mercoledì 9 marzo 2022

C’era una volta il Servizio Sanitario Nazionale - Pierpaolo Brovedani

 

Il Covid ha messo in evidenza la fragilità della sanità pubblica e la progressiva deriva privatistica del Servizio Sanitario Nazionale, che non a caso qualcuno comincia a definire “sistema” e non “servizio”: un termine che sottintende l’allargamento dell’assistenza anche ad altri soggetti. La salute come bene comune, rappresentata storicamente dal Servizio Sanitario Nazionale, ha subìto in questi ultimi quarant’anni un processo di ridimensionamento che la allontana sempre più dal mandato costituzionale.

Partirei da un breve ma doveroso riassunto cronologico per evidenziare la progressiva disapplicazione dell’art 32 della Costituzione dal momento dell’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale: 1) Il 23 dicembre 1978 nasceva il Servizio Sanitario Nazionale e la creazione delle Unità Sanitarie Locali: la legge, la 833, fu varata dal Governo Andreotti e fu il successo storico del primo Ministro della Salute donna, Tina Anselmi; 2) il decreto legislativo n. 502/1992 (Governo Amato, ministro De Lorenzo) avviò la regionalizzazione della Sanità e istituì le Aziende Sanitarie Locali e Ospedaliere: ha inizio il processo di aziendalizzazione della sanità; 3) terzo passaggio: il decreto legislativo n. 229/1999 della ministra Rosy Bindi, anche noto come riforma ter (Governo D’Alema, ministra affari regionali Katia Belillo, ministra solidarietà sociale Livia Turco) confermò e rafforzò l’evoluzione in senso aziendale e regionalizzato e istituì i fondi integrativi sanitari per le prestazioni che superavano i livelli di assistenza garantiti dal SSN; 4) infine, con la riforma del Titolo V, legge costituzionale n. 3/2001 (approvato dal Governo Amato2 e confermato col 64% dal referendum sostenuto dal centro-sinistra mentre governava Berlusconi) alle Regioni venne riconosciuta autonomia legislativa anche per la sanità: fu l’avvio della famigerata autonomia differenziata, con la regionalizzazione della sanità e la nascita di 21 Sistemi Sanitari Regionali differenti, e il padrino che tenne a battesimo l’autonomia differenziata fu purtroppo il centro-sinistra.

Il Servizio Sanitario Nazionale. La legge n. 833 fu una legge monumentale che assorbì i debiti delle diverse mutue e istituì un sistema universale e illimitato di cure. I principi fondanti erano i seguenti: universalità, uguaglianza, gratuità, globalità dei servizi offerti, solidarietà, democraticità, controllo pubblico e unicità (niente privati). Questa legge rispondeva pienamente alla Costituzione, che all’art. 32 definisce la salute come bene comune, anzi come diritto fondamentale: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». La salute quindi non è solo un fondamentale diritto individuale, ma anche un interesse della collettività. Sfugge talvolta che la salute della popolazione non solo migliora le condizioni individuali e prolunga l’aspettativa di vita, ma crea anche benessere generale e migliora lo stato economico del paese. Non un costo quindi ma una risorsa.

L’aziendalizzazione della sanità. Nel 1992 il Governo Amato (annata di grandi privatizzazioni dei beni comuni e degli enti pubblici, con Draghi direttore generale del ministero del Tesoro ad eseguire le operazioni del “dream team” che smantellò la cosa pubblica: Amato, Ciampi, Dini e Draghi) abolì le USL e istituì le Aziende Sanitarie Locali e Ospedaliere. Introdusse quindi una concezione di assistenza pubblica in cui la spesa sociale e sanitaria doveva essere proporzionata all’effettiva realizzazione delle entrate e non poteva più rapportarsi unicamente alla entità dei bisogni. Cosa comportò l’istituzione delle Aziende Sanitarie, cosa produsse l’introduzione del concetto di aziendalizzazione? Due conseguenze principali. La prima, e la più importante, è che l’obiettivo principale dei Direttori Generali non è più tanto la riduzione delle patologie o la risposta sanitaria ai bisogni di salute, quanto il pareggio di bilancio (obiettivo cui peraltro è legato il loro premio retributivo). Nota bene – e lo dico da sindacalista medico – che il pareggio di bilancio premia anche tutto il personale con l’aumento della retribuzione pari all’1% del bilancio stesso. Va a farsi benedire quindi la concezione legata al raggiungimento di obiettivi sanitari, motivazione principale della legge n. 833 e quindi dell’obiettivo di tutela della salute contenuto nell’art. 32 della Costituzione. La seconda conseguenza è la verticalizzazione del sistema sanitario. I Direttori Generali, emanazione diretta del potere politico (ma questo lo sarà di più con la successiva gestione di sovranità alle regioni) hanno un potere quasi assoluto, persino nella nomina dei primari (hanno persino avuto la possibilità di scegliere tra i tre primi nella graduatoria concorsuale). L’ospedale è già per sua natura una struttura gerarchica e l’aziendalizzazione accentua il potere decisionale del Collegio di Direzione e la verticalizzazione dei Dipartimenti.

La creazione del secondo pilastro sanitario assicurativo. Il decreto legislativo n. 229/1999 della ministra Rosy Bindi confermò e rafforzò l’evoluzione in senso aziendale e regionalizzato e istituì i fondi integrativi sanitari per le prestazioni che superavano i livelli di assistenza garantiti dal SSN, vietati dalla legge del 1978. Rosy Bindi è tuttora considerata un baluardo contro l’ondata neoliberista dei governi di fine anni ‘90. Il giudizio di un attento commentatore della sanità come Ivan Cavicchi invece è impietoso: «Per recuperare la deriva neoliberista della sanità, Bindi è stata più neoliberista degli altri». Purtroppo a molti sfugge il fatto che la sanità integrativa, il cosiddetto “secondo pilastro” della sanità, liberato dal decreto del 1999 e cavalcato dalle grosse compagnie assicurative, è parte viva della spesa sanitaria privata. Se la spesa sanitaria pubblica nazionale raggiunge i 120 miliardi di euro (in aumento solo nell’ultimo biennio, dopo essersi assestata per anni sui 133-115 miliardi), quella privata supera i 40 miliardi, di cui almeno 5 costituiti dal costo delle assicurazioni mediche. E questo costo rappresenta il 15% dell’intera spesa sanitaria privata. Il secondo pilastro è in piena espansione, e fa gola alle compagnie assicurative, in quanto, per il momento, solo il 16% della potenziale platea di clienti usufruisce di una polizza medica. Si calcola che le assicurazioni private hanno davanti un mercato potenziale di almeno 50 miliardi di euro da conquistare. Le conseguenze rischiano di essere devastanti: la spesa sanitaria globale e la spesa sanitaria pro capite aumenteranno progressivamente; verrà cristallizzata la caratteristica privatistica di alcune cure (dentistiche, oculistiche, fisioterapiche ecc) impedendone la reintroduzione e la diffusione nel pubblico; aumenterà la disparità di accesso alle cure, creando una sanità di serie A per i ceti più abbienti e di serie B per gli altri. Il rischio è quindi quello di un ritorno alle mutue? In realtà lo scenario è molto più preoccupante. Non ritorneremo al sistema mutualistico (le vecchie mutue erano bene o male gestite da enti pubblici) ma a qualcosa di peggio, perché in mano esclusivamente a compagnie private, il cui unico obiettivo è il profitto. Una volta raggiunto il regime di oligopolio, le compagnie potranno ulteriormente aumentare le tariffe e la restrizione delle prestazioni più costose, con l’esclusione di fasce sempre più numerose di pazienti “a rischio” di necessità di cure onerose (modello americano). Aumenteranno quindi le fasce di popolazione escluse dalle cure o che rinunceranno alle cure. Tutte queste risorse (5 miliardi di euro oggi, ma molti di più domani) andrebbero invece impegnate nel miglioramento della sanità pubblica, per l’assunzione del personale sanitario e la modernizzazione dei presidi diagnostico-terapeutici.

La frantumazione della sanità pubblica: dal Servizio Sanitario Nazionale ai 21 Servizi sanitari regionali. Con la riforma del Titolo V del 2001 (modifica degli articoli 116 e 117 approvata da referendum costituzionale) la tutela della salute divenne materia di legislazione concorrente Stato-Regioni: lo Stato determina i Livelli essenziali di assistenza (LEA); le Regioni hanno competenza esclusiva nella regolamentazione e organizzazione dei servizi sanitari nel finanziamento delle Aziende Sanitarie. La riforma costituzionale federalista della sanità (cui paradossalmente la Lega vent’anni fa votò contro) completò l’opera di smantellamento della riforma del 1978 con la regionalizzazione della sanità italiana e l’adozione della quota capitaria ponderata (numero di abitanti, anzianità della popolazione e deprivazione sociale, quest’ultima aggiunta in seguito ma mai applicata), l’algoritmo utilizzato per distribuire il fondo sanitario nazionale alle regioni: grazie a questo calcolo, le regioni del sud più bisognose in termini di assistenza sono state sotto-finanziate rispetto a quelle del nord. Le conseguenze immediate della riforma del Titolo V sono state il sotto-finanziamento del Sud, che mediamente ha una popolazione più giovane (la considerazione della deprivazione sociale, la minore forza economica e la diseguale base di partenza non sono mi state applicate); l’accentuazione della migrazione sanitaria sud-nord; la creazione di 21 sistemi sanitari regionali diversi; il perverso sistema, tipicamente aziendale, delle “fughe” e “attrazioni” dei pazienti con relativi rimborsi economici tra regione e regione; la mancata validità dei documenti sanitari sul territorio nazionale (dalle esenzioni alle ricette); la corsa alla privatizzazione di alcune regioni. Dal punto di vista costituzionale si è disatteso l’articolo 3 («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge»). Il disastro della regionalizzazione è emerso tragicamente all’esplodere della pandemia del Covid 19, con protocolli e sistemi sanitari a tutela variabile, in base alla diversa organizzazione e al grado di privatizzazione. Vere e proprie spinte secessioniste si sono manifestate nel corso dell’ultimo tormentato biennio, palesemente in contrasto con l’incipit dell’art. 5 («La Repubblica è una e indivisibile»). Va detto che il Governo, principalmente per quanto riguarda l’obbligatorietà delle vaccinazioni, ma anche in tema di omogeneità di intervento sanitario, ha disatteso l’art. 120 che prevede che lo Stato possa sostituirsi alle Regioni in caso di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica.

Insomma, nel corso degli ultimi 40 anni il Sistema Sanitario Nazionale, che recepiva il concetto costituzionale di salute come bene comune fornendo un’assistenza pubblica, universale e gratuita per gli indigenti, ha subìto duri colpi legislativi che ne hanno ridimensionato i propositi iniziali.

da qui

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