Pubblichiamo la relazione tenuta al seminario Esclavage, migration
et citoyenneté. Chemins de dignité et d’égalité, organizzato da
Itaca-Transnational Association for Communities Abroad e da Inca-Cgil, 8-11
maggio 2018, Dakar.
Non c’è dubbio che la chiusura nazionalista e la
xenofobia contro i flussi migratori sono stati i punti di leva principali della
Brexit. Come lo sono stati nella vittoria di Donald Trump negli Usa. E’ questo
il terreno sul quale si è registrata una generale avanzata delle destre
nazionaliste in Europa, sia quando hanno consolidato la maggioranza
parlamentare in Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, sia conquistandola per la
prima volta in Austria. Formazioni politiche analoghe in Finlandia e Slovacchia
fanno parte delle coalizioni di governo. In Danimarca ne sono state escluse, ma
sono saldamente al secondo posto. Anche nei paesi in cui l’ascesa dei partiti
di estrema destra è stata arginata, come in Olanda, Francia e Germania, essi
hanno registrato una significativa crescita che proietta una minacciosa ombra
sullo scenario politico e lo condiziona. Infatti la politica di Macron è di
netta chiusura alle migrazioni in Francia, mentre anche il nuovo governo di
coalizione in Germania si è spostato a destra su questo terreno. Nelle recenti
elezioni italiane i partiti vincitori hanno promesso ulteriori restrizioni
nelle politiche anti-migratorie.
Questi atteggiamenti di chiusura non sono motivati da
alcuna ragione valida. Anzi è dimostrabile che i nuovi flussi migratori
potrebbero portare benefici ai paesi che costituiscono le loro mete, se questi
adottassero politiche di apertura, regolazione e integrazione.
Cercherò di analizzare i dati di fatto e di cercare
una risposta a questa macroscopica contraddizione.
I) In primo luogo, non è vero ciò che partiti e governi conservatori, ma
anche quelli che si autodefiniscono di centro sinistra e perfino le istituzioni
dell’Unione europea fanno credere all’opinione pubblica circa l’entità del
fenomeno.
I paesi nord-occidentali non si trovano di fronte ad
un’invasione di vaste proporzioni e incontrollabile.
Le migrazioni attuali durano da decenni e sono
caratterizzate da un aumento fisiologico. Infatti nel decennio 1990-2000 sono
aumentate dell’1,2% in Europa settentrionale, del 2% in quella centrale, del
2,2% in quella meridionale; mentre negli Usa la crescita è stata del 3,1%. Dal
2000 al 2015 l’incremento è stato maggiore, ma tutt’altro che dilagante: + 4,6%
in Europa settentrionale, + 3,2% in quella centrale, + 5,1% in quella
meridionale e + 2,2% negli Usa[1].
Sicché oggi gli immigrati nati all’estero e
regolarmente censiti corrispondono al 12,3% della popolazione in Francia, al
14,2% in Germania, al 10% in Italia, al 14% in Gran Bretagna, al 13,5% negli
Usa. E occorre aver presente che una parte non piccola di questi immigrati nati
all’estero provengono da altri paesi europei o dall’altra sponda dell’Atlantico
e viceversa [2]
La falsità e il carattere strumentale della propaganda
sulla pretesa minaccia derivante dai flussi migratori diretti verso i paesi
euro-atlantici è dimostrata, in maniera ancor più evidente, da ulteriori dati
di fatto.
Il totale degli immigrati entrati nei paesi dell’Ue,
nel 2016, è stato di 381.000 persone. Se confrontiamo questo numero con i 507
milioni di abitanti dell’Ue più la Gran Bretagna, la sproporzione appare del
tutto evidente e non si vede proprio come gli immigrati, anche se fossero
accolti in blocco, possano far diminuire gli standard di vita della popolazione
residente da più lunga data.
A questa vanno aggiunte altre considerazioni. Nel 2016
il totale di rifugiati, richiedenti asilo, sfollati e altri sotto il mandato
dell’Unhcr, era 65,6 milioni. Di essi coloro che si possono propriamente
definire rifugiati e richiedenti asilo assommavano a circa 25,3 milioni,
provenienti soprattutto da Siria, Afghanistan, Iraq, Sud Sudan, Sudan, Somalia,
Nigeria, Repubblica democratica del Congo. Di questi la maggior parte ha
trovato accoglienza presso i paesi limitrofi. In particolare, Pakistan, Libano,
Iran, Uganda, Etiopia, Giordania, Kenya, Ciad, Camerun ne hanno accolti circa10
milioni[3].
Ma è importante sottolineare anche un altro dato: i
paesi che hanno accolto questi 10 milioni di rifugiati hanno un Pil pro capite
(Ppa) che va da 2.100 a 5.400 $ l’anno. Gli 8 paesi europei che costituiscono
le principali mete (Italia, Spagna, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Austria,
Germania, Svezia) hanno un Pil pro capite che va dai 38.000 ai 51.200 $, vale a
dire più di 10 volte maggiore[4]. Ciò significa che ne potrebbero
accogliere non 380 mila, ma 3,8 milioni in un anno. E questo considerando il
mero Pil. Ma non c’è confronto tra strutture, tecnologie, standard di vita di
paesi come l’Italia, la Francia, la Germania e paesi come il Pakistan,
l’Etiopia, il Camerun…
II) In secondo luogo, proprio i paesi che praticano
politiche di chiusura e respingimento nei confronti dei migranti sono i diretti
responsabili delle due principali cause di quelle migrazioni.
– La prima è dovuta alle guerre imposte dagli Usa e
dai loro più stretti alleati europei (e altri) in Iraq, in Afghanistan, in
Libia. Nonché al rinfocolamento di vecchi conflitti, come quello in Sudan. Come
pure alla strumentalizzazione di vecchie contrapposizioni etniche e religiose
in Medio Oriente e in Africa. Per non dire del sostegno diretto e indiretto
dato a ribellioni contro regimi accusati di dispotismo, ma che in realtà sono
presi di mira perché ostili alla Nato. L’ultimo esempio è quello siriano. Gli
obiettivi propagandati possono variare di volta in volta, ma i metodi adottati
e i risultati raggiunti hanno comportato enormi sofferenze e lutti per le
popolazioni.
Non è certo un caso che i paesi che nel 2016 hanno
contato il maggior numero di rifugiati, profughi e sfollati siano stati quelli
sopra indicati (Siria, Afghanistan, Iraq, Sud Sudan, Sudan, Somalia, Nigeria,
Repubblica democratica del Congo). L’ elenco è indicativo delle manovre
tardo-colonialiste in cui sono coinvolti gli Stati Uniti e alcune delle
maggiori potenze europee.
– Molto più diffusa e varia è la geografia della
seconda e concomitante causa dell’esodo, quella di quanti cercano di fuggire da
condizioni di povertà e sfruttamento divenute insopportabili. Ed è la geografia
della delocalizzazzione produttiva, quella con cui le multinazionali hanno
trasferito parti crescenti della propria attività in paesi con manodopera a
basso o bassissimo costo e che consentono di avere mano libera nello
sfruttamento sia delle persone che delle risorse naturali, senza alcuna remora
per le sofferenze sociali e i danni all’ambiente.
Anche le alterazioni “climatiche” sono connesse alla
rapina e distruzione delle risorse naturali. La ragione di fondo è sempre
quella del rapporto sviluppo-sottosviluppo, quale si è stabilito attraverso il
colonialismo e il neocolonialismo nelle più varie forme.
Il carattere espansivo del capitalismo specie in età industriale
e il suo sfruttamento delle risorse naturali e del lavoro nei paesi meno
sviluppati ha assunto negli ultimi decenni caratteri particolarmente
aggressivi.
Infatti dagli anni ’80 ad oggi ha avuto luogo una
ristrutturazione capitalista che ha accresciuto le diseguaglianze sia tra i
paesi più e meno sviluppati, sia all’interno dei primi che dei secondi.
Tale ristrutturazione si è basata su tre strategie:
1) la massiccia delocalizzazione di attività
produttive in paesi meno sviluppati per sfruttare manodopera a bassissimo costo;
2) l’automazione spinta della produzione grazie ad
applicazioni della microelettronica ai fini della massima riduzione,
intercambiabilità e precarizzazione della manodopera impiegata;
3) il cospicuo e crescente spostamento di capitali
dagli investimenti produttivi alla speculazione finanziaria.
Queste tre strategie hanno modificato profondamente il
mercato internazionale del lavoro, determinando una forte concorrenza al
ribasso delle condizioni di lavoro, della sua retribuzione e regolamentazione.
Con il risultato di una sua crescente mercificazione e precarietà.
Tale precarietà rappresenta un netto peggioramento dei
rapporti di lavoro nei paesi più sviluppati. Ma pesa anche, come un vincolo
quasi obbligato, nei paesi oggetto della delocalizzazione, nei quali il
supersfruttamento del lavoro costituisce il maggior fattore “attrattivo” della
delocalizzazione produttiva e degli investimenti provenienti dall’estero.
Nei paesi di più antico sviluppo la crescente
riduzione dei diritti del lavoro ha cancellato decenni di conquiste sindacali e
politiche che riguardavano non solo le condizioni dei lavoratori, ma la qualità
sociale nel suo complesso.
Nei paesi oggetto della delocalizzazione ad
arricchirsi sono stati i gruppi dominanti e le borghesie locali che hanno
trovato nuove occasioni di affari grazie agli investimenti stranieri. Mentre le
classi lavoratrici hanno visto stagnare e talora peggiorare le proprie
condizioni di vita [5].
Non è vero che la delocalizzazione ha portato benefici
alla popolazione locale. Infatti, non di rado,
ha fatto saltare equilibri economico-sociali di complementarietà tra produzioni
e commerci locali. Né ha diminuito l’emigrazione “economica” di chi non resiste
perché è ai limiti della sussistenza e facilmente va sotto questa soglia.
Alcuni flussi dirigono verso paesi-bacino. Com’era
l’Egitto di Mubarak, la Libia di Gheddafi o sono tuttora Pakistan, Giordania,
Kenya e altri. In molti casi le migrazioni sono interne. Come accade, ad
esempio, per gli sfollati verso i distretti industriali della Cina orientale o
quelli della costa sud-est del Brasile e simili L’abbandono delle campagne e
l’esodo dalle zone più povere si traduce anche nel continuo affollamento delle
periferie nelle megalopoli in tutto il Sud del mondo. Per una parte minoritaria
della popolazione queste migrazioni interne costituiscono una tappa che precede
il difficile e spesso drammatico tentativo di emigrare nei paesi del Nord del
mondo.
Sicché oggi, per la prima volta nella storia,
assistiamo a due migrazioni che procedono in senso inverso.
– Una è quella classica delle persone che dirigono
verso paesi economicamente più sviluppati alla ricerca di lavoro e condizioni
di vita migliori.
– L’altra è costituita dalla delocalizzazione
crescente delle attività produttive da parte di imprese transnazionali, grandi
e medie, alla ricerca di forza lavoro a basso costo nei paesi meno sviluppati e
di cui abbiamo detto. A questo proposito bisogna aggiungere che anche
l’automazione microelettronica nella produzione di beni e servizi, proprio
perché può valersi di manodopera non qualifica e del tutto dipendente dalle macchine,
ha favorito ulteriormente la delocalizzazione in paesi tecnologicamente meno
sviluppati.
L’effetto d’incrocio di queste due migrazioni aumenta
sia i fattori espulsivi che quelli attrattivi dei nuovi flussi migratori.
III) Occorre ristabilire la verità circa la falsa
credenza che viene incoraggiata per giustificare politiche di chiusura e
respingimento dei migranti. Quella secondo cui gli immigrati, “economici” e
”forzati”, sottrarrebbero posti di lavoro e concorrerebbero al ribasso delle
condizioni di lavoro e di vita della popolazione autoctona.
Che si tratti di una convinzione priva di fondamento
risulta evidente anche dal confronto dei dati riguardanti l’immigrazione con
quelli della disoccupazione.
Da questi dati si può vedere che, dopo la crisi del 2008, la disoccupazione ha continuato ad aumentare in Italia e in Francia, mentre negli ultimi 2-3 anni è stata contenuta in Gran Bretagna, è calata negli Usa ed è diminuita decisamente in Germania. Invece l’immigrazione è cresciuta in tutti questi paesi ed in misure non rapportabili a quelle della disoccupazione.
Le cause della disoccupazione nei paesi più sviluppati sono altre e riguardano
le tre principali strategie di massimizzazione dei profitti di cui abbiamo
detto (delocalizzazione produttiva, automazione spinta, finanziarizzazione del
capitale).
IV) Inoltre s’inganna l’opinione pubblica occultando
i vantaggi che deriverebbero da politiche di accoglienza ben organizzate e
capaci di una positiva e graduale integrazione.
– In termini demografici, se consideriamo la
popolazione dei 27 paesi dell’Ue, un cittadino troppo giovane o troppo anziano
per lavorare, dipende da meno di 2 persone in età lavorativa (1,8), che si
ridurranno a 1,5 entro 12 anni. Il che prospetta una situazione insostenibile a
detta della stessa Commissione europea[6].
– Per quanto riguarda le spese sociali, il
mantenimento degli attuali standard di welfare dei cittadini dell’Unione
richiederebbe una base contributiva garantita da un aumento della popolazione
europea di 42 milioni di persone in 5 anni[7]. Cosa concepibile solo attraverso
l’accoglienza e regolarizzazione di un numero di migranti molto maggiore di
quelli che bussano attualmente alle nostre porte.
– In termini fiscali è dimostrato che tasse e
contributi versati dagli immigrati nati all’estero e regolarmente censiti
eccedono di oltre il 60% di tutte le spese di cui beneficiano (come dimostra il
bilancio statale italiano del 2016[8], e lo stesso può dirsi per gli altri
maggiori paesi europei).
– Né è trascurabile il loro apporto all’aumento del
Pil (circa il 9%, sempre in riferimento all’Italia nel 2016[9], ma indicativo anche per gli altri paesi
dell’Ue).
V) Inoltre, non c’è dubbio che i nuovi flussi migratori, se regolati ed
incoraggiati attraverso politiche di apertura ed integrazione, possono portare
ad un accorciamento, sia pure tendenziale e parziale, delle distanze tra Sud e
Nord del mondo. E non c’è dubbio che ciò costituisce un fatto positivo.
Per accennare al solo problema del calo demografico di
cui dicevamo a proposito dei paesi europei (e che riguarda anche il Nord
America). Ad esso corrisponde un andamento opposto in molti paesi del Sud del
mondo, quelli che non hanno ancora spezzato il circolo vizioso tra maggiore
povertà e maggiore popolazione. Ne consegue che la straordinaria crescita della
popolazione mondiale prevista nei prossimi decenni (+ 2,3 mld nel 2050) si
concentrerà per il 91,6 % nei paesi meno sviluppati [10]. Il che costituisce una vera e propria
bomba demografica dagli effetti distruttivi paralleli agli altri grandi
squilibri, ecologici, economici e sociali.
E torniamo alla domanda iniziale: se le cose stanno
così, perché ci si ostina a presentare all’opinione pubblica il fenomeno
migratorio come ingovernabile e minaccioso? E perché questa rappresentazione
falsa e questa chiusura si sono accentuate notevolmente negli ultimi anni?
La risposta non può essere che una: per ragioni
politiche valutate nel breve periodo e nei termini più ristretti.
Quarant’anni di neoliberismo, di capitalismo
autoregolato, cioè obbediente ad una mera logica di mercato (logica di per sé
irresponsabile, perché utilitaria e schiacciata sulla ricerca del vantaggio
contingente ed unilaterale) hanno avuto un costo sociale altissimo nelle
società di più antico sviluppo.
L’aumento delle diseguaglianze comporta che settori
sempre più ampi della popolazione, scivolando lungo la china di tale
peggioramento vivono un crescente malessere sociale e disorientamento politico.
In tali condizioni essi sono particolarmente esposti a strumentalizzazioni
politiche e propagande mistificatrici.
La maggiore di queste riguarda proprio il fenomeno migratorio
e consiste nel dirottare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle vere cause
del malessere facendo credere che i “sacrifici” imposti da politiche
neoliberiste – privatizzazioni, austerità a senso unico, riduzione dei diritti
del lavoro, precarietà e intensificazione del suo sfruttamento, tagli severi ai
sistemi di welfare – siano dovute alla concorrenza degli immigrati ed ai costi
che essi comportano per lo Stato.
Si attuano, in tal modo, meccanismi storicamente ben
noti di controllo e disciplinamento sociale. Si somministrano sicurezze
fittizie attraverso il richiamo a false identità di nazione, razza, civiltà. E
si fanno lievitare sentimenti di chiusura e avversione verso chi viene da
fuori.
In realtà tali chiusure sono funzionali solo alla prosecuzione
di politiche conservatrici e camuffamento degli interessi che le guidano.
Ma proseguire per questa strada ci porta ad un vicolo
cieco perché una società chiusa si preclude quelle trasformazioni che sono
necessarie alla sua evoluzione.
Occorre perciò aprire le nostre società ai
cambiamenti. Cambiamenti di cui l’immigrazione è portatrice tutt’altro che
secondaria con gli apporti e gli scambi antropologici e culturali che rende
possibili.
Stiamo parlando di rapporti e di osmosi ineludibili e
vitali per le popolazioni del Nord come del Sud del mondo.
Note al testo
[1] United Nations. Department of
Economic and Social Affairs, Trends in International Migrant
Stock: The 2016 revision, Table3.
[2] International Organization for
Migration, World Migration Report 2016, Genève 2018, pp.
15-25.
[3] United Nations High Commissioner
for Refugees, Global Trends. Forced Displacement in 2016,
Genève, 2016, pp. 6-7, 60-63.
[4] Central Intelligence
Agency, The World Factbook, Country Comparison: GDP Per Capita (PPP),
2016, (https://www.cia.gov/library/publications/download/download-2016/index.html).
[5] Cfr. I. Masulli, Chi ha cambiato il mondo? La ristrutturazione tardocapitalista,
1970-2012, Editori Laterza, Roma-Bari, 2014, pp. 116 sgg.
[6] European Commission, The 2017 Ageing Report, Luxembourg 2017, Luxembourg
2017, pp.1-7, 9-11.
[7] L. Bershidsky, Europe Doesn’t Have Enough Immigrants, Bloomberg View,
September 4, 2015.
[8] Elaborazione su dati Istat e
Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento delle Finanze.
[9] Fondazione Leone Moressa, Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione, il
Mulino, Bologna 2017, capitolo 4.
[10] United Nations. Department of Economic and Social Affairs, population Division,
World Population Prospect: The 2017 Revision, table 3.
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