Un recentissimo
lavoro del
Fondo Monetario Internazionale (FMI) fornisce un quadro drammatico sulle disuguaglianze
in Italia. Come d’altronde è ben noto, gli ultimi quarant’anni hanno visto un
esplodere di tale fenomeno, con un aumento sensibile delle disparità in termini
di guadagni che ha portato alla creazione di una vera e propria voragine tra i
pochi privilegiati e la grande maggioranza della popolazione.
Non si tratta di una novità, ma di un fenomeno che abbiamo già
affrontato in più occasioni, la manifestazione più evidente di
come funziona una moderna economia di mercato alimentata dalla continua ricerca
del profitto. Fa notizia, però, che ad occuparsene in maniera esplicita sia il
FMI, una istituzione internazionale che ha dedicato una larga parte dei suoi
sforzi ad alimentare
le stesse disuguaglianze su cui oggi si strappa le vesti. Fa ancora più notizia – o meglio,
dovrebbe fare notizia, se la cattiva coscienza di classe politica e mezzi di
informazione non inducesse a guardare altrove – la causa che il FMI individua
alla base dell’esplosione delle disparità di reddito.
Per trovare il colpevole, infatti,
non serve cercare molto lontano: le riforme che hanno trasformato, in poco più
di venti anni, il mercato del lavoro italiano da uno dei più rigidi in Europa a
uno dei più flessibili (parole del FMI) sono le dirette responsabili. Pochi
numeri, impietosi, spiegano meglio di tante parole di cosa stiamo parlando. La
figura 1 (dati Eurostat) mostra come la percentuale di lavoratori con un
contratto a tempo determinato, cioè precario, sia più che raddoppiata tra il
1995 (7%) e il 2021 (17%).
Figura 1: percentuale di lavoratori con un contratto a
tempo determinato sul totale dei lavoratori. Fonte: Eurostat
La figura 2 aggiunge un altro tassello: se nel 1992
solo il 2% dei lavoratori si trovava involontariamente in un regime di
part-time – cioè era part-time non per scelta, ma per mancanza di alternative
migliori – nel 2020 questa percentuale arrivava al 12%.
Figura 2: percentuale di lavoratori con contratto
part-time sul totale dei lavoratori. Fonte: OCSE
Quali sono stati gli effetti di questo proliferare
senza controllo di precarietà lavorativa ed esistenziale? Lo studio del FMI
mette in fila le risposte:
- sono
aumentate vertiginosamente le disparità e le disuguaglianze nella
distribuzione del reddito;
- chi è
entrato nel mercato del dopo il 2000 ha enorme volatilità da un anno
all’altro ed incertezza nei propri redditi, rendendo impossibile ogni
progetto di vita;
- chi
entra nel mercato del lavoro attraverso un contratto a tempo determinato
non ha particolari prospettive di trovare un lavoro stabile.
Al danno si aggiunge la beffa. Le
riforme strutturali del mercato del lavoro sono state imposte con la scusa ed
il pretesto di modernizzare il Paese e renderlo finalmente competitivo sui
mercati internazionali. L’effetto ottenuto, però, è stato esattamente l’opposto: la produttività del lavoro in
Italia è stata frenata proprio da quelle riforme che, secondo i cantori
dell’economia di mercato, avrebbero dovuto portarci in un mondo nuovo e pieno
di opportunità. Come la letteratura economica eterodossa ripete da anni, se al padrone è
concessa la possibilità di risparmiare sul costo del lavoro con contratti
miserabili e vessatori, costui si guarderà bene dall’investire in tecnologie
avanzate o nel miglioramento della qualità dei prodotti e continuerà ad
utilizzare massicciamente lavoro a basso costo e a basse tutele. Il datore
risparmierà anche sulla formazione della propria forza lavoro, preferendo un
lavoratore precario da licenziare alla prima necessità a un lavoratore con
esperienza e tutele.
Naturalmente gli effetti nefasti della precarizzazione
del mercato del lavoro ricadono inevitabilmente sul livello medio dei salari
anche dei residui lavoratori con contratto stabile dal momento che la presenza
di potenziali alternative a buon mercato esercita una pressione al ribasso sul
livello generale dei salari. A questa dinamica si aggiunge come effetto e causa
insieme il generale indebolimento dei sindacati che va di pari passo con
l’accresciuta ricattabilità dei lavoratori. Una ricattabilità resa poi ancor
più drammatica nel contesto di libera circolazione dei capitali dalla minaccia
permanente di delocalizzazione all’estero da parte delle imprese. Un circolo
vizioso che ha determinato l’enorme processo di redistribuzione regressiva del
reddito e della ricchezza che prosegue da più di trent’anni.
Se si gratta appena la patina di
propaganda e presunta ineluttabilità che copre gli interventi che hanno
riguardato il mercato del lavoro italiano negli ultimi decenni, emerge in
maniera indiscutibile una sola possibile interpretazione: il virus della
precarietà serve unicamente a creare un esercito industriale di sfruttati, che
il padrone usa alla bisogna e getta via quando non serve più, pagati poco, male
e in maniera intermittente. Uno strumento che serve ad aumentare il potere
contrattuale del padronato, non solamente nei confronti del precario ma anche
del lavoratore con contratto ‘regolare’, che sa che se perde il lavoro dovrà
poi entrare a sua volta nel girone infernale dei contratti a termine, part-time
e così via, un’arma disciplinante per alimentare il profitto sulla pelle di chi
lavora.
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