Un crescente rigurgito di populismo forcaiolo sta infettando come un virus
i paesi di ogni parte del mondo, contaminando il senso della giustizia e
precipitandoci verso l’arcaico e vendicativo principio biblico dell’“occhio per
occhio”, che invade ormai come erba infestante gli orti dei diritti umani,
sanciti nelle sempre più ingiallite e inascoltate Costituzioni delle nazioni
democratiche. In testa a queste nazioni, gli Stati uniti rappresentano un
pessimo punto di riferimento, con un modello di giustizia penale che riporta le
lancette della civiltà ai fasti medievali: hanno nelle loro prigioni quasi un
quarto dei detenuti dell’intero pianeta e sono l’ultimo e unico paese
occidentale a prevedere e attuare la pena di morte. Inoltre il sistema
giudiziario statunitense ha una natura palesemente discriminatoria, classista e
razzista. Infatti tutte le statistiche rivelano che, percentualmente, i nativi
americani sono al primo posto, seguiti a ruota dagli afroamericani, nella truce
classifica dei condannati da rinchiudere in cella o da spedire nelle mani dei
boia di Stato.
Tra i prigionieri nativi americani spicca Leonard
Peltier, il 77enne Lakota/Anishnabe, tra i fondatori dell’AIM (American Indian
Movement) e simbolo di una resistenza indigena che dura da più di 500 anni.
Leonard è rinchiuso nel penitenziario di massima sicurezza di Coleman I, in
Florida, da quasi 47 anni, condannato ingiustamente a due ergastoli per un
delitto che non ha mai commesso. Il 28 gennaio scorso, purtroppo, era anche
risultato positivo al Covid-19 ed ora ci sono molti appelli e mobilitazioni in
varie parti del mondo per chiederne la liberazione e permettergli cure
adeguate. Un’indagine della Reuters, prima della pandemia, aveva denunciato un
tasso di mortalità di oltre 3000 detenuti ogni anno, poi la gestione
dell’emergenza sanitaria nelle carceri statunitensi ha causato tassi di
contagio esorbitanti: in alcuni Stati più della metà dei detenuti si sarebbe
infettata, secondo un rapporto della Marshall Project News Agency.
Oltre alla storia del prigioniero politico Peltier, si ricordano altre
vicende giudiziarie emblematiche meno note, come ad esempio quella di James
“Occhio d’Aquila” Weddel. Nel libro Guerriero Dakota,
curato dalla giornalista italiana Gloria Mattioni, James avvertiva: «Se hai la
sventura di essere indiano, i tuoi famigliari ti piangeranno per morto già sui
banchi del tribunale, al momento della sentenza» – aggiungendo con la sua
ficcante ironia che «Se Gesù Cristo fosse nato indiano, qui negli Stati uniti,
sarebbe stato condannato per pedofilia soltanto per aver detto “lasciate che i
bambini vengano a me”.»
Poi c’è stata la vicenda del cherokee Scotty Lee Moore, ucciso dal boia
dell’Oklahoma, dopo aver passato metà della sua vita nelle peggiori carceri,
fino a sperimentare le atrocità del penitenziario di Mc Alester, il primo
costruito interamente nel sottosuolo: «Da allora non vedo un albero, un uccello
o un raggio di sole» – denunciò in una sua lettera – «sono seppellito in questa
tomba di cemento 24 ore al giorno. Persino le cinque ore d’aria settimanali si
svolgono sottoterra, in uno stanzone con un lucernario sul tetto. Se ho
imparato qualcosa in questi anni di carcere, è l’abisso incolmabile tra ricchi
e poveri. In America la giustizia è direttamente proporzionata al tuo conto in
banca. Nel braccio della morte non troverai mai uno con la grana, ma solo
minoranze, ritardati mentali, poveracci, analfabeti». Scotty fu adottato dai
suoi amici di penna italiani, che riuscirono a portare via il suo corpo senza
vita dalla prigione. Le sue ceneri infatti si trovano seppellite nel piccolo
cimitero di Manarola, in Liguria.
Nel braccio della morte sono finiti anche il White
Mountain Apache Domingo Cantu, il cherokee Clarence Ray Allen e lo
yaqui Fernando Eros Caro. Spedito giovanissimo nel braccio texano di
Huntsville, Domingo Cantu si dichiarò sempre innocente del crimine per cui fu
accusato. Oltretutto, nei processi penali, una legge prevede che ci siano
almeno il 15% di giurati di origine nativa ma, come lo stesso Cantu affermava
in una sua denuncia: «La giuria che mi aveva incriminato era tutta composta da
bianchi ed era formata da sostenitori politici dei giudici e da parenti del
presidente della Corte. Ciò violava il mio diritto costituzionale di esigere
che la giuria fosse composta da membri largamente rappresentativi della
comunità. Una giuria formata da giudici-avvocati, dai loro amici e colleghi, i
loro figli e cognati è sbagliata, sbagliata, sbagliata!»
Ray Allen è stata la seconda persona più
anziana di sempre a sdraiarsi su un lettino di morte ed anche l’ultimo
condannato finito nelle mani dei boia istituzionali della California, dopo aver
prima passato trent’anni in una piccola cella del vecchio carcere di San Quentin.
È stato ucciso con un’iniezione letale il giorno del suo 76esimo compleanno,
benché fosse gravemente disabile, cieco, su una sedia a rotelle e due volte
infartuato. A nulla valsero gli appelli alla clemenza giunti da ogni parte del
mondo. Allen fu condannato mentre era già in prigione, grazie alla
testimonianza estorta con inganni e minacce ad uno dei suoi figli, all’epoca
tossicodipendente, che gli imputava di essere il mandante di una rapina finita
male, dove rimasero uccise tre persone. In seguito, la dichiarazione giurata e
sottoscritta, che lo stesso figlio di Allen portò per scagionare il padre e
ristabilire la verità, venne respinta in ogni sede. Vale a dire che uno stesso
testimone è stato ritenuto credibile per mandare a morte una persona, ma non credibile
quando si è trattato di salvarle la vita.
Infine il caso di Fernando Caro, che durante il
processo venne fisicamente e psicologicamente vessato dal personale della
prigione e minacciato di morte dagli altri detenuti. Venne tenuto sotto stretta
sorveglianza per la preoccupazione di un suo possibile suicidio e gli furono
somministrati dei farmaci che gli causarono perdita di memoria, letargia,
depressione e psicosi. Lo psichiatra chiamato dalla corte non trovò niente di
meglio che consigliare all’imputato di suicidarsi. La sua richiesta di appello
che chiedeva la revisione delle decisioni del suo processo fu rifiutata per
motivi tecnici. Alla notizia del rifiuto della corte federale, Caro scrisse:
«Nella mia richiesta di appello c’erano molte cose che avrebbero messo in
discussione il giudizio che ho subito. Sono state raccolte molte prove che
avrebbero dimostrato la mia innocenza e c’erano anche degli esperti disponibili
a pronunciarsi in mio favore con dei test che mi avrebbero scagionato. Quando il
mio avvocato mi ha detto che la richiesta di appello era stata respinta, è
stato come ricevere uno schiaffo in piena faccia. Adesso sono qui, con la testa
stretta tra le mani, a cercare di convincermi che tutto questo non sia vero».
Assieme a Ray Allen, Caro aveva un’intensa relazione epistolare con molte
persone in Italia, anche con molte classi scolastiche di alunni e studenti.
Malgrado la malattia, l’età avanzata e un contesto terribile, Leonard
ancora resiste, ma James, Scotty, Domingo, Ray e Fernando sono tutti morti,
vittime di un tritacarne giudiziario per cui sembra valere ancora il vecchio
motto yankee: «l’unico indiano buono è l’indiano morto». In una lettera spedita
poco prima del suo decesso, Fernando Caro si augurava che «Se un giorno riuscirò
a uscire, libero da questa casa di ferro, passerò il resto della mia vita a
lottare contro la pena di morte, perché si può vivere, si può morire, ma
nessuno dovrebbe vivere aspettando di morire».
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