Oggi ricorrono i trent’anni esatti dalla firma del Trattato di Maastricht,
ma non c’è nulla da festeggiare.
Era il 7 febbraio del 1992, infatti, quando i rappresentanti dei dodici
paesi membri dell’allora Comunità europea – per l’Italia il Ministro degli
Affari esteri Gianni De Michelis e il Ministro del Tesoro Guido Carli – si
riunirono nella cittadina olandese di Maastricht per dar vita all’ultima fase
del processo di unificazione economica e monetaria dell’Europa occidentale e
inaugurare formalmente la nascita dell’Unione europea.
Il Trattato di Maastricht non si limitava a stabilire un calendario
ufficiale per la creazione dell’Unione economica e monetaria (UEM) – cioè
dell’eurozona –, ma definiva anche i rigorosi criteri economici e finanziari
che gli Stati dovevano soddisfare per l’ingresso nell’UEM: stabilità dei prezzi
e contenimento del debito e del deficit pubblico entro rispettivamente il 60% e
il 3% del PIL, nel secondo caso per tendere però al pareggio o al surplus (come
ribadirà poi il fiscal compact). Il Trattato, inoltre, proibiva esplicitamente
(artt. 104, 123-135) qualunque forma di monetizzazione diretta dei deficit
pubblici.
Tuttavia, la portata dei trattati europei – oltre al Trattato di
Maastricht, la sua versione aggiornata, il Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea (TFUE) e il Trattato di Lisbona – va ben oltre la politica
fiscale e monetaria. Su di essi, infatti, si fonda tutta la struttura giuridica
della politica economica dell’Unione europea (che è rimasta sostanzialmente
immutata negli anni). I princìpi guida dell’UE sono distintamente indicati nel
capitolo sulla politica economica del Trattato di Maastricht, in cui si afferma
che l’UE e i suoi Stati membri devono condurre una politica economica «conforme
al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza» e
ispirata ai seguenti princìpi: «prezzi stabili, finanze pubbliche e
condizioni monetarie sane nonché bilancia dei pagamenti sostenibile». Altri
articoli subordinano la stessa politica sociale e del lavoro, oltre che la
politica industriale, al mantenimento della «competitività», imponendo la
flessibilità e la precarizzazione della prima e vietando gli interventi
pubblici a sostegno della seconda.
Di fatto, i trattati europei – a partire da Maastricht – rappresentano una
vera e propria costituzione economica che ha incorporato il neoliberismo nel
tessuto stesso dell’Unione europea, mettendo al bando le politiche “keynesiane”
che avevano rappresentato la norma nei decenni precedenti. L’obiettivo delle
élite europee – e italiane in particolare –, d’altronde, era esattamente
questo: neoliberalizzare surrettiziamente l’economia e la società e mandare in
soffitta il modello politico-economico del dopoguerra, reo di aver rafforzato
troppo i lavoratori e le masse popolari.
Fu lo stesso Guido Carli ad ammettere che l’obiettivo di Maastricht era
quello di (neo)liberalizzare surrettiziamente un’economia e una società
tradizionalmente – e costituzionalmente – ostili al libero mercato. Carli,
infatti, era consapevole che il Trattato di Maastricht avrebbe implicato «la
concezione dello “Stato minimo”», e dunque un «mutamento di
carattere costituzionale» per cui si sarebbero ristrette le libertà
politiche e riformate quelle economiche: in particolare «l’abbandono
dell’economia mista, l’abbandono della programmazione economica, la
ridefinizione delle modalità di ricomposizione della spesa, una redistribuzione
delle responsabilità che restringa i poteri delle assemblee parlamentari ed
aumenti quelle dei governi, il ripudio del principio della gratuità diffusa
(con la conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale)» e
un ripensamento «in profondità delle leggi con le quali si è realizzato
in Italia il cosiddetto Stato sociale».
Una vera e propria “controrivoluzione neoliberale” – in contrapposizione al
modello di economia mista incarnato nella Costituzione repubblicana e
parzialmente realizzato nel dopoguerra; è lo stesso Carli, d’altronde, a
riconoscere che la nascente Unione era imperniata proprio «su quelle
nozioni che non avevano trovato albergo nella nostra Costituzione» –
che per le éliteitaliane sarebbe stata molto difficile, se non impossibile,
realizzare senza il vincolo esterno dell’Europa, «per le vie ordinarie
del governo e del Parlamento», come disse sempre Carli.
Il Trattato di Maastricht, insomma, per gli esponenti dell’establishment
tecnoliberista italiano – Ciampi, Draghi, Amato, Andreatta, solo per citarne
alcuni, che a loro volta erano espressione di uno “Stato nello Stato”,
comprendente anche grandi aziende economiche ed editoriali, figure tecniche,
movimenti della società civile, intellettuali e pezzi della magistratura –
rappresentava l’occasione perfetta per liquidare una volta per tutte il modello
Stato-centrico italiano per mezzo del vincolo europeo, anche al costo di
ridurre l’Italia a colonia dei centri di comando europei.
Le conseguenze sono state devastanti, sia sul piano politico-democratico
che su quello economico. Sul piano politico-democratico, abbiamo assistito a un
rafforzamento dei poteri esecutivi e tecnocratici a tutti i livelli – tra cui
quella del capo del capo dello Stato, da cui l’importanza del voto che si è
appena svolto – e a una progressiva marginalizzazione del Parlamento, ormai
totale, e più in generale a una disarticolazione di qualunque processo
democratico, una naturale conseguenza dello svuotamento di sovranità (e dunque
di democrazia) conseguente a Maastricht, di cui oggi paghiamo le conseguenze in
termini di tecnocratizzazione ed emergenzialismo permanenti.
Dal punto di vista economico, invece, l’analisi
più impietosa è stata realizzata qualche anno fa un noto economista olandese,
Servaas Storm, in un paper dedicato alle cause della “lunga crisi” italiana. La
sua conclusione è lapidaria: «Nello studio, dimostro empiricamente come
la recessione italiana debba considerarsi una conseguenza del nuovo regime
economico post-Maastricht adottato dall’Italia a partire dai primi anni
Novanta».
Storm nota come fino ai primi anni Novanta l’Italia abbia goduto di
trent’anni di robusta crescita economica, durante i quali è riuscita a
raggiungere il PIL pro capite delle altre nazioni principali della futura zona
euro (soprattutto Francia e Germania). Da allora, però, «è iniziato un
costante declino che ha letteralmente cancellato trent’anni di convergenza».
Al punto che oggi il divario tra il PIL pro capite italiano e quello degli
altri paesi europei è pari se non addirittura superiore a quello che era negli
anni Sessanta.
Tutti gli altri principali indicatori economici hanno registrato lo stesso
crollo: reddito pro capite, produttività, investimenti, quote del mercato
mondiale ecc. «Non è un caso – scrive Servaas Storm – che la
repentina inversione delle fortune economiche dell’Italia si sia verificata in
seguito all’adozione della “sovrastruttura politica e giuridica” imposta dal
Trattato di Maastricht, che ha spianato la strada alla creazione dell’UEM nel
1999 e all’introduzione della moneta unica nel 2002:
«Come mostro nel paper, l’Italia è stata l’allievo modello della zona euro,
impegnandosi nell’implementazione dell’austerità fiscale e delle riforme
strutturali che rappresentano l’essenza delle regole macroeconomiche dell’UEM
con maggiore veemenza e solerzia di qualunque altro paese dell’eurozona – molto
più di Francia e Germania. E ha pagato un prezzo molto alto: il consolidamento
fiscale permanente, la persistente moderazione salariale e il tasso di cambio
sopravvalutato hanno distrutto la domanda interna italiana, e la carenza di
domanda, a sua volta, ha asfissiato la crescita della produzione, della
produttività, dell’occupazione e dei redditi. L’operazione è stata un successo,
ma purtroppo il paziente è morto».
Per mostrare quanto sia stata radicale «l’austerità fiscale permanente»
perseguita dall’Italia negli ultimi decenni, Storm traccia un confronto tra
Italia e Francia: tra il 1995 e il 2008, l’Italia ha registrato un avanzo di
bilancio primario del 3 per cento circa in media, rispetto ad un deficit
primario dello 0,1 per cento della Francia nello stesso periodo. In pratica, nel
periodo in questione, «lo Stato francese ha fornito all’economia uno stimolo
fiscale pari a 461 miliardi di euro, mentre lo Stato italiano ha drenato
dall’economia 227 miliardi».
Storm mostra come il regime post-Maastricht abbia anche comportato anche
una moderazione salariale (leggasi: guerra di classe) senza pari. L’economista
mostra come tra gli anni Sessanta e i primi anni Novanta il divario tra i
salari reali italiani e quelli degli altri principali paesi europei si sia
progressivamente ridotto fino a scomparire del tutto. Da quel momento in poi la
forbice ha cominciato ad allargarsi nuovamente e – incredibilmente – oggi è più
grande di quanto non fosse negli anni Sessanta. Come nel caso del PIL pro
capite, trent’anni di convergenza spazzati via da trent’anni di Maastricht.
Come spiega Storm, la guerra condotta ai lavoratori negli ultimi decenni è
stata così feroce che i capitalisti hanno finito per segare il ramo su cui
sedevano. Scrive Storm:
«Seguendo pedissequamente le regole macroeconomiche europee, l’Italia ha
determinato una carenza cronica di domanda interna. Questa è il risultato
dell’austerità fiscale permanente, del persistente contenimento dei salari e
della mancanza di competitività tecnologica delle imprese italiane [acuita
dal crollo degli investimenti, a sua volta determinato dalla domanda
carente], che, in combinazione con un tasso di cambio sopravvalutato,
riduce la capacità delle imprese italiane di mantenere le loro quote di mercato
a fronte della concorrenza dei paesi a basso reddito. Questi tre fattori stanno
deprimendo la domanda; riducendo l’utilizzazione degli impianti e danneggiando
gli investimenti, l’innovazione e la crescita della produttività, bloccando
dunque il paese in uno stato di declino permanente, caratterizzato dall’impoverimento
costante della matrice produttiva dell’economia italiana e della qualità dei
suoi flussi commerciali».
Inutile dire che le politiche degli ultimi anni – in particolare quelle del
governo Draghi – non hanno fatto che peggiorare la situazione. In conclusione,
non vi è alcun dubbio sul fatto che la crisi italiana – politica, economica,
sociale, democratica – sia largamente imputabile alla radicale riconfigurazione
del nostro assetto economico-istituzionale conseguente all’adesione dell’Italia
alla sovrastruttura economica di Maastricht e alle varie (contro)riforme
regressive ad essa associate. No, non c’è veramente nulla fa festeggiare.
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