sabato 26 marzo 2022

Il "compleanno" di Pasolini. Ricordi di un lettore - Enzo Rega

  

   Il 5 marzo 1922 nasceva Pier Paolo Pasolini. E io non posso dimenticare quel 2 novembre 1975 che poneva fine alla straordinaria esistenza di un poeta - uno di quelli, disse Moravia nella sua orazione al funerale, che nascono una volta in un secolo. Io ho diciassette anni, sono davanti al televisore acceso, inizia il Tg con una foto di Pasolini. E' chiaro che è successo qualcosa. Nel ricordo successivo a lungo collocavo la visione di quel Tg al rientro da scuola. ma non era possibile per due motivi: il 2 novembre era vacanza, e quell'anno cadeva di domenica.

   Conoscevo già Pasolini: ero un pasoliniano della prima ora, della mia prima ora, quando non era scontato esserlo. Un insegnante di lettere, al liceo, una mattina aveva detto che uno come lui sarebbe stato meglio non fosse mai nato; e io avevo avuto, tra i banchi, un istantaneo ed esplicito moto di stizza. Un'altra insegnante, pur amata e apprezzata, aveva commentato la scelta di un collega di introdurre al quarto ginnasio gli Scritti corsari al posto dell'Eneide (che allora si leggeva nella cinquecentesca e indigesta traduzione di Annibal Caro - "traduttor dei traduttor di Omero"); il libro di un "degenerato". Era stato invece un professore di religione - un giovane sacerdote - ad aprirci altri spiragli su Pasolini, e a dirci che in quegli anni il poeta di Casarsa era il solo a proclamare pubblicamente la propria omosessualità. 

   Conoscevo già Pasolini in vita, anche se non avevo ancora letto nessun suo libro. Com'è che lo conoscevo? Mi capitava di leggere qualche suo articolo su quotidiani e riviste. Ricordo quando Piero Ottone lo volle al "Corriere della sera" all'inizio del 1973 - e allora di anni non ne avevo ancora quindici, e frequentavo il quarto ginnasio al Liceo "Rosmini" di Palma Campania, il liceo dove sono tornato a insegnare e dove con Pasquale Gerardo Santella, nel 2005, dedicammo un progetto scolastico allo scrittore corsaro. Lo seguivo, Pasolini, nelle interviste di Enzo Biagi in televisione, o in una puntata di "Controcampo" nel 1974 nella quale ribadiva il suo concetto di "omologazione". E sentirlo parlare, con quella precisione, era come leggerlo. E in quella trasmissione, o in un'altra, lo sento dire che considera buona letteratura la propria: e questa (auto)affermazione mi colpisce per la consapevolezza senza false ipocrisie che un intellettuale ha del proprio lavoro. 

   E poi avevo visto già alcuni film in televisione. E, probabilmente, le prime volte senza sapere chi fosse Pasolini: i film più popolari come Il vangelo secondo Matteo del 1964, che allora veniva spesso trasmesso a Natale o a Pasqua, e Uccellacci e uccellini del 1966 con Totò, E quindi visto quella prima volta per Totò. Film guardati con tutta la famiglia: e ricordo ancora la sera che costrinsi mio padre a vedere il per lui incomprensibile Medea con la stupenda Maria Callas.  Mentre solo con mia sorella - in quegli anni giovani, una delle persone con cui condividevo le scoperte culturali - devo aver visto, al televisore piccolo - un Brionvega rosso - Accattone. E solo pochi mesi fa sono stato al Pigneto, dove sono state girate alcune scene del film, tra cui quella della morte del protagonista. Che anno era? Pasolini era già stato trucidato oppure no? Come ricordarlo, adesso? Il confronto con i libri - per dire che non si trattava di una mera trasposizione dai due romanzi borgatari dei quali rimaneva piuttosto l'ambientazione - l'ho potuto fare allora, e quindi Pasolini era già morto, perché i libri li ho letti solo in seguito -, o questo confronto è avvenuto soltanto a posteriori: il film visto con Pasolini vivo e i romanzi letti dopo? Non posso dirlo.

   Posso dire solo che il film mi sembrò poesia, anche nel senso che le riprese e il montaggio mi sembrarono scanditi metricamente. Per cui con fastidio sentii l'affermazione fatta molti anni più tardi da Franco Zeffirelli, secondo il quale con il passaggio di Pasolini al cinema la poesia aveva perso un poeta e il cinema non aveva guadagnato un regista. Per me, il poeta rimaneva poeta ed era un regista dallo sguardo particolare, che sapeva isolare in un suo spazio ogni inquadratura.

   I libri. Ecco, i libri sono arrivati dopo, poco dopo quel '75 che stava andando a finire con la morte novembrina di Pasolini. Dal 5 al 16 giugno 1976 ho letto Una vita violenta, in una copia prestatami da Pino Ionta (oggi psichiatra) che credo avesse a sua volta presa in prestito in biblioteca (forse a Sarno, dove facevamo periodiche incursioni), Dal 5 al 26 novembre 1977 ho letto invece Ragazzi di vita. Perché così tanto tempo tra l'uno e l'altro? Letti cronologicamente a ritroso, e pur a distanza, i libri, con il film, furono un'agnizione su un mondo sconosciuto e una finestra su quella realtà sottoproletaria che - ingannandosi - Pasolini considerava potenzialmente rivoluzionaria rispetto a tutti gli altri ceti - compresa la classe operaia - ormai irrimediabilmente imborghesiti. Al di là di questo - ma a questo collegato - fu la scoperta del dialetto come lingua popolare-e-letteraria, a fare il paio, il romanesco, con il siciliano dei Malavoglia di Verga (copia prestatami  nel novembre 1975 - sì, poco dopo la morte di Pasolini, da Giovanni D'Onofrio, allora mio compagno di banco e oggi neurochirurgo). Su quelle letterature, e sul napoletano di Eduardo De Filippo, improvvisai una lezione per alcune alunne di una 5 classe ACI, ovvero assistenti di comunità d'infanzia, a Breno in Valcamonica: doveva essere la primavera del 1988, e lì insegnavo psicologia, non lettere, ma tant'è.

Poi venne la lettura delle poesie (alcune anticipate dalle antologie scolastiche, e poi in volume): Le ceneri di GrasmciLa religione del mio tempo (nei Grandi libri Garzanti, dal riquadro verde), L'usignolo della Chiesa Cattolica (nell'edizione Einaudi). Ormai ai tempi dell'università.

E in Valcamonica l'acquisto, nel 1987 o 1988, della copia degli Scritti corsari uscita con una rivista, a recuperare articoli letti a suo tempo o dibattiti sentiti aleggiare. Letto, quel libro, nel soggiorno assolato quasi in riva all'Oglio in una lontana stagione. Nel frattempo, con i miei anni, scorrevano gli altri suoi film (stupendo l'episodio de La ricota), fino al fermo-immagine all'idroscalo di Ostia (quel monumento dimenticato restituitoci da Nanni Moretti con il sottofondo struggente del Concerto di Colonia di Keith Jarrett). 

In quegli anni ancora giovani (metà Novanta) dovevo registrare la passione pasoliniana di una giovanissima fidanzata bergamasca. E in questi anni adulti condividere passione e ideologia con la moglie siciliana, qui, fronte Vesuvio, dove da tempo ho fatto ritorno. Ah: una moglie conosciuta andando a Messina per presentare all'Horcynus Festival, diretto da Franco Jannuzzi a cui debbo la conoscenza della futura consorte, un numero della rivista "Quaderni di Cinemasud" a Pasolini dedicato. Tutto torna... Futura consorte che precedentemente aveva vissuto per quasi dieci anni in Friuli, a Spilimmbergo e a Fanna, che dista dieci chilometri da Casarsa della Delizia, il paese della madre di Pasolini, dove Pier Paolo è vissuto diverso tempo imparando e scrivendo il friulano (il friulano che per lui, giovane poeta sotto l'influenza dei simbolisti francesi, è la lingua pura"). Ecco, tutto torna, di nuovo...
      E vorrei ritrovare quella foto di Pasolini al tavolo di lavoro che a lungo mi ha seguito negli spostamenti, qui facendo ritorno, e qui - temporaneamente - scomparendo tra carte. 

   E vorrei ritrovare, tra quelle carte, anche il racconto che scrissi, Trascendente immaginario,  quando un noto settimanale pubblicò le foto del corpo martoriato di Pier Paolo. Scritto al e al quale tengo, come ai lungi articoli per "L'Indice" nel 2005 e nel 2015, in due ricorrenze. Trascendente perché immaginavo che Pasolini e Gramsci se ne stessero ora insieme, in un qualche aldilà, a parlare di popolo e rivoluzione, mentre in un angolo se ne stava, a guardarli, sant'Agostino. Agostino d'Ippona c'era entrato perché dovevo dare - o avevo appena dato - un esame all'università in cui si portavano le Confessioni. E mi pareva non ci stesse male, anche lui, in quella compagnia, un "usignolo della chiesa cattolica", di quel mondo contadino che Pier Paolo rimpiangeva. Con-e-contro Gramsci. Altro mio punto fermo, Gramsci. Ma è un altro discorso. O forse no.

da qui

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