, la vigilanza arriva
sempre dopo la magistratura, o dopo i giornalisti, come in questo caso. Arriva
cioè quando ormai è troppo tardi e tanti danni, all’economia reale e ai
clienti, sono stati prodotti.
Ecco perché tutto l’impianto di controllo sulle banche
e sulla finanza merita di essere rivisto nella prospettiva di anticipare i
problemi. Le banche, grandi e piccole, sono tempestate da richieste di
controlli formali, burocratici e pedanti, da check list minuziose
che guardano al passato, mentre nessuno – o quasi – si preoccupa di creare
sistemi di attenzione sui fondamentali e sostanziali principi di funzionamento
del business di un istituto finanziario.
Trasparenza (effettiva), qualità della reputazione,
appropriatezza della governance, sono le
chiavi di lettura di ogni attività di intermediazione del denaro. Facendo luce
su di esse, tanto si può capire di una banca, senza aspettare lo spifferatore (whistleblower) di turno, comunque benvenuto.
Guardando all’Italia, non costituisce un buon modello
quanto accaduto quando la trasmissione televisiva Report ha dedicato una
puntata alla vendita di diamanti da parte di MPS, vicenda certamente complessa e
articolata, alla quale però non si può rispondere, come ha fatto la Banca d’Italia, che si tratta di materia fuori
dal perimetro della vigilanza. Una foglia di fico che mette a nudo la
scabrosità delle questioni in gioco.
Non è, infatti, con letture bizantine dei principi di
supervisione bancaria che si potrà evitare che altre banche introducano presto
nel catalogo – occulto o meno – dei propri prodotti un “conto crime” o simili
(perché non un “conto CO2”?). Nell’era della finanza globale, sempre più
concentrata e veloce (cui dedichiamo il ciclo di incontri Money4Nothing), solo una vigilanza che interpreti in modo
dinamico e sostanziale il proprio ruolo avrà concrete chance di tutelare l’interesse generale e fare in
modo che il denaro sia al servizio dello sviluppo economico e civile.
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