mercoledì 23 marzo 2022

Perché i paesi dell’Europa occidentale e gli Stati Uniti respingono i migranti? - Ignazio Masulli

 

 

Pubblichiamo la relazione tenuta al seminario Esclavage, migration et citoyenneté. Chemins de dignité et d’égalité, organizzato da Itaca-Transnational Association for Communities Abroad e da Inca-Cgil, 8-11 maggio 2018, Dakar.

 

Non c’è dubbio che la chiusura nazionalista e la xenofobia contro i flussi migratori sono stati i punti di leva principali della Brexit. Come lo sono stati nella vittoria di Donald Trump negli Usa. E’ questo il terreno sul quale si è registrata una generale avanzata delle destre nazionaliste in Europa, sia quando hanno consolidato la maggioranza parlamentare in Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, sia conquistandola per la prima volta in Austria. Formazioni politiche analoghe in Finlandia e Slovacchia fanno parte delle coalizioni di governo. In Danimarca ne sono state escluse, ma sono saldamente al secondo posto. Anche nei paesi in cui l’ascesa dei partiti di estrema destra è stata arginata, come in Olanda, Francia e Germania, essi hanno registrato una significativa crescita che proietta una minacciosa ombra sullo scenario politico e lo condiziona. Infatti la politica di Macron è di netta chiusura alle migrazioni in Francia, mentre anche il nuovo governo di coalizione in Germania si è spostato a destra su questo terreno. Nelle recenti elezioni italiane i partiti vincitori hanno promesso ulteriori restrizioni nelle politiche anti-migratorie.

Questi atteggiamenti di chiusura non sono motivati da alcuna ragione valida. Anzi è dimostrabile che i nuovi flussi migratori potrebbero portare benefici ai paesi che costituiscono le loro mete, se questi adottassero politiche di apertura, regolazione e integrazione.

Cercherò di analizzare i dati di fatto e di cercare una risposta a questa macroscopica contraddizione.

I) In primo luogo, non è vero ciò che partiti e governi conservatori, ma anche quelli che si autodefiniscono di centro sinistra e perfino le istituzioni dell’Unione europea fanno credere all’opinione pubblica circa l’entità del fenomeno.

I paesi nord-occidentali non si trovano di fronte ad un’invasione di vaste proporzioni e incontrollabile.

Le migrazioni attuali durano da decenni e sono caratterizzate da un aumento fisiologico. Infatti nel decennio 1990-2000 sono aumentate dell’1,2% in Europa settentrionale, del 2% in quella centrale, del 2,2% in quella meridionale; mentre negli Usa la crescita è stata del 3,1%. Dal 2000 al 2015 l’incremento è stato maggiore, ma tutt’altro che dilagante: + 4,6% in Europa settentrionale, + 3,2% in quella centrale, + 5,1% in quella meridionale e + 2,2% negli Usa[1].

Sicché oggi gli immigrati nati all’estero e regolarmente censiti corrispondono al 12,3% della popolazione in Francia, al 14,2% in Germania, al 10% in Italia, al 14% in Gran Bretagna, al 13,5% negli Usa. E occorre aver presente che una parte non piccola di questi immigrati nati all’estero provengono da altri paesi europei o dall’altra sponda dell’Atlantico e viceversa [2]

La falsità e il carattere strumentale della propaganda sulla pretesa minaccia derivante dai flussi migratori diretti verso i paesi euro-atlantici è dimostrata, in maniera ancor più evidente, da ulteriori dati di fatto.

Il totale degli immigrati entrati nei paesi dell’Ue, nel 2016, è stato di 381.000 persone. Se confrontiamo questo numero con i 507 milioni di abitanti dell’Ue più la Gran Bretagna, la sproporzione appare del tutto evidente e non si vede proprio come gli immigrati, anche se fossero accolti in blocco, possano far diminuire gli standard di vita della popolazione residente da più lunga data.

A questa vanno aggiunte altre considerazioni. Nel 2016 il totale di rifugiati, richiedenti asilo, sfollati e altri sotto il mandato dell’Unhcr, era 65,6 milioni. Di essi coloro che si possono propriamente definire rifugiati e richiedenti asilo assommavano a circa 25,3 milioni, provenienti soprattutto da Siria, Afghanistan, Iraq, Sud Sudan, Sudan, Somalia, Nigeria, Repubblica democratica del Congo. Di questi la maggior parte ha trovato accoglienza presso i paesi limitrofi. In particolare, Pakistan, Libano, Iran, Uganda, Etiopia, Giordania, Kenya, Ciad, Camerun ne hanno accolti circa10 milioni[3].

Ma è importante sottolineare anche un altro dato: i paesi che hanno accolto questi 10 milioni di rifugiati hanno un Pil pro capite (Ppa) che va da 2.100 a 5.400 $ l’anno. Gli 8 paesi europei che costituiscono le principali mete (Italia, Spagna, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Austria, Germania, Svezia) hanno un Pil pro capite che va dai 38.000 ai 51.200 $, vale a dire più di 10 volte maggiore[4]. Ciò significa che ne potrebbero accogliere non 380 mila, ma 3,8 milioni in un anno. E questo considerando il mero Pil. Ma non c’è confronto tra strutture, tecnologie, standard di vita di paesi come l’Italia, la Francia, la Germania e paesi come il Pakistan, l’Etiopia, il Camerun…

II) In secondo luogo, proprio i paesi che praticano politiche di chiusura e respingimento nei confronti dei migranti sono i diretti responsabili delle due principali cause di quelle migrazioni.

– La prima è dovuta alle guerre imposte dagli Usa e dai loro più stretti alleati europei (e altri) in Iraq, in Afghanistan, in Libia. Nonché al rinfocolamento di vecchi conflitti, come quello in Sudan. Come pure alla strumentalizzazione di vecchie contrapposizioni etniche e religiose in Medio Oriente e in Africa. Per non dire del sostegno diretto e indiretto dato a ribellioni contro regimi accusati di dispotismo, ma che in realtà sono presi di mira perché ostili alla Nato. L’ultimo esempio è quello siriano. Gli obiettivi propagandati possono variare di volta in volta, ma i metodi adottati e i risultati raggiunti hanno comportato enormi sofferenze e lutti per le popolazioni.

Non è certo un caso che i paesi che nel 2016 hanno contato il maggior numero di rifugiati, profughi e sfollati siano stati quelli sopra indicati (Siria, Afghanistan, Iraq, Sud Sudan, Sudan, Somalia, Nigeria, Repubblica democratica del Congo). L’ elenco è indicativo delle manovre tardo-colonialiste in cui sono coinvolti gli Stati Uniti e alcune delle maggiori potenze europee.

– Molto più diffusa e varia è la geografia della seconda e concomitante causa dell’esodo, quella di quanti cercano di fuggire da condizioni di povertà e sfruttamento divenute insopportabili. Ed è la geografia della delocalizzazzione produttiva, quella con cui le multinazionali hanno trasferito parti crescenti della propria attività in paesi con manodopera a basso o bassissimo costo e che consentono di avere mano libera nello sfruttamento sia delle persone che delle risorse naturali, senza alcuna remora per le sofferenze sociali e i danni all’ambiente.

Anche le alterazioni “climatiche” sono connesse alla rapina e distruzione delle risorse naturali. La ragione di fondo è sempre quella del rapporto sviluppo-sottosviluppo, quale si è stabilito attraverso il colonialismo e il neocolonialismo nelle più varie forme.

Il carattere espansivo del capitalismo specie in età industriale e il suo sfruttamento delle risorse naturali e del lavoro nei paesi meno sviluppati ha assunto negli ultimi decenni caratteri particolarmente aggressivi.

Infatti dagli anni ’80 ad oggi ha avuto luogo una ristrutturazione capitalista che ha accresciuto le diseguaglianze sia tra i paesi più e meno sviluppati, sia all’interno dei primi che dei secondi.

Tale ristrutturazione si è basata su tre strategie:

1) la massiccia delocalizzazione di attività produttive in paesi meno sviluppati per sfruttare manodopera a bassissimo costo;

2) l’automazione spinta della produzione grazie ad applicazioni della microelettronica ai fini della massima riduzione, intercambiabilità e precarizzazione della manodopera impiegata;

3) il cospicuo e crescente spostamento di capitali dagli investimenti produttivi alla speculazione finanziaria.

Queste tre strategie hanno modificato profondamente il mercato internazionale del lavoro, determinando una forte concorrenza al ribasso delle condizioni di lavoro, della sua retribuzione e regolamentazione. Con il risultato di una sua crescente mercificazione e precarietà.

Tale precarietà rappresenta un netto peggioramento dei rapporti di lavoro nei paesi più sviluppati. Ma pesa anche, come un vincolo quasi obbligato, nei paesi oggetto della delocalizzazione, nei quali il supersfruttamento del lavoro costituisce il maggior fattore “attrattivo” della delocalizzazione produttiva e degli investimenti provenienti dall’estero.

Nei paesi di più antico sviluppo la crescente riduzione dei diritti del lavoro ha cancellato decenni di conquiste sindacali e politiche che riguardavano non solo le condizioni dei lavoratori, ma la qualità sociale nel suo complesso.

Nei paesi oggetto della delocalizzazione ad arricchirsi sono stati i gruppi dominanti e le borghesie locali che hanno trovato nuove occasioni di affari grazie agli investimenti stranieri. Mentre le classi lavoratrici hanno visto stagnare e talora peggiorare le proprie condizioni di vita [5].

Non è vero che la delocalizzazione ha portato benefici alla popolazione locale. Infatti, non di rado,
ha fatto saltare equilibri economico-sociali di complementarietà tra produzioni e commerci locali. Né ha diminuito l’emigrazione “economica” di chi non resiste perché è ai limiti della sussistenza e facilmente va sotto questa soglia.

Alcuni flussi dirigono verso paesi-bacino. Com’era l’Egitto di Mubarak, la Libia di Gheddafi o sono tuttora Pakistan, Giordania, Kenya e altri. In molti casi le migrazioni sono interne. Come accade, ad esempio, per gli sfollati verso i distretti industriali della Cina orientale o quelli della costa sud-est del Brasile e simili L’abbandono delle campagne e l’esodo dalle zone più povere si traduce anche nel continuo affollamento delle periferie nelle megalopoli in tutto il Sud del mondo. Per una parte minoritaria della popolazione queste migrazioni interne costituiscono una tappa che precede il difficile e spesso drammatico tentativo di emigrare nei paesi del Nord del mondo.

Sicché oggi, per la prima volta nella storia, assistiamo a due migrazioni che procedono in senso inverso.

– Una è quella classica delle persone che dirigono verso paesi economicamente più sviluppati alla ricerca di lavoro e condizioni di vita migliori.

– L’altra è costituita dalla delocalizzazione crescente delle attività produttive da parte di imprese transnazionali, grandi e medie, alla ricerca di forza lavoro a basso costo nei paesi meno sviluppati e di cui abbiamo detto. A questo proposito bisogna aggiungere che anche l’automazione microelettronica nella produzione di beni e servizi, proprio perché può valersi di manodopera non qualifica e del tutto dipendente dalle macchine, ha favorito ulteriormente la delocalizzazione in paesi tecnologicamente meno sviluppati.

L’effetto d’incrocio di queste due migrazioni aumenta sia i fattori espulsivi che quelli attrattivi dei nuovi flussi migratori.

III) Occorre ristabilire la verità circa la falsa credenza che viene incoraggiata per giustificare politiche di chiusura e respingimento dei migranti. Quella secondo cui gli immigrati, “economici” e ”forzati”, sottrarrebbero posti di lavoro e concorrerebbero al ribasso delle condizioni di lavoro e di vita della popolazione autoctona.

Che si tratti di una convinzione priva di fondamento risulta evidente anche dal confronto dei dati riguardanti l’immigrazione con quelli della disoccupazione.

Da questi dati si può vedere che, dopo la crisi del 2008, la disoccupazione ha continuato ad aumentare in Italia e in Francia, mentre negli ultimi 2-3 anni è stata contenuta in Gran Bretagna, è calata negli Usa ed è diminuita decisamente in Germania. Invece l’immigrazione è cresciuta in tutti questi paesi ed in misure non rapportabili a quelle della disoccupazione.

Le cause della disoccupazione nei paesi più sviluppati sono altre e riguardano le tre principali strategie di massimizzazione dei profitti di cui abbiamo detto (delocalizzazione produttiva, automazione spinta, finanziarizzazione del capitale).

IV) Inoltre s’inganna l’opinione pubblica occultando i vantaggi che deriverebbero da politiche di accoglienza ben organizzate e capaci di una positiva e graduale integrazione.

– In termini demografici, se consideriamo la popolazione dei 27 paesi dell’Ue, un cittadino troppo giovane o troppo anziano per lavorare, dipende da meno di 2 persone in età lavorativa (1,8), che si ridurranno a 1,5 entro 12 anni. Il che prospetta una situazione insostenibile a detta della stessa Commissione europea[6].

– Per quanto riguarda le spese sociali, il mantenimento degli attuali standard di welfare dei cittadini dell’Unione richiederebbe una base contributiva garantita da un aumento della popolazione europea di 42 milioni di persone in 5 anni[7]. Cosa concepibile solo attraverso l’accoglienza e regolarizzazione di un numero di migranti molto maggiore di quelli che bussano attualmente alle nostre porte.

– In termini fiscali è dimostrato che tasse e contributi versati dagli immigrati nati all’estero e regolarmente censiti eccedono di oltre il 60% di tutte le spese di cui beneficiano (come dimostra il bilancio statale italiano del 2016[8], e lo stesso può dirsi per gli altri maggiori paesi europei).

– Né è trascurabile il loro apporto all’aumento del Pil (circa il 9%, sempre in riferimento all’Italia nel 2016[9], ma indicativo anche per gli altri paesi dell’Ue).

V) Inoltre, non c’è dubbio che i nuovi flussi migratori, se regolati ed incoraggiati attraverso politiche di apertura ed integrazione, possono portare ad un accorciamento, sia pure tendenziale e parziale, delle distanze tra Sud e Nord del mondo. E non c’è dubbio che ciò costituisce un fatto positivo.

Per accennare al solo problema del calo demografico di cui dicevamo a proposito dei paesi europei (e che riguarda anche il Nord America). Ad esso corrisponde un andamento opposto in molti paesi del Sud del mondo, quelli che non hanno ancora spezzato il circolo vizioso tra maggiore povertà e maggiore popolazione. Ne consegue che la straordinaria crescita della popolazione mondiale prevista nei prossimi decenni (+ 2,3 mld nel 2050) si concentrerà per il 91,6 % nei paesi meno sviluppati [10]. Il che costituisce una vera e propria bomba demografica dagli effetti distruttivi paralleli agli altri grandi squilibri, ecologici, economici e sociali.

E torniamo alla domanda iniziale: se le cose stanno così, perché ci si ostina a presentare all’opinione pubblica il fenomeno migratorio come ingovernabile e minaccioso? E perché questa rappresentazione falsa e questa chiusura si sono accentuate notevolmente negli ultimi anni?

La risposta non può essere che una: per ragioni politiche valutate nel breve periodo e nei termini più ristretti.

Quarant’anni di neoliberismo, di capitalismo autoregolato, cioè obbediente ad una mera logica di mercato (logica di per sé irresponsabile, perché utilitaria e schiacciata sulla ricerca del vantaggio contingente ed unilaterale) hanno avuto un costo sociale altissimo nelle società di più antico sviluppo.

L’aumento delle diseguaglianze comporta che settori sempre più ampi della popolazione, scivolando lungo la china di tale peggioramento vivono un crescente malessere sociale e disorientamento politico. In tali condizioni essi sono particolarmente esposti a strumentalizzazioni politiche e propagande mistificatrici.

La maggiore di queste riguarda proprio il fenomeno migratorio e consiste nel dirottare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle vere cause del malessere facendo credere che i “sacrifici” imposti da politiche neoliberiste – privatizzazioni, austerità a senso unico, riduzione dei diritti del lavoro, precarietà e intensificazione del suo sfruttamento, tagli severi ai sistemi di welfare – siano dovute alla concorrenza degli immigrati ed ai costi che essi comportano per lo Stato.

Si attuano, in tal modo, meccanismi storicamente ben noti di controllo e disciplinamento sociale. Si somministrano sicurezze fittizie attraverso il richiamo a false identità di nazione, razza, civiltà. E si fanno lievitare sentimenti di chiusura e avversione verso chi viene da fuori.

In realtà tali chiusure sono funzionali solo alla prosecuzione di politiche conservatrici e camuffamento degli interessi che le guidano.

Ma proseguire per questa strada ci porta ad un vicolo cieco perché una società chiusa si preclude quelle trasformazioni che sono necessarie alla sua evoluzione.

Occorre perciò aprire le nostre società ai cambiamenti. Cambiamenti di cui l’immigrazione è portatrice tutt’altro che secondaria con gli apporti e gli scambi antropologici e culturali che rende possibili.

Stiamo parlando di rapporti e di osmosi ineludibili e vitali per le popolazioni del Nord come del Sud del mondo.

Note al testo

[1] United Nations. Department of Economic and Social Affairs, Trends in International Migrant Stock: The 2016 revision, Table3.

[2] International Organization for Migration, World Migration Report 2016, Genève 2018, pp. 15-25.

[3] United Nations High Commissioner for Refugees, Global Trends. Forced Displacement in 2016, Genève, 2016, pp. 6-7, 60-63.

[4] Central Intelligence Agency, The World Factbook, Country Comparison: GDP Per Capita (PPP), 2016, (https://www.cia.gov/library/publications/download/download-2016/index.html).

[5] Cfr. I. Masulli, Chi ha cambiato il mondo? La ristrutturazione tardocapitalista, 1970-2012, Editori Laterza, Roma-Bari, 2014, pp. 116 sgg.

[6] European Commission, The 2017 Ageing Report, Luxembourg 2017, Luxembourg 2017, pp.1-7, 9-11.

[7] L. Bershidsky, Europe Doesn’t Have Enough Immigrants, Bloomberg View, September 4, 2015.

[8] Elaborazione su dati Istat e Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento delle Finanze.

[9] Fondazione Leone Moressa, Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione, il Mulino, Bologna 2017, capitolo 4.

[10] United Nations. Department of Economic and Social Affairs, population Division, World Population Prospect: The 2017 Revision, table 3.

da qui

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