Il Covid ha messo in evidenza la fragilità della
sanità pubblica e la progressiva deriva privatistica del Servizio Sanitario
Nazionale, che non a caso qualcuno comincia a definire “sistema” e non
“servizio”: un termine che sottintende l’allargamento dell’assistenza anche ad
altri soggetti. La salute come bene comune, rappresentata storicamente
dal Servizio Sanitario Nazionale, ha subìto in questi ultimi quarant’anni un
processo di ridimensionamento che la allontana sempre più dal mandato
costituzionale.
Partirei da un breve ma doveroso riassunto cronologico
per evidenziare la progressiva disapplicazione dell’art 32 della Costituzione
dal momento dell’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale: 1) Il 23
dicembre 1978 nasceva il Servizio Sanitario Nazionale e la creazione delle
Unità Sanitarie Locali: la legge, la 833, fu varata dal Governo Andreotti e fu
il successo storico del primo Ministro della Salute donna, Tina Anselmi; 2)
il decreto legislativo n. 502/1992 (Governo Amato, ministro De
Lorenzo) avviò la regionalizzazione della Sanità e istituì le Aziende Sanitarie
Locali e Ospedaliere: ha inizio il processo di aziendalizzazione della sanità;
3) terzo passaggio: il decreto legislativo n. 229/1999 della ministra Rosy
Bindi, anche noto come riforma ter (Governo D’Alema, ministra
affari regionali Katia Belillo, ministra solidarietà sociale Livia Turco)
confermò e rafforzò l’evoluzione in senso aziendale e regionalizzato e istituì
i fondi integrativi sanitari per le prestazioni che superavano i livelli di
assistenza garantiti dal SSN; 4) infine, con la riforma del Titolo V, legge
costituzionale n. 3/2001 (approvato dal Governo Amato2 e confermato col 64% dal
referendum sostenuto dal centro-sinistra mentre governava Berlusconi) alle
Regioni venne riconosciuta autonomia legislativa anche per la sanità: fu
l’avvio della famigerata autonomia differenziata, con la regionalizzazione
della sanità e la nascita di 21 Sistemi Sanitari Regionali differenti, e il
padrino che tenne a battesimo l’autonomia differenziata fu purtroppo il
centro-sinistra.
Il Servizio Sanitario Nazionale. La legge n. 833 fu una legge
monumentale che assorbì i debiti delle diverse mutue e istituì un
sistema universale e illimitato di cure. I principi fondanti erano i
seguenti: universalità, uguaglianza, gratuità, globalità dei servizi offerti,
solidarietà, democraticità, controllo pubblico e unicità (niente privati).
Questa legge rispondeva pienamente alla Costituzione, che all’art. 32 definisce
la salute come bene comune, anzi come diritto fondamentale: «La Repubblica
tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della
collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». La salute
quindi non è solo un fondamentale diritto individuale, ma anche un
interesse della collettività. Sfugge talvolta che la salute della
popolazione non solo migliora le condizioni individuali e prolunga
l’aspettativa di vita, ma crea anche benessere generale e migliora lo stato
economico del paese. Non un costo quindi ma una risorsa.
L’aziendalizzazione della sanità. Nel 1992 il Governo Amato (annata di
grandi privatizzazioni dei beni comuni e degli enti pubblici, con Draghi
direttore generale del ministero del Tesoro ad eseguire le operazioni del
“dream team” che smantellò la cosa pubblica: Amato, Ciampi, Dini e Draghi)
abolì le USL e istituì le Aziende Sanitarie Locali e
Ospedaliere. Introdusse quindi una concezione di assistenza pubblica in cui la
spesa sociale e sanitaria doveva essere proporzionata all’effettiva
realizzazione delle entrate e non poteva più rapportarsi unicamente alla
entità dei bisogni. Cosa comportò l’istituzione delle Aziende Sanitarie, cosa
produsse l’introduzione del concetto di aziendalizzazione? Due conseguenze
principali. La prima, e la più importante, è che l’obiettivo principale
dei Direttori Generali non è più tanto la riduzione delle patologie o la
risposta sanitaria ai bisogni di salute, quanto il pareggio di bilancio (obiettivo
cui peraltro è legato il loro premio retributivo). Nota bene – e lo dico da
sindacalista medico – che il pareggio di bilancio premia anche tutto il
personale con l’aumento della retribuzione pari all’1% del bilancio stesso. Va
a farsi benedire quindi la concezione legata al raggiungimento di obiettivi
sanitari, motivazione principale della legge n. 833 e quindi dell’obiettivo di
tutela della salute contenuto nell’art. 32 della Costituzione. La seconda
conseguenza è la verticalizzazione del sistema sanitario. I
Direttori Generali, emanazione diretta del potere politico (ma questo lo sarà
di più con la successiva gestione di sovranità alle regioni) hanno un potere
quasi assoluto, persino nella nomina dei primari (hanno persino avuto la
possibilità di scegliere tra i tre primi nella graduatoria concorsuale).
L’ospedale è già per sua natura una struttura gerarchica e l’aziendalizzazione
accentua il potere decisionale del Collegio di Direzione e la verticalizzazione
dei Dipartimenti.
La creazione del secondo pilastro sanitario
assicurativo. Il decreto
legislativo n. 229/1999 della ministra Rosy Bindi confermò e rafforzò
l’evoluzione in senso aziendale e regionalizzato e istituì i fondi
integrativi sanitari per le prestazioni che superavano i livelli di assistenza
garantiti dal SSN, vietati dalla legge del 1978. Rosy Bindi è tuttora
considerata un baluardo contro l’ondata neoliberista dei governi di fine anni
‘90. Il giudizio di un attento commentatore della sanità come Ivan Cavicchi
invece è impietoso: «Per recuperare la deriva neoliberista della sanità, Bindi
è stata più neoliberista degli altri». Purtroppo a molti sfugge il fatto che
la sanità integrativa, il cosiddetto “secondo pilastro” della sanità, liberato
dal decreto del 1999 e cavalcato dalle grosse compagnie assicurative, è parte
viva della spesa sanitaria privata. Se la spesa sanitaria pubblica nazionale
raggiunge i 120 miliardi di euro (in aumento solo nell’ultimo biennio, dopo
essersi assestata per anni sui 133-115 miliardi), quella privata supera i
40 miliardi, di cui almeno 5 costituiti dal costo delle assicurazioni mediche.
E questo costo rappresenta il 15% dell’intera spesa sanitaria privata. Il
secondo pilastro è in piena espansione, e fa gola alle compagnie assicurative,
in quanto, per il momento, solo il 16% della potenziale platea di clienti
usufruisce di una polizza medica. Si calcola che le assicurazioni private hanno
davanti un mercato potenziale di almeno 50 miliardi di euro da conquistare. Le
conseguenze rischiano di essere devastanti: la spesa sanitaria globale e la
spesa sanitaria pro capite aumenteranno progressivamente; verrà cristallizzata
la caratteristica privatistica di alcune cure (dentistiche, oculistiche,
fisioterapiche ecc) impedendone la reintroduzione e la diffusione nel pubblico;
aumenterà la disparità di accesso alle cure, creando una sanità di serie A per
i ceti più abbienti e di serie B per gli altri. Il rischio è quindi quello di
un ritorno alle mutue? In realtà lo scenario è molto più preoccupante. Non
ritorneremo al sistema mutualistico (le vecchie mutue erano bene o male gestite
da enti pubblici) ma a qualcosa di peggio, perché in mano esclusivamente a
compagnie private, il cui unico obiettivo è il profitto. Una volta
raggiunto il regime di oligopolio, le compagnie potranno ulteriormente
aumentare le tariffe e la restrizione delle prestazioni più costose, con l’esclusione
di fasce sempre più numerose di pazienti “a rischio” di necessità di cure
onerose (modello americano). Aumenteranno quindi le fasce di popolazione
escluse dalle cure o che rinunceranno alle cure. Tutte queste risorse
(5 miliardi di euro oggi, ma molti di più domani) andrebbero invece impegnate
nel miglioramento della sanità pubblica, per l’assunzione del personale
sanitario e la modernizzazione dei presidi diagnostico-terapeutici.
La frantumazione della sanità pubblica: dal Servizio
Sanitario Nazionale ai 21 Servizi sanitari regionali. Con la riforma del Titolo V del 2001
(modifica degli articoli 116 e 117 approvata da referendum
costituzionale) la tutela della salute divenne materia
di legislazione concorrente Stato-Regioni: lo Stato determina i Livelli
essenziali di assistenza (LEA); le Regioni hanno competenza esclusiva nella
regolamentazione e organizzazione dei servizi sanitari nel finanziamento delle
Aziende Sanitarie. La riforma costituzionale federalista della sanità (cui
paradossalmente la Lega vent’anni fa votò contro) completò l’opera di
smantellamento della riforma del 1978 con la regionalizzazione della sanità
italiana e l’adozione della quota capitaria ponderata (numero
di abitanti, anzianità della popolazione e deprivazione sociale, quest’ultima
aggiunta in seguito ma mai applicata), l’algoritmo utilizzato per distribuire
il fondo sanitario nazionale alle regioni: grazie a questo calcolo, le regioni
del sud più bisognose in termini di assistenza sono state sotto-finanziate
rispetto a quelle del nord. Le conseguenze immediate della riforma del Titolo V
sono state il sotto-finanziamento del Sud, che mediamente ha una popolazione
più giovane (la considerazione della deprivazione sociale, la minore forza
economica e la diseguale base di partenza non sono mi state applicate);
l’accentuazione della migrazione sanitaria sud-nord; la creazione di 21 sistemi
sanitari regionali diversi; il perverso sistema, tipicamente aziendale, delle
“fughe” e “attrazioni” dei pazienti con relativi rimborsi economici tra regione
e regione; la mancata validità dei documenti sanitari sul territorio nazionale
(dalle esenzioni alle ricette); la corsa alla privatizzazione di alcune
regioni. Dal punto di vista costituzionale si è disatteso l’articolo 3 («Tutti
i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge»). Il
disastro della regionalizzazione è emerso tragicamente all’esplodere della
pandemia del Covid 19, con protocolli e sistemi sanitari a tutela variabile, in
base alla diversa organizzazione e al grado di privatizzazione. Vere e proprie
spinte secessioniste si sono manifestate nel corso dell’ultimo tormentato
biennio, palesemente in contrasto con l’incipit dell’art. 5 («La Repubblica è
una e indivisibile»). Va detto che il Governo, principalmente per quanto
riguarda l’obbligatorietà delle vaccinazioni, ma anche in tema di omogeneità di
intervento sanitario, ha disatteso l’art. 120 che prevede che lo Stato possa
sostituirsi alle Regioni in caso di pericolo grave per l’incolumità e la
sicurezza pubblica.
Insomma, nel corso degli ultimi 40 anni il Sistema
Sanitario Nazionale, che recepiva il concetto costituzionale di salute come
bene comune fornendo un’assistenza pubblica, universale e gratuita per gli
indigenti, ha subìto duri colpi legislativi che ne hanno ridimensionato i
propositi iniziali.
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