lunedì 14 marzo 2022

Sorvegliati speciali - Eddi Marcucci, Franco Palazzi

 

Una discussione su giustizialismo, repressione del dissenso, cultura forcaiola. Per capire come il neoliberalismo ci ponga tutti e tutte sotto controllo

Maria Edgarda (Eddi) Marcucci, trentenne romana che ha trascorso molti degli ultimi anni a Torino, è una delle persone che nel 2017 sono partite dall’Italia per unirsi alla resistenza curda contro l’avanzata del cosiddetto Stato Islamico nella Siria del nord. Nello specifico, ha combattuto nelle fila dell’Ypj, l’unità di difesa delle donne curde in Rojava. A seguito di un’ordinanza del tribunale di Torino, recentemente confermata dalla Cassazione, Marcucci, che è incensurata, è sottoposta a un regime di sorveglianza speciale in quanto ritenuta «socialmente pericolosa». In virtù di tale provvedimento, le sono stati ritirati il passaporto e la patente, deve notificare in commissariato qualunque spostamento al di fuori del comune di residenza, non può trovarsi fuori casa fra le 21 e le 7, avvicinarsi a locali pubblici dopo le 18 o prendere parte a pubbliche riunioni. In occasione della presentazione del libro La politica della rabbia che si è tenuta lo scorso 8 dicembre alla fiera Più Libri Più Liberi, Marcucci ha deciso di violare il regime di sorveglianza e di partecipare a una discussione con l’autore del libro Franco Palazzi e il giornalista di Vice Leonardo Bianchi.

Il dialogo che segue, tra Marcucci e Palazzi, riprende alcune delle tematiche dell’incontro.

FP: Cara Eddi, grazie per aver accettato questo scambio. Nel mio libro mi sono occupato di criminalizzazione del dissenso e della conflittualità sociale che si muove dal basso verso l’alto, criticando alla radice i sistemi di oppressione presenti nella nostra società. La tua vicenda mi sembra paradigmatica di questi fenomeni. Vorrei iniziare questo nostro dialogo con una domanda di contesto, che provi in qualche modo a zoomare all’indietro rispetto alle tue traversie giudiziarie, cui pure arriveremo. Pensi che ci sia un nesso tra la palese incomprensione del tuo impegno in Rojava da parte delle autorità italiane e la collocazione geografica di quella tua esperienza? Mi spiego meglio: per anni in Europa abbiamo vissuto con il terrore dell’Isis, ma anche con l’incapacità di pensare lo scenario geopolitico in cui si è potuto sviluppare e le nostre responsabilità in proposito. La tua esperienza con l’Ypj, che pure comportava il combattere a viso aperto e a rischio della vita la stessa minaccia che qui ci angosciava, sembra collocarsi dall’altro lato di una di quelle frontiere invisibili di esclusione, cognitiva prima ancora che politica, che Sousa-Santos chiama linee abissali. In altre parole, quanto credi abbia contato, al netto del prendere parte a un’esperienza bellica, il fatto che si sia svolta in un contesto «altro» per uno sguardo eurocentrico, e per giunta di radicale sperimentazione democratica come quello del nord della Siria?

EM: Credo che una prima questione sia legata proprio al contesto di guerra – che in un paese come l’Italia non viviamo di fatto dalla fine del secondo conflitto mondiale. Nell’Italia di oggi è difficile persino immaginare come ci si senta in una situazione simile. Non a caso il paragone più usato rispetto all’internazionalismo che si è osservato in Rojava è quello con le Brigate Internazionali durante la guerra civile spagnola. Si tratta di un accostamento che senza dubbio ha delle ragioni, ma d’altra parte la sua (parziale) appropriatezza deriva proprio dalla mancanza di esperienze temporalmente più vicine cui fare riferimento in territorio europeo. Tenendo conto di ciò, senza lanciarci in interpretazioni delle carte giudiziarie con cui è stata richiesta la sorveglianza speciale per me e altr*, credo risulti abbastanza evidente che da parte dell’autorità giudiziaria non ci sia stata una vera percezione del contesto geopolitico, anzi ha cercato di squalificarlo completamente, di ridurlo a ciò che era rilevante per la Procura. Quando si nomina la Siria o il Kurdistan le carte sono superficiali, imprecise: solo da una prospettiva eurocentrica e orientalista il Rojava poteva apparire come l’«ennesimo pasticcio mediorientale», in cui bande armate contrapposte si fronteggiavano per una qualche volontà di dominio. In realtà lo scenario che si stava delineando in quell’area ha iniziato ben presto a emergere, malgrado la poca finezza di analisi dei media mainstream, nella sua unicità: c’era una mobilitazione che prendeva parola con forza e avanzava un’alternativa democratica tanto allo Stato Islamico quanto alla Siria del dittatore Assad. Dietro a questa miopia di fondo vedo l’idea squisitamente europea che la giustizia sia meramente una procedura da applicare in un modo supposto neutrale. Detto questo, il fattore dirimente per la criminalizzazione che è seguita è ciò che hai fatto prima di un’esperienza come quella del Rojava, e cosa farai al ritorno. Non tutte le persone italiane che sono andate a combattere al fianco della popolazione curda si sono viste presentare una richiesta di sorveglianza speciale. Ciò che accomuna me e gli altri cinque per cui questo è avvenuto è il nostro coinvolgimento in una serie di conflitti sociali – coinvolgimento che pure uno stato sedicente democratico dovrebbe essere in grado di gestire diversamente. La privazione di libertà a cui sono sottoposta è in antitesi con tutti i principi costituzionali che dovrebbero garantire quella libertà di pensiero e di dissenso che, in una tipica visione eurocentrica, attribuisce una superiorità del nostro modello di società rispetto ad altri. Sembra essere sfuggita la continuità essenziale fra misure di «sicurezza» che si può vedere applicate pur senza aver commesso alcun crimine e l’ordinamento del regime fascista – non a caso ci sono sentenze sia della Corte Costituzionale che della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che vanno in questa direzione, la mia su questo punto non è certo una voce che grida nel deserto.

FP: Proprio le misure preventive con cui devi fare i conti sono state recentemente descritte dalla sociologa e giurista Xenia Chiaramonte come «armi bianche». Scrive Chiaramonte nel suo libro Governare il conflitto: «solo apparentemente più deboli delle pene, [queste misure] in verità sono straordinariamente afflittive in quanto ampiamente restrittive della libertà individuale, tanto da porre questioni di legittimità costituzionale. Sono più subdole poi, se si pensa alla difficoltà di impugnarle. Esse si fondano sul sospetto». Chiaramonte fa poi un passaggio secondo me fondamentale nel tracciare un nesso tra questi strumenti giuridici e la permanenza nel nostro sistema di assunti della vecchia criminologia positivista della scuola lombrosiana (gli studi di fine Ottocento sul «delinquente politico» ecc.).

EM: Infatti è importante ricordare che il fascismo si trovò in un certo senso la sorveglianza speciale già pronta, concepita dallo stato liberale. Stiamo parlando di elementi che hanno a che fare con la storia della formazione dello stato moderno, al netto della forma di stato o di quella di governo (che si tratti di stato totalitario, liberale o repubblicano).

FP: Qui peraltro stiamo sfiorando un tema di cui scrivo ne La politica della rabbia e che ti sottopongo: l’immagine della folla delinquente e irrazionale, in cui si diffondono come per contagio passioni incontrollabili e intenzioni sovversive. Ho l’impressione che queste due eredità avvelenate lasciateci, tra gli altri, dal lavoro di Lombroso e Sighele, siano fra loro connesse: è per essere separato dal contesto della folla che chi è giudicato pericoloso deve divenire oggetto di misure repressive, fungendo al contempo da monito e da deterrente per tutti gli altri componenti di quel gruppo che fa così paura al potere costituito. Detto altrimenti, non mi pare che si provi a colpire te e altre cinque persone con l’idea che siate dei dinamitardi isolati, ma proprio in quanto appartenenti a certi movimenti sociali e militanti per determinate cause politiche. L’intenzione è fare di voi un esempio.

EM: Quel che dici è vero per noi come per molte altre persone e la dinamica è anche abbastanza manifesta. Penso al caso di Dana Lauriola, alla quale sono state rifiutate le misure alternative al carcere anche per «la sua scelta di risiedere a Bussoleno» dove, scrive il tribunale «potrebbe proseguire la propria attività di proselitismo e di militanza ideologica»: è evidente che anche qui, un caso in cui la misura non è preventiva, ma penale, a venire attenzionata non sia la condotta della persona, ma la persona stessa, non per quel che fa ma perché – la militanza politica fa parte di chi è, di come vive. C’è una mentalità punitiva, che non ha nulla a che fare con la giustizia nella società, ma è molto legata alla sanzione di chi lotta e mette in discussione una sua certa visione e organizzazione. Infatti, in contesti come quello del movimento No-Tav, gli arresti riguardano sia persone con lunghe storie di militanza alle spalle e che svolgono ruoli importanti nella comunità, sia individui che sono magari a una delle loro primissime manifestazioni. L’idea è quella di dimostrare che una partecipazione anche episodica sia già di troppo, che per incappare in misure repressive e di criminalizzazione dimostrare la propria adesione in una singola occasione sia sufficiente. Di fronte a questa strategia però il movimento ha trovato ogni volta le sue strategie di autodifesa. La rabbia che esplode di fronte a queste prevaricazioni, intesa come ne parli tu nel tuo libro, quindi come il sentimento che si produce quando si ha la sensazione che si sia superato un limite invalicabile, è sempre stata trasformata in motore per agire, di fronte a ogni ostacolo si sono trovate nuovi modi di agire che lo superassero.

FP: Visto che hai citato espressamente il movimento No-Tav di cui fai parte, credo sia interessante soffermarci un attimo sul fatto che, nell’ordinanza che dispone la tua sorveglianza speciale, la tua presunta «pericolosità» è sostenuta mettendo insieme l’impegno in Rojava con l’esperienza appunto in Val Susa e con la tua militanza nel movimento femminista Non Una di Meno. Sia a prima vista che in un’ottica più approfondita, si tratta di mobilitazioni fra loro assai eterogenee, che richiedono forme di adesione molto diverse e mettono in campo repertori d’azione che, al netto di una pur riscontrabile condivisione di alcuni ideali, differiscono nettamente. Vorrei chiederti in proposito se ritieni che una di queste esperienze abbia svolto un ruolo preminente rispetto alle altre – se ad esempio credi che puntare i riflettori anche sulla militanza femminista e quella internazionalista sia meramente strumentale rispetto all’attenzione sproporzionata che la procura torinese ha prestato nell’ultimo decennio al movimento valsusino, o se siamo davvero al punto in cui anche la riappropriazione dello spazio pubblico largamente pacifica svolta da Non Una di Meno viene percepita come problematica dalle autorità.

EM: Credo si tratti chiaramente della seconda ipotesi. La tua domanda ci permette anche di comprendere come il potere giudiziario, che non è che una componente di quello statuale, si articola a sua volta in modalità anche disomogenee sul territorio. Una procura come quella di Torino si distingue per un interventismo «politico» maggiore di molte altre – e il tribunale tende ad assecondarla. In tribunale per quel che ho osservato io il corpo collettivo è sempre minaccioso, cattivo. L’essere tante persone insieme è sempre un’aggravante, quella collettiva è una situazione che diventa attaccabile dallo Stato, nelle sue varie componenti, in quanto tale.

FP: Mi sembra interessante a questo punto ritornare dal livello dell’applicazione delle norme a quello della loro creazione, per evidenziare come, pur all’interno di dinamiche di criminalizzazione del dissenso di lungo corso, gli ultimi anni abbiano visto una congiuntura particolarmente drammatica, durante la quale persino una parte della società sedicente «progressista» è arrivata a porsi in continuità con le peggiori destre. Penso ad esempio a uno strumento come il «Daspo urbano», introdotto con l’allora decreto Minniti-Orlando (poi convertito in legge) da una maggioranza nominalmente di centrosinistra. Grande sostenitore del ricorso al Daspo urbano contro le persone senzatetto era fra l’altro Massimo Adriatici, l’ex assessore comunale di Voghera in quota Lega al momento sotto processo per l’omicidio di Youns El Boussettaoui. Una vicenda a suo modo analoga riguarda la criminalizzazione di chi salva e accoglie le persone migranti, dai sequestri delle navi delle Ong che operano nel Mediterraneo al procedimento a carico di Mimmo Lucano – vicenda che ancora una volta mostra plasticamente convergenze bipartisan. A fronte di questo retroterra recente, mi pare che la pandemia abbia prodotto un forte spiazzamento, facendo diffondere in breve tempo la convinzione che le uniche forme di dissenso e di conflitto nel paese siano (e siano state nel recente passato) quelle agite dal fronte no-vax, con le caratteristiche che conosciamo (egemonizzazione crescente da parte della destra fascista, derive irrazionalistiche eccetera). Qui emerge da un lato la tentazione, da parte delle istituzioni, di assumere i no-vax come raffigurazione di comodo di qualunque istanza di protesta sociale; dall’altro la tendenza preoccupante dell’opinione pubblica ad accettare misure para-autoritarie in virtù della convinzione che possano esserne bersaglio soltanto coloro che si oppongono alle vaccinazioni (l’astio con cui è stato accolto il recente sciopero generale non è in tal senso incoraggiante). Dal tuo punto di vista, come facciamo a smarcarci da questo doppio movimento, che pare tarpare le ali a manifestazioni di dissenso sociale che vadano in una direzione egualitaria e democratica nel senso più alto del termine?

EM: Il rischio di non riuscire a tornare indietro rispetto a una certa mentalità «forcaiola» esiste. Penso al dibattito sul Ddl Zan. Salto tutte le considerazioni ovvie su come questa vicenda ci parli di una classe politica insulsa e crudele e parlo del dibattito pubblico che era molto positivo e favorevole. Io di questo sono contenta, però mi è mancata, a parte poche eccezioni di esperienze di lotta come Non Una di Meno, qualche considerazione sui limiti dell’approccio punitivo a un problema strutturale come quello della violenza maschile e di genere. Se vogliamo mettere in discussione una società patriarcale non possiamo accontentarci degli strumenti dello Stato. Penso al movimento per l’aborto in Argentina: una lotta forte perché si articola su tanti livelli, usando tutti gli strumenti a disposizione, ma soprattutto trovandone di nuovi, autonomi e collettivi che innescano processi diversi nella società, cambiandola.

FP: Queste tue considerazioni ci riportano dove eravamo partit*, se possibile alzando ulteriormente la posta in gioco: si tratta di difendere la critica sociale come, etimologicamente, prassi della distinzione, della separazione – ma senza operare demarcazioni poliziesche, senza sfociare in quella che Foucault chiamava una «morale da stato civile», buona per i burocrati e i questurini. Mi torna in mente in questo senso una delle definizioni di polizia che dà Jacques Rancière ne Il disaccordo: «un disciplinamento dei corpi che definisce la pluralità tra i modi del fare, i modi dell’essere e i modi del dire, che fa sì che determinati corpi siano assegnati per via del loro nome a un determinato posto e a una determinata funzione; è un ordine del visibile e del dicibile che fa sì che un’attività sia visibile e un’altra non lo sia, che una certa parola venga intesa come discorso e un’altra come rumore». Polizia dunque, secondo la sua fortunata espressione, come partizione del sensibile: col rumore non ci si ferma a discutere, al massimo lo si reprime in quanto disturbo della quiete pubblica. Mi pare che si presenti qui la necessità di criticare, insieme a quel cosiddetto sapere di polizia di cui le carte dei processi contro i movimenti sociali sono pieni, una ragione poliziesca che arriva a estendersi anche dentro di noi. Il neoliberalismo non è del resto quella razionalità che vorrebbe fare di ognuno di noi un sorvegliato speciale?

EM: Esattamente, oggi tanto l’ideologia neoliberale quanto quella della destra reazionaria si basano su una nozione di colpa – da un lato interiorizzata («è colpa tua se sei povera, significa che non ti sei impegnata abbastanza»), dall’altro esternalizzata verso bersagli di comodo («è colpa dei migranti che ti rubano il lavoro»). Che si tratti di guardare allo specchio o alla finestra, è comunque la colpa quella di cui si va alla ricerca. A queste ideologie per prosperare non occorre neppure un’adesione attiva, ma una mera acquiescenza – appunto, per tornare alla questione centrale, un’assenza di conflitto, di critica. Per chi prova a opporsi attivamente, del resto, le autorità si scomodano volentieri. Di qui la necessità di immaginare modelli diversi, non punitivi di giustizia, de-naturalizzando quelli esistenti. È questo quello che tento di fare nel mio piccolo.

*Eddi Marcucci, attivista, nel 2017 è andata in Siria per unirsi alle milizie curde e combattere lo Stato Islamico. Franco Palazzi è dottorando in filosofia all’Università di Essex e autore di Tempo presente. Per una filosofia politica dell’attualità(o mbre corte, 2019) e La politica della rabbia (Nottetempo, 2021). Ha scritto, tra gli altri, per DoppiozeroEffimeraIl TascabileJacobin ItaliaLe parole e le coseOperaVivaMagazine e Public Seminar.

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