«La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale» (legge 30 marzo 2004, n. 92). Lo confesso: ogni anno la “celebrazione” del 10 febbraio mi lascia un po’ perplesso. Ovviamente la perplessità non riguarda il ricordo delle vittime delle foibe (circa 8 mila persone) o l’esodo giuliano dalmata (circa 300 mila persone), che ovviamente è doveroso ricordare. Sono infastidito invece da quello che non si ricorda, cioè quello che la memoria non dovrebbe tralasciare: le colpe e i crimini degli italiani. Perché anzitutto dovremmo ricordare il programma dichiarato del fascismo per voce del suo capo Benito Mussolini: «Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. Io credo che si possano più facilmente sacrificare 500mila slavi barbari a 50mila italiani». E non dovremmo dimenticare che gli slavi ci chiamavano “italijanski palikuce” (italiani bruciatetti).
La stessa perplessità mi sovviene quando ricordiamo i
caduti italiani della seconda guerra mondiale. Una domanda sorge spontanea: che
cosa ci facevamo, noi italiani, in Russia, Jugoslavia, Albania, Grecia, Libia,
Somalia, Eritrea, Etiopia ecc.? Prima ancora di ricordare i nostri morti,
dovremmo ricordare quelli che abbiamo provocato. Lanza del Vasto, apostolo
della nonviolenza, sosteneva che i torti degli altri non ci giustificano. Ogni
popolo, ogni nazione dovrebbe fare memoria dei propri errori, dei crimini che
ha compiuto, dei morti che ha causato. Noi italiani dovremmo anzitutto chiedere
scusa per le stragi e per i lager che abbiamo realizzato in Jugoslavia, per
l’aggressione militare nell’Epiro in Grecia, per il colonialismo in Africa, per
i gas asfissianti che abbiamo utilizzato in Eritrea ecc.
Proprio la vicenda dell’Etiopia dovrebbe interrogarci
come popolo e potrebbe darci lo spunto per cambiare prospettiva. Dovremmo
anzitutto imprimere nella consapevolezza e nella coscienza nazionale le parole
pronunciate dall’imperatore etiope Hailé Selassié alla Società delle Nazioni il
30 giugno 1936: «È mio dovere informare i governi riuniti a Ginevra, in quanto
responsabili della vita di milioni di uomini, donne e bambini, del mortale
pericolo che li minaccia descrivendo il destino che ha colpito l’Etiopia. Il
Governo italiano non ha fatto la guerra soltanto contro i combattenti: esso ha
attaccato soprattutto popolazioni molto lontane dal fronte, al fine di
sterminarle e di terrorizzarle. […] Sugli aeroplani vennero installati degli
irroratori, che potessero spargere su vasti territori una fine e mortale
pioggia. Stormi di nove, quindici, diciotto aeroplani si susseguivano in modo
che la nebbia che usciva da essi formasse un lenzuolo continuo. Fu così che,
dalla fine di gennaio del 1936, soldati, donne, bambini, armenti, fiumi, laghi
e campi furono irrorati di questa mortale pioggia. Al fine di sterminare
sistematicamente tutte le creature viventi, per avere la completa sicurezza di
avvelenare le acque e i pascoli, il Comando italiano fece passare i suoi aerei
più e più volte. Questo fu il principale metodo di guerra. […] A parte il Regno
di Dio, non c’è sulla terra nazione che sia superiore alle altre. Se un Governo
forte acquista consapevolezza che esso può distruggere impunemente un popolo
debole, quest’ultimo ha il diritto in quel momento di appellarsi alla Lega
delle Nazioni per ottenere il giudizio in piena libertà. Dio e la storia
ricorderanno il vostro giudizio».
E se proprio vogliamo ricordare che cosa hanno fatto
gli altri a noi, prima dei torti dovremmo elencare i meriti. Quando l’imperatore
dell’Etiopia ritornò dall’esilio in patria, il 20 gennaio 1941, emanò un
decreto in cui faceva appello alla popolazione perché, malgrado i numerosi
lutti, agisse con rispetto verso i prigionieri italiani: «Io, Hailé Selassié,
vi raccomando di accogliere in maniera conveniente e di prendere in custodia
tutti gli italiani che si arrenderanno, con o senza armi. Non rinfacciate loro
le atrocità che hanno fatto subire al nostro popolo. Mostrate loro che siete
dei soldati che possiedono il senso dell’onore e un cuore umano. Vi raccomando
particolarmente di rispettare la vita dei bambini, delle donne e dei vecchi.
Non saccheggiate i beni altrui anche se appartengono al nemico. Non incendiate
le case».
Ecco: si potrebbe inserire la data del 20 gennaio nel
Calendario civile italiano, perché la vicenda etiopica ci insegna che la
vendetta non è un obbligo e che la memoria storica deve essere considerata e
valutata anzitutto dalla parte degli altri. Soltanto in questa prospettiva
anche il ricordo dei nostri morti potrebbe assumere un significato meno
parziale e più degno.
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