martedì 22 marzo 2022

La fragilità culturale degli studenti italiani - Manfredi Alberti

 

Da almeno due decenni, parte molte indagini statistiche segnalano che la preparazione media degli studenti italiani è tra le più basse nel panorama dei paesi Ocse. Purtroppo negli ultimi anni non sembra che si sia fatto molto per invertire la tendenza e migliorare il nostro sistema formativo, anzi si è assistito a una furia riformatrice, spesso inconcludente se non dannosa, incapace di mettere in campo adeguate risorse economiche. In un suo recente lavoro lo storico Marco De Nicolò prova ad analizzare il tema con grande capacità di analisi e sintesi, con un ragionamento a tutto tondo che tiene insieme la scuola e l’università (Formazione. Una questione nazionale, Laterza, pp. 160, euro 14).

Sulla base della propria esperienza di docente, De Nicolò tratteggia un quadro piuttosto desolante dello scarso livello delle conoscenze di base degli studenti universitari, spesso privi delle più elementari nozioni di geografia, educazione civica, matematica, per non parlare delle competenze linguistiche. L’abbassamento del livello degli studenti italiani riguarda tutti gli ambiti disciplinari, anche se l’autore evidenzia opportunamente la particolare gravità delle lacune che riguardano la conoscenza del passato, dovuta probabilmente alla progressiva marginalizzazione della storia come disciplina, da anni trattata come una Cenerentola sia negli ordinamenti scolastici sia nei corsi di laurea. Ne sono una prova, a livello scolastico, la riduzione delle ore nella gran parte degli indirizzi liceali e l’attribuzione dell’insegnamento della disciplina a docenti spesso privi di una specifica formazione; a livello universitario, la riduzione delle cattedre di storia in molti dipartimenti.
Le fragilità culturali dei nostri studenti non sono però equamente distribuite fra tutti gli strati sociali, dal momento che tendono a concentrarsi fra i figli delle famiglie meno abbienti e meno acculturate. Esiste quindi un tema che riguarda le differenze di classe e il grado di democraticità delle istituzioni formative.

L’AUTORE È CONVINTO, giustamente, che la scuola e l’università possano promuovere una maggiore uguaglianza solo non abbassando il livello delle conoscenze richieste. Il paradosso, evidenziato anche da altri osservatori nell’attuale dibattito, è che la facilitazione dei percorsi formativi viene vista come una soluzione sia da una malintesa pedagogia «democratica», che vorrebbe archiviare come residui di una vecchia cultura autoritaria il rigore e la selettività nel percorso formativo, sia dagli studenti meno culturalmente attrezzati, che avrebbero solo da guadagnare da un’istruzione pubblica di qualità.
Il libro di De Nicolò, vero e proprio grido d’allarme rispetto al dilagare di un nuovo analfabetismo, va letto e meditato, per immaginare soluzioni che siano sistemiche. I problemi descritti, infatti, sono di natura epocale e collettiva, e per risolverli non basteranno di certo i comportamenti virtuosi di singole scuole e università. Tra le cause che hanno contribuito alla situazione attuale, oltre a quelle già menzionate, l’autore ne individua altre importanti: la crisi dei partiti, un tempo attenti alla dimensione pedagogica, la perdita di autorevolezza e autonomia degli insegnanti, la burocratizzazione del loro lavoro, il mito del digitale come unica frontiera dell’innovazione, la diffusione di atteggiamenti iperprotettivi e «garantisti» nei confronti degli studenti, e inoltre, in un processo di aziendalizzazione strisciante che ha coinvolto sia le scuole sia le università, alcuni meccanismi premiali che hanno penalizzato i processi di apprendimento lenti, favorendo l’adeguamento degli standard alla sempre più modesta formazione di base degli studenti.

L’ANALISI di De Nicolò, già ricca e articolata, sollecita ulteriori domande a cui è urgente dare una risposta, per tentare di invertire la rotta. Ci si potrebbe chiedere, per esempio, se la crisi del sistema formativo non abbia anche delle radici strutturali, oltre che politiche e culturali, ovvero non sia da collegare all’indebolimento del nostro sistema produttivo e alle strategie delle imprese italiane, sempre meno attente all’innovazione e in cerca di manodopera poco qualificata e scarsamente retribuita. Che valore può avere lo studio, infatti, in un contesto di altissima disoccupazione giovanile, di precarietà e basse retribuzioni, anche per molti studenti brillanti costretti a fuggire all’estero?

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