Un’ipotesi fin troppo facile
Il fenomeno è noto e spaventoso: a fronte
di quanto sta accadendo, la gran parte dei nostri connazionali non trova niente
da obiettare, neanche quando il governo manda uomini armati alle fermate degli
autobus per controllare il GP dei ragazzini. Qui come altrove, i meno alienati
abbassano gli occhi e tirano dritto; gli altri neppure vedono.
Si è parlato di strage delle coscienze, di
immensa vergogna, di maledizione pandemica. Un’ottava piaga biblica che ha
colpito in modo strano, trasversale a qualsiasi categoria socio-economica,
lasciando a terra moltissimi fra quelli che credevamo più attrezzati,
resistenti, attenti: l’antagonismo e la “sinistra di movimento”, insomma, ivi
inclusa larga parte del femminismo, delle forze LGBTQ+ e delle realtà solidali
con i sans papiers, che sembrano cadute in una sorta di
rimozione a getto continuo di ciò che, pure, è sotto i nostri occhi. Troia brucia, ha scritto Wolf
Bukowski, ma guai alle Cassandre che lo dicono.
Cos’ha reso possibile un simile cedimento
politico, cognitivo, psichico ed emotivo? In una serie di quattro testi scritti
fra agosto e novembre 2021 (si trovano qui: 1, 2, 3, 4), il compagno Nicola ha
identificato alcune cause strutturali profonde: (1) l’incrocio fra la
precarietà esistenziale degli ultimi decenni e l’ideologia individualista, che
induce a puntare tutto sul magic bullet vaccinale
per poter tornare il prima possibile a produrre e consumare; (2) lo sbarramento
mediatico opposto agli scienziati dissidenti che li ha indotti, spesso, a
portare i loro argomenti su siti alternativi destrorsi; (3) la scomparsa del
movimento operaio e della sua contronarrazione; (4) la confusione fra la
collettività che protegge, e che è da proteggere, e lo Stato; (5) la confusione
fra la libertà individuale di destra (quella dell’individuo borghese di
sfruttare e consumare) e la pura e semplice libertà di vivere; (6) l’infantile
entusiasmo per il presunto blocco dell’economia di una parte della compagneria,
incapace di avvedersi che quel “blocco” significava solo la vittoria di alcune,
specifiche bande del capitalismo contro altre ormai obsolete.
È un’analisi che sottoscriviamo
completamente, a cui, a mo’ d’integrazione psico-antropologica, vorremmo
aggiungere un pezzetto. È in questione un elemento che gli “sprofondati nel
fango” colgono con maggior chiarezza: il livello di indifferenza,
acquiescenza e unanimità della maggioranza ha qualcosa di anomalo,
al punto da far immaginare che sia l’esito di un processo specifico.
Facciamo dunque la nostra scommessa.
Poiché spesso, nel disastro che chiamiamo storia, l’ingrediente segreto dei
fenomeni è la violenza, proponiamo di leggere l’ottundimento e la dissociazione
che vediamo intorno a noi come effetto di un processo traumatico funzionale
all’estensione, a parte delle popolazioni ricche, di quella stessa violenza
strutturale che, nella più scontata quotidianità, regola i rapporti fra
territori, classi sociali, gruppi etnici e soggetti.
Violenza strutturale, ovvero, ciò che non
si deve vedere
Cominciamo dal quadro generale che fa da
sfondo all’ipotesi: quello di una sostanziale, globale ingiustizia mantenuta
con la forza. David Graeber ha scritto che la violenza strutturale è in azione
in quelle zone della vita umana che, di solito, mettono gli antropologi a
disagio: le zone di asprezza, semplificazione, smemoratezza e totale stupidità
nelle nostre vite rese possibili dalla violenza. Con “violenza”, qui, non mi
riferisco al genere di atti, sporadici e spettacolari, a cui di solito pensiamo
quando la parola viene pronunciata, ma alle forme noiose, monotone e tuttavia
onnipresenti di violenza che definiscono le condizioni stesse della nostra
esistenza; alle minacce, velate o palesi, di forza fisica che stanno dietro a
pressoché tutto, dall’applicazione delle regole su dove è permesso sedersi,
stare, mangiare o bere nei parchi e in altri luoghi pubblici, fino alle
minacce, all’intimidazione fisica e agli attacchi che sorreggono l’applicazione
delle regole tacite di genere. Propongo di definirle zone di semplificazione
violenta. Ci colpiscono in quasi tutti gli aspetti delle nostre vite. E però, a
nessuno piace parlarne.
Somma di tutte le forme di esclusione,
marginalizzazione e ineguaglianza sociale sostenute, in ultima analisi, dalla
minaccia di aggressione fisica, la violenza strutturale è lo sfondo stesso dei
nostri decorosi anni neoliberisti. Proprio per questo,
forse, gode di uno strano regime percettivo: ben visibile dal fondo della
piramide sociale, si fa sempre più opaca mano a mano che si sale verso il
vertice. Ne sanno qualcosa gli afroamericans negli
USA, i migranti in Europa, i carcerati, gli homeless. Anche
quando l’aggressione è differita, gli effetti della minaccia sono tragicamente
reali: basta osservare l’andamento della vita media nei diversi quartieri di
una città, la correlazione fra classe sociale e frequenza scolastica, il peso
della disabilità e della malattia in base al reddito.
In quanto bianchi e cittadini di una
nazione ricca, nella seconda metà del Novecento siamo stati dal lato
(relativamente) sicuro della barricata, con accesso a un certo grado di
benessere materiale e di privilegio geopolitico e con la possibilità di
disvedere molta della violenza prodotta dal sistema. Già da un po’, però, fra
l’erosione degli istituti collettivi (sanità, scuola, sindacati, associativismo
ecc.) e la fragilizzazione individuale (v. l’epidemia di depressione degli
scorsi decenni), questa posizione di vantaggio è sotto attacco. Dopo la crisi
finanziaria del 2008, un brusco processo di riproletarizzazione ha
investito la popolazione occidentale generale: dall’aumento dei morti sul
lavoro ai tagli alla sanità, dalla macelleria sociale targata UE all’aumento
esponenziale del costo della vita, dalle patologie del vuoto ai suicidi in età
giovanile. In questo quadro, la pandemia è arrivata come un’occasione d’oro per
instaurare, con le maniere forti, le condizioni di violenza strutturale oggi più
utili al plusvalore: la gestione pandemica nella sua interezza può essere letta
come un esempio da manuale di shock economy (o,
se si preferisce, di accumulazione originaria) e il confinamento
della primavera 2020 come dispositivo inaugurale di rieducazione politica alle
nuove condizioni del capitalismo informatico.
Violenza puntuale al servizio della
violenza di sistema: il trauma iniziale, che qui proviamo a descrivere, non è
fine a se stesso, la sua azione a breve e medio termine è funzionale
all’instaurazione a lungo termine di condizioni generali peggiori, all’estensione della violenza strutturale a
una parte più ampia della popolazione.
È qualcosa che abbiamo gli strumenti
disciplinari per intravedere e cominciare a descrivere, ma che non possiamo
pienamente giustificare con un’analisi scientifica comme il faut, che richiederebbe un paio d’anni di
lavoro. Inoltre, noi stessi ci troviamo nel pieno del “travaglio del concetto”,
troppo immersi nell’oggi per essere completamente lucidi. Ci scusiamo quindi
per la mancanza di dati quantitativi, per gli esempi aneddotici e per
un’impostazione che resta, nonostante le nostre intenzioni, impressionista. Se
ci risolviamo a pubblicare è perché crediamo che, nello stringere dei tempi,
qualsiasi strumento “buono per pensare” debba essere subito messo a
disposizione di tutti.
Violenza traumatica, ovvero, il
dispositivo-lockdown
Fatte salve alcune aree dell’Italia del
nord, nella memoria collettiva la pandemia è iniziata “davvero” fra l’8 e il 10
marzo 2020, con la progressiva estensione della zona rossa all’intero
territorio nazionale. L’atto inaugurale del presente in cui siamo intrappolati
è dunque il cosiddetto lockdown (o,
alla francese, il confinamento), un insieme complesso
e articolato di strategie che può essere letto come fatto sociale totale. Secondo Marcel Mauss, un fatto
sociale totale è un fenomeno le cui implicazioni riverberano attraverso
l’intera società, riflettendosi in tutte le sue sfere (economica, legislativa,
comunicativa, morale ecc.) e in tutti gli aspetti della vita delle persone.
Proprio questo carattere totale del dispositivo-lockdown permette di coglierne
il ruolo e la portata.
Il modello teorico che utilizziamo
ipotizza che la costruzione culturale dei soggetti produca una certa messa in
forma – una “buccia psicosomatica”, per dir così – che consente di essere
presenti e attivi nel proprio mondo nelle forme previste. Ne fanno parte la
strutturazione pulsionale ed emotiva, il funzionamento fisiologico, i modi
della conoscenza, le modalità di relazione con gli umani e i non-umani, le
forme della salute e della malattia, i vincoli di solidarietà, i precetti della
buona educazione e via dicendo: tutto ciò che ci posiziona come appartenenti, in
senso pieno e potenziante, a un certo gruppo. Lungamente plasmata nell’infanzia
e dalle successive esperienze esistenziali, questo involucro può essere
periodicamente riaperto per curarne le inevitabili sclerosi: è il caso dei
dispositivi che, con intelligenza e attenzione, aprono a esperienze altre (la
psicoterapia, ad esempio, o certi riti collettivi, o ancora la respirazione
olotropica, la danza, le feste, la trance ecc.) e quindi a una possibilità di
divenire. Anche le iniziazioni – all’erotismo, all’età adulta, a certi ruoli
terapeutici, alle tecniche di caccia – e le rivolte hanno di solito questa
qualità.
Ma l’involucro può anche essere frantumato
con violenza al fine di disgregare la persona, sfarne i fondamenti etici e
cognitivi e lasciarla poi infragilita e influenzabile. Il caso principe è
quello della tortura (v. l’opera omnia di Françoise Sironi), ma rientrano in
questo novero, a diverso titolo, anche certe forme di propaganda, le “pedagogie
nere” (quelle che educano attraverso la menzogna, il terrore, l’inganno, la
cattura, l’asservimento e la crudeltà), la shock economy, certe
strategie militari e ora, nella nostra ipotesi, anche il dispositivo-lockdown.
La sua efficacia è venuta dall’applicazione a tappeto di tecniche rodatissime
di effrazione psicosomatica, a cui sono state affiancate tecniche decisamente
innovative.
Fenomenologia del lockdown
Come testimonia l’immane lavoro di critica
e decostruzione fatto su questo blog, tutti gli elementi sono noti; vale
tuttavia la pena di ripercorrerli a cascata per comprendere la potenza
distruttiva di quel che abbiamo vissuto.
Isolamento fisico – È noto in psicoterapia
che il supporto fisico, il conforto, l’abbraccio e la presenza degli altri è il
principale elemento protettivo e riparativo rispetto ai traumi, intenzionali o
meno che essi siano. Durante il lockdown, la mera presenza di altri è stata
descritta come biohazard e il respiro – base
stessa di tutte le discipline del corpo – presentato come l’elemento fra tutti
più velenoso. Le regole del distanziamento sociale, apparentemente protettive,
ci hanno indotti a restare di nostra spontanea volontà da soli, senza la
protezione minima data dalla presenza di altri, all’interno del luogo stesso in
cui stava avvenendo l’effrazione. Ciò è stato peggiorato dalla confusione,
continuamente perseguita, fra stare a casa e stare in casa e dall’evidente interesse di una
parte del capitalismo alla s-corporazione del lavoro.
Obiettivo occultato – Come per il carcere
(che educa in vista del reinserimento), il manicomio (che cura la follia),
l’accoglienza (che integra i migranti nella società d’arrivo) e la
casa-famiglia (che protegge il nucleo madre-bambini), anche nel lockdown
l’obiettivo esplicito, condivisibile e benintenzionato di protezione dal
contagio occulta il fatto che, attraverso di esso, viene prodotto tutt’altro
(corpi criminali utili al funzionamento del sistema, isolamento della devianza
dal corpo sociale, detenzione amministrativa di forza lavoro sottopagata,
normalizzazione delle forme di genitorialità, assoggettamento della popolazione
alle nuove dinamiche necessarie al plusvalore).
Con l’eccezione del carcere, che ha il
merito di una certa chiarezza, negli altri casi l’occultamento del secondo
obiettivo è tanto più efficace in quanto la struttura fisica sembra assecondare
lo scopo narrato: l’ambiente agreste da villa di campagna nasconde l’isolamento
dei padiglioni manicomiali; le comunità di accoglienza multiculturali, tipo
alloggio condiviso, nascondono lo schiacciamento neocolonialista del migrante a
“ragazzo” a cui trovare un “primo lavoretto”; le decorazioni allegre e l’arredamento
funzionale delle case-famiglia nasconde una realtà di ispezione e osservazione
quotidiana. Nel caso del lockdown, la prigione è la nostra stessa casa che
tuttavia, proprio per il suo carattere intimo, difficilmente può essere
riconosciuta come gabbia.
Confusione dei piani – A fronte di un
doppio attacco simultaneo alla popolazione (a rischio sia per la diffusione di
un virus poco noto che per l’instaurazione di un regime di autoritarismo
statale), la narrativa ha continuamente confuso i piani, inducendo a credere
che militarizzazione, controllo, disciplinamento e propaganda fossero mezzi
indispensabili per il contenimento del virus. In questo modo, il nuovo Stato
etico ha potuto rivestire le operazioni biopolitiche e necropolitiche che
andava conducendo con una vernice di “bene comune e protezione dei fragili”.
Militarizzazione del territorio – Figlia
di una lunga manovra cominciata ben prima della pandemia, la presenza ubiqua di
pattuglie di poliziotti, carabinieri, vigili e soldati a controllare – talvolta
in maniera violenta – le autocertificazioni e la legittimità degli spostamenti
ha preparato la cittadinanza a una militarizzazione del territorio che,
presentandosi dapprima come necessità sanitaria, è rapidamente diventata una
forma particolarmente odiosa di controllo sociale.
Danse macabre & terrore – Dai timbri
della comunicazione mediatica alla conta dei morti, dalla pornografia delle
terapie intensive alle ronde delle FF.OO. con i megafoni, dai posti di blocco
al timore di essere, a nostra volta, portatori di contagio, e quindi assassini
(sia pure involontari) delle persone care, l’esposizione alla morte, all’orrore
e alla paura è stata continua, martellante e angosciosa. La quantità di terrore
diffuso nell’etere e assorbito dal corpo sociale nei primi mesi del 2020 è in
dosi mai sperimentate dalle nostre generazioni, sufficiente a indurre stati di
paranoia, terrore e fobia anche in soggetti relativamente stabili. In alcuni
casi, essa potrebbe aver peggiorato, via effetto nocebo, l’andamento della
malattia stessa.
Abbandono – Le strutture della sanità
pubblica hanno dapprima abbandonato i malati e i loro parenti a se stessi con
la disattivazione dei presidi medici territoriali (medici di famiglia,
ambulatori, consultori); poi hanno secluso i malati negli ospedali, rendendoli
irraggiungibili dai prossimi proprio nel momento di maggior bisogno e gettando
gli altri nella più angosciosa incertezza sulla sorte dei propri cari.
Combinata con la chiusura ex lege dei
luoghi di promozione della salute (palestre, dojo, studi di terapeuti
non-biomedici, parchi, piscine, spiagge ecc.), ciò ha creato le migliori
condizioni possibili per un disastro sanitario. La situazione di abbandono è
stata poi particolarmente grave per i gruppi marginali, o marginalizzati, che
durante il lockdown si sono trovati in una sorta di invisibilità al quadrato.
Trionfo del bullshit job – Mentre la vita sociale spariva dai
radar, l’infernale macchina amministrativa detta governance (fatta di burocrazia,
regolamenti, reviews, adempimenti, scadenze,
formulari, progetti, report, riunioni, verbali, protocolli) non solo non si è
mai fermata, ma è diventata, se possibile, ancor più schiacciante, facendo
aumentare, in tutti i settori, la proporzione quotidiana di bullshit job a cui i lavoratori sono condannati.
Instabilità del vocabolario – Lo scriveva
già Tucidide nel descrivere la guerra civile di Atene: «Cambiarono a piacimento
il significato consueto delle parole in rapporto ai fatti. L’audacia
sconsiderata fu ritenuta coraggiosa lealtà verso i compagni, il prudente
indugio viltà sotto una bella apparenza, la moderazione schermo alla codardia,
e l’intelligenza di fronte alla complessità del reale inerzia di fronte a ogni
stimolo; l’impeto frenetico fu attribuito a carattere virile, il riflettere con
attenzione fu visto come un sottile pretesto per tirarsi indietro». Nel
lockdown parole come “emergenza”, “sicurezza”, “altruismo”, “apprendimento”,
“ripresa” hanno perso le sfumature e i “giochi linguistici” precedenti per
assumere un significato monocorde, da neolingua orwelliana. Un significato
funzionale all’espansione del capitale, naturalmente.
Semplificazione violenta – La narrativa
dominante ha imposto, in ogni momento della pandemia, la drastica
semplificazione del ragionamento complesso e del comportamento intelligente:
dalla riduzione delle cause del covid-19 al virus Sars-Cov-2
all’identificazione di distanza e sicurezza, dall’obbligo di comportamenti
stereotipati a “campagne informative” talmente semplificate da arrivare a esser
false. Come in altri momenti della storia nazionale (v. il crollo della diga
del Vajont), l’ingiunzione a «rispettare i morti» serve a mettere il bavaglio a
ragionamenti critico e perplessità.
Scomparsa delle soglie – Perché i luoghi
possano esercitare le funzioni per cui sono previsti, è indispensabile non solo
che siano costruiti in modi specifici, ma anche che fra di loro vi siano
soglie, varchi, membrane. Ogni luogo è un setting, a partire dalle stanze
casalinghe (gestione della cucina, occupazione del bagno, accesso regolato alle
camere altrui) fino ad arrivare alle “stanze tecniche” (lo studio di un medico,
una chiesa, una sala operatoria, un’aula scolastica ecc.); e ogni setting ha le
sue regole: così come i cani non entrano in chiesa, nel setting psicoterapico i
cellulari non suonano. Le soglie hanno dunque una funzione cruciale e il loro
venir meno è causa di sofferenza (v. la coabitazione coatta dei detenuti o
l’impossibilità di svolgere certe funzioni in vista di altri). Durante il
lockdown, gli spazi sono stati riconfigurati all’insegna della sparizione delle
soglie e della più totale confusione: il salotto che diventa l’ufficio, la
cucina che diventa il bar, l’antibagno che diventa l’aula, con genitori che
cucinano, fratelli che urlano, gatti che mangiano i cavi. L’impossibilità tecnica di fare quel che, pure,
saremmo chiamati a fare (imparare, insegnare, lavorare, curare, riflettere) va
di pari passo con la violenza simbolica che reinquadra ciascun “libero e uguale
cittadino” all’interno delle sue condizioni materiali di esistenza.
Regolamenti di conti fra grande padronato,
PMI e lavoratori – Sotto il mantello dell’emergenza si sono regolati molti
conti fra bande di capitalisti. Piccola e media impresa e, in generale, il
mondo della cultura e dell’arte ne sono usciti stritolati, come anche diverse
altre categorie di lavoratori, nella più completa sudditanza dei sindacati alla
versione dei fatti imposta dal governo. È facile ipotizzare l’effetto
psicologico di questa precarizzazione sulle famiglie in lockdown.
Appiattimento dei ruoli sociali –
L’impossibilità fisica di agirli ha appiattito i ruoli sociali (non poter
frequentare la mia amica del cuore non mi permette di essere amica del cuore,
non poter andar al circolo di lettura riduce la mia funzione di presidente del
circolo dei lettori, ecc.), abbattendo sia la complessità della vita sociale
che quella della personalità. I bambini sono letteralmente spariti dal panorama
sociale, consegnati alla violenza sottile, ma alla lunga devastante, della DAD.
Particolarmente grave sugli adolescenti, questa “monadizzazione” – che riduce
la complessità della vita a mera sopravvivenza – è una delle tecniche standard
dei sistemi di effrazione psichica.
Incertezza ed Eterno ritorno – Il continuo
cambio di regole e di panorama è ormai un fatto introiettato: dal gennaio 2020
a oggi, a colpi di DPCM e DL, si sono susseguiti oltre trenta scenari
differenti, ciascuno dei quali ha riconfigurato spazi, tempi, diritti e
possibilità. L’incertezza sul presente e sul prossimo futuro è stata, ed è,
continua e paralizzante.
Rovesciando la logica della quarantena
(che prevede l’isolamento di una parte della popolazione per un periodo
definito), nel lockdown la segregazione non ha mai avuto un termine certo. In
seguito, confinamento e liberazione si sono susseguiti in modi imprevedibili,
formando una specie di nastro di Moebius temporale che ha rotto il nostro
rapporto con il tempo: mentre da un lato la narrativa bellico-sanitaria
descriveva il procedere delle sue battaglie lungo un tempo lineare, indicando
la meta della riapertura totale come sempre a portata (purché tutti facciano i
bravi), il dispositivo-lockdown e poi le zone a colori ci hanno bloccati in una
circolarità in cui qualsiasi momentanea liberazione era già inficiata, fin
dall’inizio, dal nuovo pezzo di narrativa dietro l’angolo (il tampone non è
sicuro, il vaccino copre nove mesi, poi sei, poi cinque, poi quattro, la
variante delta, la variante omicron e così via).
Ricostituzione del corpo (eroico e sano)
della nazione – Strappata ogni autonomia ai singoli e alle collettività,
l’unica speranza – simbolica e materiale – di uscire dalla crisi è affidata
agli esperti e dev’essere accompagnata con l’adesione a riti apotropaici di
portata nazionale (l’inno alle finestre, la denuncia alla tv del vicino che va
a correre, il teatro sociale della mascherina, la vaccinazione di massa), veri
e propri rituali di ricostituzione del mito della nazione e di conformazione
dei singoli al corpo unitario dello Stato. Chi non aderisce alla narrazione e all’etica
patriottica è automaticamente un traditore che merita il pubblico disprezzo e
la condanna a una segregazione selettiva più vincolante (come accade oggi nei
confronti dei non-vaccinati).
Sospensione degli istituti culturali
fondamentali – Saluto ai morti, saluto ai nuovi nati, diplomi, lauree,
matrimoni: qui basti dire che nessuna società può reggere la sospensione dei
suoi istituti fondamentali senza rischiare la catastrofe culturale, la «fine
del mondo» descritta da Ernesto de Martino. Tale catastrofe è stata schivata
tramite i surrogati virtuali degli istituti culturali, i quali però, come da
manuale, causano sofferenza esistenziale e perdita di senso del mondo.
Uso politico dell’assurdo – Lo stupore e
l’incredulità («Ma non può essere!») che molti hanno provato è quella di chi,
di fronte a una realtà a cui letteralmente non si può credere,
vive una scissione quasi schizofrenica tra la parte di sé che ne fa
l’esperienza e quella che la osserva. Da quasi due anni le nostre scelte
avvengono in un panorama di condizioni paradossali.
Quando le regole non sono stabili e le azioni sono insensate dal punto di vista
logico o etico, chi deve agirle è costretto a sopprimere il principio di non
contraddizione. S’installa un congegno simile ad un “bypass del pensiero
critico” che, svincolate le azioni dal loro senso, cerca di ancorare i
comportamenti a qualcos’altro (ad es. al teatro sociale del “bravo cittadino”,
al bisogno di fare come gli altri, alla speranza di uscire dall’incubo
ubbidendo o di trovare un nemico su cui scaricare le colpe). Saltata la
consueta logica del mondo e in assenza di tenuta critica, quest’ancoraggio
d’emergenza si fa sempre più cruciale e indiscutibile – anche perché non resta
altro. Nel frattempo, le azioni si rinforzano anche per mero automatismo:
dimentichiamo di togliere la mascherina, esitiamo ad abbracciare gli amici, ci
sentiamo in colpa se tossiamo in pubblico, esibiamo il green pass.
Dismisura – Gli spazi del terrore hanno
come tratto fondamentale la dismisura, un’imprevedibile sproporzione fra cause
ed effetti, un atroce oltranzismo delle regole a scapito del senso comune. Una
delle caratteristiche più perturbanti dei regimi totalitari è quella di vietare
cose che non è possibile vietare. Come in carcere, la logica dell’impianto
normativo è rovesciata: non più “è tutto permesso, salvo ciò che è
espressamente vietato”, ma “è tutto vietato salvo ciò che è espressamente
permesso” (da qui, tra l’altro, il carattere sempre ipertrofico degli impianti
normativi in regime totalitario). Come in certi racconti dell’assurdo, o in
certi sogni sotto tirannia, le “banalità di base” della vita umana possono
diventare attentati. Così, nel lockdown era vietato vedere i propri cari, stare
con gli amici, prendersi cura del prossimo, innamorarsi, andare a sentire un
concerto, fare due passi; a tutt’oggi continua a essere difficilissimo
assistere i malati; e nel frattempo è stato vietato, ad alcuni, di andare a
vedere la recita scolastica dei propri figli o di prendere i mezzi. La
dismisura coincide è con l’organizzazione ferrea della disumanità.
Effetto palude – Nelle paludi, qualsiasi
movimento compiuto da chi vi si trova immerso aumenta la capacità di risucchio
del sistema stesso. Per quanto timida essa fosse, l’adesione iniziale alle
politiche di contenimento è diventata rapidamente una palude, da cui è
difficilissimo uscire senza sconfessare le proprie scelte precedenti e senza
ripensare criticamente la narrazione a cui – per un lungo attimo – abbiamo
creduto. Le azioni descritte, volta a volta, come necessarie al “ritorno alla
normalità” hanno alterato i connotati di quello stesso mondo sociale che,
attraverso di esse, si sarebbe dovuto riconquistare.
Cooptazione della vittima – I dispositivi
incrementali, o “paludi”, cooptano le proprie vittime per perpetrarsi. La
narrativa bellico-sanitaria, che prevede volta a volta un solo comportamento
protettivo legittimo, troverà in chi adotta tale comportamento uno zelante
sostenitore: nello sforzo di restaurare la normalità perduta e di vedere
rinforzata la propria scelta, costui tenterà di convincere altri ad aderire a
quella che viene narrata come la via di salute. Il rieducato diventa
rieducatore e lavora in maniera manipolativa all’interno delle relazioni,
controllo e autocontrollo diventano i cardini delle relazioni fra soggetti.
Abolizione della pluralità – Oltre a
dimostrare che la risposta etica dei soggetti dipende dalle relazioni di potere
in cui sono presi, gli studi di Stanley Milgram e Philip Zimbardo hanno anche
indicato uno dei principali fattori di protezione: la molteplicità delle
opinioni. A fronte di un solo rappresentante della Scienza, i soggetti
sperimentali ubbidiscono anche contro i propri principi etici; a fronte di più
rappresentanti in disaccordo, invece, sono molto più liberi di disubbidire agli
ordini. È una delle ragioni per cui la sparizione del pluralismo
dall’informazione pubblica è risultata così inquietante, su un livello, e
rassicurante su un altro, nonostante il palese fallimento comunicativo degli
“esperti” e i molti episodi di falsificazione delle informazioni. Se si mettono
in parallelo la narrativa unica, il ritorno dello Stato salvifico e
paternalista e la retorica bellica di unità del corpo della nazione, ne risulta
un quadro generale profondamente disturbante per le sue affinità col fascismo
storico.
Riscrittura delle regole della prossemica
– Le “bolle” che regolano la distanza fra individui hanno subito un rapidissimo
e profondo rimaneggiamento, con la riscrittura delle regole di comportamento:
oggi è normale scansarsi con veemenza per strada, rifiutare il contatto con i
conoscenti o restare a distanze che, fino a due anni fa, avrebbero denotato
aperta inimicizia. Apparentemente minore, si tratta in realtà di un mutamento
di costumi che tocca parti intime e antiche della costruzione culturale,
costringendo a una “doppia lettura” dei corpi (come si muovevano prima, come si
muovono adesso) che ricorda lo straniamento culturale degli antropologi su
campo.
Senso di colpa – Non c’è bisogno, in
questa sede, di evidenziare il continuo scivolamento delle responsabilità verso
il basso, ben riassunto dal sottotesto di tutte le comunicazioni governative e
mediatiche di questi due anni: «se non vi ammalate è merito nostro, se vi
ammalate è colpa vostra». È però utile sottolineare quanto l’angoscia di essere
veicoli di morte si apparenta all’angoscia dei prigionieri politici di tutti i
tempi, le cui scelte costituiscono un rischio per le vite dei loro familiari.
Emozioni politiche & scorie tossiche –
Françoise Sironi ha mostrato fino a che punto le condizioni politiche e
geopolitiche in cui viviamo plasmano le nostre emozioni. Un effetto di lunga
gittata dell’esperienza del lockdown sono i “prodotti di scarto” della
segregazione: la moltitudine di emozioni che si sono provate e che, in assenza
di possibilità di espressione, si sono accumulate in una specie di serbatoio.
Rabbia, dolore, paura, tristezza, noia, disgusto, ma anche, soprattutto nel
primo lockdown, sollievo dai ritmi di vita folli in cui eravamo immersi (e a
cui oggi molti sono tornati) e la gioia di recuperati legami familiari. Tutte
queste emozioni, vissute intensamente, si sono intrecciate e depositate
nell’inconscio corporeo.
Dagli studi sul trauma dei soldati di
ritorno dal fronte e sulle vittime di violenza intenzionale, sappiamo che
queste emozioni possano riversarsi in maniera apparentemente casuale
all’interno del contesto di vita, familiare e sociale, a cui chi le serba ha
fatto ritorno. È probabile che molte delle emozioni apparentemente “insensate”
che ci troviamo a vivere in questo momento siano epifanie, zampilli dal
serbatoio emotivo originato dal lockdown. Ed è possibile che, attraverso il
bypass del pensiero critico e l’abitudine ad azioni non basate sulla logica,
queste riserve emotive vengano oggi a canalizzarsi in azioni illogiche o
puramente apotropaiche.
Azzeramento del mondo sociale – La
sospensione del mondo sociale è stata parte del processo di effrazione e la
promessa del suo ristabilirsi oggetto di ricatto e di desiderio irrealizzabile.
È un elemento del tutto nuovo, il cui peso psichico è difficile da valutare
perché si tratta di un’esperienza di massa letteralmente senza precedenti.
È noto che i prigionieri hanno un rapporto
intenso e ambivalente con il mondo sociale che, appena fuori dalle mura, continua
imperterrito nel suo trantran quotidiano; ed è altrettanto noto che uno dei
mezzi dei torturatori è quello di indurre i prigionieri a credere di esser
stati abbandonati dai loro cari o traditi dai compagni di lotta. Anche in
questi casi, tuttavia, il fatto che il mondo continui pur sempre a esistere è
di basilare importanza per la regolazione psichica ed emotiva. Durante il
confinamento, invece, il mondo “là fuori” ha cessato di esistere e poiché senza
mondo culturale la continuità esistenziale è impossibile, ciò ha configurato
una sorta di “apocalisse culturale minore”. Una situazione del genere induce ad
agganciarsi a qualsiasi succedaneo, trasferendo una parte del proprio
investimento nel mondo in investimento negli schermi, nei social, nei servizi streaming.
Mediazione tecnica delle relazioni – Se
l’isolamento dei soggetti s’inserisce nella moderna propensione a costruire
individui-monade, autonomi, competitivi e interessati al proprio vantaggio, il
dispositivo-lockdown ha permesso un balzo avanti educando la popolazione
al dominio reale sulle soggettività. Quando ogni
relazione deve passare per la mediazione di una macchina, anche le zone di
penombra – i commons affettivi fatti di
corpi, timbri, inflessioni, odori, movimenti, accenni – diventano terreno di
estrazione di plusvalore. Lungo le prime fasi di quest’addestramento abbiamo
scoperto, all’improvviso, che l’intero processo era possibile solo perché gran
parte delle infrastrutture erano già pronte. Con il suo proseguire, nelle
nostre menti si è impresso che vita e socialità non solo non van più insieme
ma, anzi, possono essere antagoniste. Gli effetti a breve e lungo termine sono
stati, e sono, sotto i nostri occhi: persone chiuse in casa da anni; che escono
solo con due o tre mascherine sul naso; morti solitarie; e la guerra civile
nelle famiglie, nei gruppi, fra amici, l’enorme scia di lutti relazionali di
cui tutti stiamo facendo esperienza.
Mean new world
Le situazioni non-ordinarie inducono
processi non-ordinari. La psiche di un soldato in battaglia o di chi sta
subendo una violenza non funziona come quella di uno scolaro, di un impiegato o
di un bagnante estivo. Per questa ragione, i modelli con cui descriviamo la
realtà ordinaria hanno poca presa negli stati d’eccezione e bisogna cercarne
altri.
In quanto evento estremo, il
dispositivo-lockdown ha indotto processi non-ordinari, ri-plasmando il senso di
sicurezza e pericolo, fragilizzando i soggetti e rendendoli ancor più
dipendenti dall’informazione e dalla forma mentis gregaria
veicolate dai social. Ogni operazione di effrazione e rottura dell’involucro, è
stata presentata, volta per volta, come un’imprescindibile operazione
amministrativo-politica, attuata dal governo a causa della pandemia per il bene
dei cittadini. La loro violenza, tuttavia, ha schiacciato i singoli che l’hanno
subita in reciproco isolamento, persuadendoli all’adesione con la promessa che
l’obbedienza avrebbe permesso di evitare il peggio; ha indotto shock e stupore,
paralisi cognitiva, incertezza esistenziale; ha fatto sparire i corpi dalla
vita delle persone, inducendo quella che Bifo definisce sensibilizzazione fobica; ci ha addestrati
efficacemente all’assurdo che avrebbe, di lì in avanti, governato le nostre
vite.
Ipotizziamo che ciò abbia prodotto nella
popolazione generale uno stato dissociativo che potrebbe spiegare tanto la
necessità di trovare spiegazioni alternative, non importa quanto farlocche (le
fantasie di complotto descritte in La Q di Qomplotto, di Wu Ming 1), quanto lo
stato di ipnotica negazione dell’evidenza in cui la maggioranza sembra caduta.
Ipotizziamo, inoltre, che la “fatica del concetto” che quasi tutti gli
intellettuali renitenti alla narrativa governativa hanno provato – ovvero la
difficoltà di riportare quanto sta avvenendo a un quadro concettuale noto –
dipenda, più che dalla novità degli eventi, dallo stordimento che la
violentissima gestione pandemica ha indotto in noi.
Nel frattempo la violenza strutturale ha
allargato la sua presa. L’abitudine offusca l’indecenza del panopticon delle
altrui vite imposto dalla DAD; la piccola e media impresa è sostanzialmente
morta; di potenziare medicina territoriale, edilizia scolastica e mezzi
pubblici, di mandare la gente in pensione anticipata, di allargare i presidi di
salute, di migliorare le catene produttive del cibo non si parla nemmeno più.
Il problema, com’è noto, sono i no-vax, i lavoratori in sciopero, i ragazzini
senza GP sugli autobus. Il problema è qualunque forma di “prossimo” che non sia
uno zelante sostenitore dell’unica verità vera e dell’unico comportamento
giusto.
Il risultato fattuale imparenta il
dispositivo-lockdown ai campi di rieducazione politica, intesi, in senso ampio,
come luoghi di decostruzione della forma umana di chi vi accede al fine di
plasmarne una differente, adatta al mutato contesto
socio-politico-antropologico, ai nuovi valori e ai nuovi comportamenti che esso
richiede. Esso ha insegnato, con la brutale evidenza dei fatti, che si può
campare, lavorare e consumare anche come monadi assolute e perfino nella
sparizione materiale degli altri; e, per farlo in tempi così rapidi e con tanta
efficienza, ha dovuto agire tutta la violenza necessaria.
Dalla letteratura psicologica sulle
violenze intenzionali sappiamo che, in assenza di altri appoggi possibili, le
persone torturate o violate (il cui involucro è stato sfranto con la crudeltà)
tendono ad adottare il punto di vista, le idee e i valori dei carnefici. Questo
rinforza la nostra ipotesi: è possibile che, proprio perché vittime di un
trauma intenzionale, molti di noi si siano trovati – senza sapere come – ad
adottare la cosmovisione del carnefice. Si sa inoltre che, una volta usciti dai
luoghi della violenza, la principale illusione delle vittime è quella di
ritornare al mondo di prima. Dove c’è stata effrazione, però, non è possibile
attuare una restaurazione e l’unico modo di procedere è “disfare” la nuova,
spettrale e inabitabile normalità per innescare un’ulteriore trasformazione. È
difficile che un processo di questo genere sia pensabile per tutte le persone
che sono state catturate e violentate dal dispositivo-lockdown, ma non è
nemmeno impossibile. Si può pensare, per cominciare, all’immediato
ristabilimento della pluralità (informativa, terapeutica, associativa,
politica, ma poi anche, in senso pieno, antropologica) e a come avviare
processi di ricostruzione collettiva di ciò che è andato distrutto, a partire
dalla fondamentale possibilità di fiducia, vicinanza e solidarietà fra umani.
Ma, soprattutto, bisogna cominciare subito a inventare soluzioni non violente, non autoritarie, non fasciste per
le infinite questioni che si presenteranno nei prossimi decenni: dalla salute
delle comunità all’autonomia di singoli e collettivi, dall’approvvigionamento
energetico al cambiamento climatico, dalla qualità del cibo alla mobilità. Si
tratta, cioè, di sottrarsi fin d’ora – nel nostro intimo, oltreché nelle nostre
pratiche – a un sistema che ha mostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, di fare
davvero schifo.
(Mentre stavamo ultimando questo post
abbiamo avuto notizia di questa call for papers dell’università di Utrecht: in un
afflato di ottimismo, la prendiamo come conferma del fatto che la sensibilità
globale anticapitalista e antiautoritaria si sta, finalmente, riscuotendo. Era
ora.)
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