Una discussione su giustizialismo, repressione del dissenso, cultura forcaiola. Per capire come il neoliberalismo ci ponga tutti e tutte sotto controllo
Maria
Edgarda (Eddi) Marcucci, trentenne romana che ha trascorso molti degli ultimi
anni a Torino, è una delle persone che nel 2017 sono partite dall’Italia per
unirsi alla resistenza curda contro l’avanzata del cosiddetto Stato Islamico
nella Siria del nord. Nello specifico, ha combattuto nelle fila dell’Ypj,
l’unità di difesa delle donne curde in Rojava. A seguito di un’ordinanza del
tribunale di Torino, recentemente confermata dalla Cassazione, Marcucci, che è
incensurata, è sottoposta a un regime di sorveglianza speciale in quanto
ritenuta «socialmente pericolosa». In virtù di tale provvedimento, le sono
stati ritirati il passaporto e la patente, deve notificare in commissariato
qualunque spostamento al di fuori del comune di residenza, non può trovarsi
fuori casa fra le 21 e le 7, avvicinarsi a locali pubblici dopo le 18 o
prendere parte a pubbliche riunioni. In occasione della presentazione del
libro La politica della rabbia che si è tenuta lo scorso 8 dicembre alla fiera
Più Libri Più Liberi, Marcucci ha deciso di violare il regime di sorveglianza e
di partecipare a una discussione con l’autore del libro Franco Palazzi e
il giornalista di Vice Leonardo Bianchi.
Il dialogo
che segue, tra Marcucci e Palazzi, riprende alcune delle tematiche
dell’incontro.
FP: Cara Eddi, grazie per aver
accettato questo scambio. Nel mio libro mi sono occupato di criminalizzazione
del dissenso e della conflittualità sociale che si muove dal basso verso
l’alto, criticando alla radice i sistemi di oppressione presenti nella nostra
società. La tua vicenda mi sembra paradigmatica di questi fenomeni. Vorrei
iniziare questo nostro dialogo con una domanda di contesto, che provi in
qualche modo a zoomare all’indietro rispetto alle tue traversie giudiziarie,
cui pure arriveremo. Pensi che ci sia un nesso tra la palese incomprensione del
tuo impegno in Rojava da parte delle autorità italiane e la collocazione
geografica di quella tua esperienza? Mi spiego meglio: per anni in Europa
abbiamo vissuto con il terrore dell’Isis, ma anche con l’incapacità di pensare
lo scenario geopolitico in cui si è potuto sviluppare e le nostre
responsabilità in proposito. La tua esperienza con l’Ypj, che pure comportava
il combattere a viso aperto e a rischio della vita la stessa minaccia che qui
ci angosciava, sembra collocarsi dall’altro lato di una di quelle frontiere
invisibili di esclusione, cognitiva prima ancora che politica, che Sousa-Santos chiama linee
abissali. In altre parole, quanto credi abbia contato, al netto del
prendere parte a un’esperienza bellica, il fatto che si sia svolta in un
contesto «altro» per uno sguardo eurocentrico, e per giunta di radicale
sperimentazione democratica come quello del nord della Siria?
EM: Credo che una prima questione
sia legata proprio al contesto di guerra – che in un paese come l’Italia non
viviamo di fatto dalla fine del secondo conflitto mondiale. Nell’Italia di oggi
è difficile persino immaginare come ci si senta in una situazione simile. Non a
caso il paragone più usato rispetto all’internazionalismo che si è osservato in
Rojava è quello con le Brigate Internazionali durante la guerra civile
spagnola. Si tratta di un accostamento che senza dubbio ha delle ragioni, ma
d’altra parte la sua (parziale) appropriatezza deriva proprio dalla mancanza di
esperienze temporalmente più vicine cui fare riferimento in territorio europeo.
Tenendo conto di ciò, senza lanciarci in interpretazioni delle carte
giudiziarie con cui è stata richiesta la sorveglianza speciale per me e altr*, credo risulti abbastanza evidente
che da parte dell’autorità giudiziaria non ci sia stata una vera percezione del
contesto geopolitico, anzi ha cercato di squalificarlo completamente, di
ridurlo a ciò che era rilevante per la Procura. Quando si nomina la Siria o il
Kurdistan le carte sono superficiali, imprecise: solo da una prospettiva
eurocentrica e orientalista il Rojava poteva apparire come l’«ennesimo
pasticcio mediorientale», in cui bande armate contrapposte si fronteggiavano
per una qualche volontà di dominio. In realtà lo scenario che si stava
delineando in quell’area ha iniziato ben presto a emergere, malgrado la poca
finezza di analisi dei media mainstream, nella sua unicità: c’era una
mobilitazione che prendeva parola con forza e avanzava un’alternativa
democratica tanto allo Stato Islamico quanto alla Siria del dittatore Assad.
Dietro a questa miopia di fondo vedo l’idea squisitamente europea che la
giustizia sia meramente una procedura da applicare in un modo supposto
neutrale. Detto questo, il fattore dirimente per la criminalizzazione che è
seguita è ciò che hai fatto prima di un’esperienza come quella del Rojava, e
cosa farai al ritorno. Non tutte le persone italiane che sono andate a
combattere al fianco della popolazione curda si sono viste presentare una
richiesta di sorveglianza speciale. Ciò che accomuna me e gli altri cinque per
cui questo è avvenuto è il nostro coinvolgimento in una serie di conflitti
sociali – coinvolgimento che pure uno stato sedicente democratico dovrebbe
essere in grado di gestire diversamente. La privazione di libertà a cui sono
sottoposta è in antitesi con tutti i principi costituzionali che dovrebbero
garantire quella libertà di pensiero e di dissenso che, in una tipica visione
eurocentrica, attribuisce una superiorità del nostro modello di società
rispetto ad altri. Sembra essere sfuggita la continuità essenziale fra misure
di «sicurezza» che si può vedere applicate pur senza aver commesso alcun
crimine e l’ordinamento del regime fascista – non a caso ci sono sentenze sia
della Corte Costituzionale che della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che
vanno in questa direzione, la mia su questo punto non è certo una voce che
grida nel deserto.
FP: Proprio le misure preventive
con cui devi fare i conti sono state recentemente descritte dalla sociologa e
giurista Xenia Chiaramonte come «armi bianche». Scrive Chiaramonte nel suo libro Governare il conflitto: «solo apparentemente più deboli delle pene, [queste
misure] in verità sono straordinariamente afflittive in quanto ampiamente
restrittive della libertà individuale, tanto da porre questioni di legittimità
costituzionale. Sono più subdole poi, se si pensa alla difficoltà di
impugnarle. Esse si fondano sul sospetto». Chiaramonte fa poi un passaggio
secondo me fondamentale nel tracciare un nesso tra questi strumenti giuridici e
la permanenza nel nostro sistema di assunti della vecchia criminologia
positivista della scuola lombrosiana (gli studi di fine Ottocento sul
«delinquente politico» ecc.).
EM: Infatti è importante ricordare
che il fascismo si trovò in un certo senso la sorveglianza speciale già pronta,
concepita dallo stato liberale. Stiamo parlando di elementi che hanno a che
fare con la storia della formazione dello stato moderno, al netto della forma
di stato o di quella di governo (che si tratti di stato totalitario, liberale o
repubblicano).
FP: Qui peraltro stiamo sfiorando
un tema di cui scrivo ne La politica della rabbia e che ti
sottopongo: l’immagine della folla delinquente e irrazionale, in cui si
diffondono come per contagio passioni incontrollabili e intenzioni sovversive.
Ho l’impressione che queste due eredità avvelenate lasciateci, tra gli altri,
dal lavoro di Lombroso e Sighele, siano fra loro connesse: è per essere
separato dal contesto della folla che chi è giudicato pericoloso deve divenire
oggetto di misure repressive, fungendo al contempo da monito e da deterrente
per tutti gli altri componenti di quel gruppo che fa così paura al potere
costituito. Detto altrimenti, non mi pare che si provi a colpire te e altre
cinque persone con l’idea che siate dei dinamitardi isolati, ma proprio in
quanto appartenenti a certi movimenti sociali e militanti per determinate cause
politiche. L’intenzione è fare di voi un esempio.
EM: Quel che dici è vero per noi
come per molte altre persone e la dinamica è anche abbastanza manifesta. Penso
al caso di Dana Lauriola, alla quale sono state rifiutate le misure alternative
al carcere anche per «la sua scelta di risiedere a Bussoleno» dove, scrive il
tribunale «potrebbe proseguire la propria attività di proselitismo e di
militanza ideologica»: è evidente che anche qui, un caso in cui la misura non è
preventiva, ma penale, a venire attenzionata non sia la condotta della persona,
ma la persona stessa, non per quel che fa ma perché – la militanza politica fa
parte di chi è, di come vive. C’è una mentalità punitiva, che non ha nulla a
che fare con la giustizia nella società, ma è molto legata alla sanzione di chi
lotta e mette in discussione una sua certa visione e organizzazione. Infatti,
in contesti come quello del movimento No-Tav, gli arresti riguardano sia
persone con lunghe storie di militanza alle spalle e che svolgono ruoli
importanti nella comunità, sia individui che sono magari a una delle loro
primissime manifestazioni. L’idea è quella di dimostrare che una partecipazione
anche episodica sia già di troppo, che per incappare in misure repressive e di
criminalizzazione dimostrare la propria adesione in una singola occasione sia
sufficiente. Di fronte a questa strategia però il movimento ha trovato ogni
volta le sue strategie di autodifesa. La rabbia che esplode di fronte a queste
prevaricazioni, intesa come ne parli tu nel tuo libro, quindi come il
sentimento che si produce quando si ha la sensazione che si sia superato un
limite invalicabile, è sempre stata trasformata in motore per agire, di fronte
a ogni ostacolo si sono trovate nuovi modi di agire che lo superassero.
FP: Visto che hai citato
espressamente il movimento No-Tav di cui fai parte, credo sia interessante
soffermarci un attimo sul fatto che, nell’ordinanza che dispone la tua
sorveglianza speciale, la tua presunta «pericolosità» è sostenuta mettendo
insieme l’impegno in Rojava con l’esperienza appunto in Val Susa e con la tua
militanza nel movimento femminista Non Una di Meno. Sia a prima vista che in
un’ottica più approfondita, si tratta di mobilitazioni fra loro assai
eterogenee, che richiedono forme di adesione molto diverse e mettono in campo
repertori d’azione che, al netto di una pur riscontrabile condivisione di
alcuni ideali, differiscono nettamente. Vorrei chiederti in proposito se
ritieni che una di queste esperienze abbia svolto un ruolo preminente rispetto
alle altre – se ad esempio credi che puntare i riflettori anche sulla militanza
femminista e quella internazionalista sia meramente strumentale rispetto
all’attenzione sproporzionata che la procura torinese ha prestato nell’ultimo
decennio al movimento valsusino, o se siamo davvero al punto in cui anche la
riappropriazione dello spazio pubblico largamente pacifica svolta da Non Una di
Meno viene percepita come problematica dalle autorità.
EM: Credo si tratti chiaramente
della seconda ipotesi. La tua domanda ci permette anche di comprendere come il
potere giudiziario, che non è che una componente di quello statuale, si
articola a sua volta in modalità anche disomogenee sul territorio. Una procura
come quella di Torino si distingue per un interventismo «politico» maggiore di
molte altre – e il tribunale tende ad assecondarla. In tribunale per quel che
ho osservato io il corpo collettivo è sempre minaccioso, cattivo. L’essere
tante persone insieme è sempre un’aggravante, quella collettiva è una
situazione che diventa attaccabile dallo Stato, nelle sue varie componenti, in
quanto tale.
FP: Mi sembra interessante a
questo punto ritornare dal livello dell’applicazione delle norme a quello della
loro creazione, per evidenziare come, pur all’interno di dinamiche di
criminalizzazione del dissenso di lungo corso, gli ultimi anni abbiano visto
una congiuntura particolarmente drammatica, durante la quale persino una parte
della società sedicente «progressista» è arrivata a porsi in continuità con le
peggiori destre. Penso ad esempio a uno strumento come il «Daspo urbano», introdotto
con l’allora decreto Minniti-Orlando (poi convertito in legge) da una
maggioranza nominalmente di centrosinistra. Grande sostenitore del ricorso al
Daspo urbano contro le persone senzatetto era fra l’altro Massimo Adriatici, l’ex assessore comunale di Voghera in quota Lega al
momento sotto processo per l’omicidio di Youns El Boussettaoui. Una vicenda a
suo modo analoga riguarda la criminalizzazione di chi salva e accoglie le
persone migranti, dai sequestri delle navi delle Ong che operano nel
Mediterraneo al procedimento a carico di Mimmo Lucano – vicenda che ancora una volta
mostra plasticamente convergenze bipartisan. A fronte di questo retroterra recente,
mi pare che la pandemia abbia prodotto un forte spiazzamento, facendo
diffondere in breve tempo la convinzione che le uniche forme di dissenso e di
conflitto nel paese siano (e siano state nel recente passato) quelle agite dal
fronte no-vax, con le caratteristiche che conosciamo (egemonizzazione crescente
da parte della destra fascista, derive irrazionalistiche eccetera). Qui emerge
da un lato la tentazione, da parte delle istituzioni, di assumere i no-vax come
raffigurazione di comodo di qualunque istanza di protesta sociale; dall’altro
la tendenza preoccupante dell’opinione pubblica ad accettare misure
para-autoritarie in virtù della convinzione che possano esserne bersaglio
soltanto coloro che si oppongono alle vaccinazioni (l’astio con cui è stato accolto il recente sciopero generale non è in tal senso
incoraggiante). Dal tuo punto di vista, come facciamo a smarcarci da questo
doppio movimento, che pare tarpare le ali a manifestazioni di dissenso sociale
che vadano in una direzione egualitaria e democratica nel senso più alto del
termine?
EM: Il rischio di non riuscire a
tornare indietro rispetto a una certa mentalità «forcaiola» esiste. Penso al
dibattito sul Ddl Zan. Salto tutte le considerazioni ovvie su come questa
vicenda ci parli di una classe politica insulsa e crudele e parlo del dibattito
pubblico che era molto positivo e favorevole. Io di questo sono contenta, però
mi è mancata, a parte poche eccezioni di esperienze di lotta come Non Una di
Meno, qualche considerazione sui limiti dell’approccio punitivo a un problema
strutturale come quello della violenza maschile e di genere. Se vogliamo
mettere in discussione una società patriarcale non possiamo accontentarci degli
strumenti dello Stato. Penso al movimento per l’aborto in Argentina: una lotta
forte perché si articola su tanti livelli, usando tutti gli strumenti a
disposizione, ma soprattutto trovandone di nuovi, autonomi e collettivi che
innescano processi diversi nella società, cambiandola.
FP: Queste tue considerazioni ci
riportano dove eravamo partit*, se possibile alzando ulteriormente la posta in
gioco: si tratta di difendere la critica sociale come, etimologicamente, prassi
della distinzione, della separazione – ma senza operare demarcazioni
poliziesche, senza sfociare in quella che Foucault chiamava una «morale da
stato civile», buona per i burocrati e i questurini. Mi torna in mente in
questo senso una delle definizioni di polizia che dà Jacques
Rancière ne Il disaccordo: «un disciplinamento dei corpi che definisce la
pluralità tra i modi del fare, i modi dell’essere e i modi del dire, che fa sì
che determinati corpi siano assegnati per via del loro nome a un determinato
posto e a una determinata funzione; è un ordine del visibile e del dicibile che
fa sì che un’attività sia visibile e un’altra non lo sia, che una certa parola
venga intesa come discorso e un’altra come rumore». Polizia dunque, secondo la
sua fortunata espressione, come partizione del sensibile: col
rumore non ci si ferma a discutere, al massimo lo si reprime in quanto disturbo
della quiete pubblica. Mi pare che si presenti qui la necessità di criticare,
insieme a quel cosiddetto sapere di polizia di cui le carte dei processi contro i movimenti
sociali sono pieni, una ragione poliziesca che arriva a
estendersi anche dentro di noi. Il neoliberalismo non è del resto quella razionalità
che vorrebbe fare di ognuno di noi un sorvegliato speciale?
EM: Esattamente, oggi tanto
l’ideologia neoliberale quanto quella della destra reazionaria si basano su una
nozione di colpa – da un lato interiorizzata («è colpa tua se
sei povera, significa che non ti sei impegnata abbastanza»), dall’altro
esternalizzata verso bersagli di comodo («è colpa dei migranti che ti rubano il
lavoro»). Che si tratti di guardare allo specchio o alla finestra, è comunque
la colpa quella di cui si va alla ricerca. A queste ideologie per prosperare
non occorre neppure un’adesione attiva, ma una mera acquiescenza – appunto, per
tornare alla questione centrale, un’assenza di conflitto, di critica. Per chi
prova a opporsi attivamente, del resto, le autorità si scomodano volentieri. Di
qui la necessità di immaginare modelli diversi, non punitivi di giustizia,
de-naturalizzando quelli esistenti. È questo quello che tento di fare nel mio
piccolo.
*Eddi
Marcucci, attivista, nel 2017 è andata in Siria per unirsi alle milizie curde e
combattere lo Stato Islamico. Franco Palazzi è dottorando in
filosofia all’Università di Essex e autore di Tempo presente. Per una
filosofia politica dell’attualità(o mbre corte, 2019) e La politica
della rabbia (Nottetempo, 2021). Ha scritto, tra gli altri, per Doppiozero, Effimera, Il
Tascabile, Jacobin Italia, Le parole e le cose, OperaVivaMagazine e Public
Seminar.
Nessun commento:
Posta un commento