venerdì 11 marzo 2022

Per un conflitto culturale - Pietro Savastio

 

Per rispondere all’assalto degli immaginari operato dai mass media bisogna contendere il terreno delle rappresentazioni, della pubblicità e della propaganda

 

La realtà aggregata è sempre educante: essa è rappresentabile come un fascio articolato di pensieri, idee, simboli, immagini che contribuiscono a produrre e riprodurre modi di pensare e agire. 

Questa considerazione permette da subito di complicare il quadro dell’esperienza formativa. Non è ovviamente né solo a scuola né solo in famiglia che mutuiamo sensibilità e visioni, ma c’è tutto un intorno da considerare. Per dirla con il pedagogista Mario Pollo, occorre tener conto che «l’educazione della persona non è soggetta solo all’influenza particolare di individui, come i genitori, gli insegnanti, gli amici, ecc. ma anche, se non soprattutto, alle influenze collettive, come la cultura sociale, l’ambiente naturale e sociale, i mass media e altro». In questo senso potremmo considerare educative tutte le pratiche che influiscono sul modo di essere dell’individuo, intenzionali o meno che siano. 

Seguendo la tassonomia di Franco Frabboni è possibile distinguere tre tipi di educazioni: l’educazione formale (la scuola) l’educazione non formale (la famiglia, i doposcuola, gli scout, ecc.) e l’educazione informale (spazi mediatici e la cultura di mercato). Così facendo il discorso sull’educazione si allarga ben oltre i confini della scuola e dell’esperienza locale per abbracciare tutta la sfera sociale allargata, sia reale che virtuale. Sul piano politico, allora, è utile e interessante porre un interrogativo che riguarda i luoghi di produzione dell’io singolare e collettivo: dove nasce la persona di oggi? O, in altri termini: dove e come avvengono i processi di soggettivazione? Per quali vie si determinano gli individui, i loro pensieri e dunque la società come aggregato? 

Per rispondere a tale questione ritengo utile concentrarsi sull’educazione non formale e posizionarsi nella prospettiva riguardante il «capitalismo culturale» così come definito da Frederic Jameson. Nell’opera Postmodernism: or, The Cultural Logic of Late CapitalismJameson spiega come l’epoca contemporanea sia caratterizzata da una colonizzazione della sfera culturale da parte del capitalismo estetico. Se in precedenza la sfera culturale aveva mantenuto una parziale (e feconda) autonomia dalle logiche commerciali, la nuova «logica culturale del capitalismo transnazionale» cominciata con gli anni Ottanta apre una fase inedita, in cui gli interessi economici del capitalismo sono in grado di modellare indirettamente la cultura di massa e le ideologie attraverso gli apparati tecnici e mass-mediali. Così facendo il capitalismo contemporaneo colonizza i pensieri e i modi di vita delle persone nella direzione di nuovi consumi. È il trionfo dell’educazione non formale che innervando i contesti sociali e familiari degli apprendimenti liberi e inattesi trasforma le nostre esperienze di vita e produce nuove coscienze. 

Seguendo questo filo di pensiero, è possibile ricomprendere i processi di formazione in una matrice culturale: il sistema capitalista si riproduce perché esiste un ampio e ricco apparato di manipolazione degli immaginari e delle coscienze. In questo senso le consonanze sono forti innanzitutto con il discorso di Pierre Bourdieu sulla «violenza simbolica». Nel suo lavoro, infatti, il sociologo francese insiste sull’importanza dei fattori culturali e simbolici come meccanismi di riproduzione delle gerarchie sociali. Nel criticare il primato dato ai fattori economici nelle concezioni marxiste, Bourdieu privilegia un modello analitico che sottolinea la capacità degli agenti in posizione dominante di imporre le loro produzioni culturali e simboliche, ovviamente a proprio vantaggio. In questo modo si normalizzano e si naturalizzano ordini sociali, gerarchie, modi di vita che sono propri del capitalismo competitivo e consumistico. 

Questo discorso nell’epoca in cui la presa di parola pare essersi democratizzata può sembrare datato. Eppure, anche oggi che l’accesso a Internet è quasi universale, sebbene all’apparenza lo smartphone consenta a (quasi) tutti e tutte la produzione di contenuti culturali, il potere di plasmare la cultura e le informazioni circolanti resta ancora saldamente nelle mani di chi detiene le infrastrutture culturali che innervano la società. Insomma, il potere di produrre cultura resta distribuito in maniera profondamente diseguale. Il web è certamente costellato anche di cosiddetti User Generated Content ma resta il problema di un’industria culturale pervasiva, ancora sostanzialmente verticista e privata, diretta a fini commerciali. 

Recentemente il filosofo Bernard Stiegler nel suo La miseria simbolicaha approfondito questo discorso parlando dello stretto rapporto esistente tra estetica e politica mostrando i meccanismi attraverso cui l’immaginario delle coscienze viene colonizzato a opera delle tecnologie ipermediali. Egli scrive: «la nostra epoca si caratterizza come presa di controllo del simbolico da parte della tecnologia industriale, laddove l’estetica è diventata al contempo l’arma e il teatro della guerra economica». Ci troviamo in presenza di veri e propri «persuasori occulti», come li chiamava Vance Packard, ossia dei professionisti della psiche ingaggiati da aziende commerciali che narcotizzano una moltitudine di individui per ricavarne profitto. Così con il Marcuse de L’uomo a una dimensione possiamo dire che «i prodotti indottrinano e manipolano; […] E a mano a mano che questi prodotti benefici sono messi alla portata di un numero crescente di individui in un maggior numero di classi sociali, l’indottrinamento di cui essi sono veicolo cessa di essere pubblicità: diventa un modo di vivere». Portando l’analisi soprattutto sull’industria cinematografica, si potrebbe parlare di «industria dell’immaginario», un’industria che plasma i sogni collettivi in un impasto di realtà e desiderio, produzione mirata al consumo e aspettative inconsce. 

Sotto questa luce, le coscienze si configurano come la risultante dell’incontro/scontro tra strutture formative diverse come la famiglia, il quartiere, la scuola cui si sommano i mass media e le «tecnologie del dominio» (per usare un’espressione del Gruppo Ippolita). Perciò, da un punto di vista analitico, se si vogliono comprendere i processi formativi in atto nella società, occorre definire un’accurata pedagogia per ciascuna delle aree che contribuiscono a strutturare l’attuale assetto culturale: si tratta di mettere insieme e collegare una pedagogia del cinema, una pedagogia dei social media, una pedagogia della televisione ma anche, ovviamente, una pedagogia del sindacato, una pedagogia della chiesa, una pedagogia della scuola, e così via.  

Di ciascuna di queste aree andrebbero poi considerati i target di riferimento e il peso specifico proprio perché, è ovvio, i consumi sono diversificati a seconda delle platee. Il peso relativo di ciascuna di queste agenzie formative è diversificato in base alla classe socio-culturale che si prende a riferimento. C’è chi legge i quotidiani e chi guarda la televisione; c’è chi passa molto tempo sui social e chi fa assemblee politiche. Questi «consumi culturali» hanno contenuti molto diversi e incidono su classi sociali differenti producendo esiti «coscienziali» (o anche educativi) diversificati. Oggi, allora, vista la diffusione pervasiva delle esperienze estetico-digitali, occorre riconoscere come faccia più egemonia Squid Game di quanta non ne faccia la scuola pubblica o il quotidiano La Repubblica. E quel che è grave è che ciò sfugge alla maggior parte degli analisti, dei militanti e dei ricercatori che di questi temi si occupano. Gli stessi militanti spesso continuano a scrivere e riscrivere analisi, critiche e decostruzioni senza porsi il tema della diffusione di un «nuovo sentire» attraverso adeguate infrastrutture formative. 

Proprio dal punto di vista dell’analisi del sistema formativo informale i discorsi sulla cultura dominante sembrano soffrire di una certa dissonanza cognitiva. Nelle bolle della borghesia cognitiva la televisione sembra morta e stramorta e il web ancora una «realtà virtuale», eppure Sanremo fa il boom di ascolti, Chiara Ferragni è più famosa di Che Guevara, e ad addomesticare il senso comune ci pensano Kim Kardashian e Kanye West. Esiste, insomma, una cultura di massa con la quale occorre fare i conti se si intende ragionare nei termini tutti politici di una egemonia culturale da costruire. E questa egemonia, oggi, si produce con i mezzi estetici ed è importante riconoscere l’elemento artificiale della cultura che anziché essere sostanza intangibile è prodotto materiale e costruito ad arte. A tal proposito risultano utili le parole del sociologo Dwight Macdonald contenute in Controamerica

La Cultura di Massa […] viene da sopra: è fabbricata da tecnici al servizio degli affaristi. Essi provano questo e quello, e se qualcosa piace alla direzione commerciale, cercano di far soldi con prodotti similari, come i consumer-researchers con un nuovo cereale, o un biologo pavloviano incappato in un riflesso che egli crede possa esser condizionato. Una cosa è soddisfare i gusti popolari, come faceva la poesia di Robert Burns, e un’altra è sfruttarli, come fa Hollywood.

A questo punto la questione si fa eminentemente politica: se la produzione culturale gioca un ruolo così determinante nella definizione delle coscienze e, dunque, del nostro comune sentire socio-politico da cui dipendono in ultima istanza gli assetti sociali, la contesa dell’ordine simbolico è una contesa strettamente politica. Dal punto di vista giacobino e socialista ciò comporta delle conseguenze strategiche chiare: se si vuole rispondere all’assalto degli immaginari operato dai «mezzi di distrazione di massa» intenti a cucinare format pensati e somministrati artificialmente, occorre contendere il terreno delle rappresentazioni, della pubblicità e della propaganda. 

Un esempio virtuoso in questo senso, anche se datato, è certamente quello di Adbusters Magazine che ha provato a introdurre il concerto di subvertising nelle pratiche illustrative. Una specie di alter-marketing di cui la guerra memetica condotta a sinistra da Automatizzato Comunismo Memetico è l’evoluzione naturale. In generale, virtuosi sono tutti quegli esperimenti che provano a riscrivere la nostra rappresentazione della realtà lavorando sul piano simbolico e immaginifico. Così le ultime uscite de La rappresentante di lista che fa il pugno chiuso a Sanremo e dice «stop greenwashing» cantando canzoni sulla fine del mondo ha esattamente quella valenza simbolica e immaginifica di cui oggi abbiamo bisogno per abitare gli ambienti pop, per intaccare il mainstream culturale. Lo stesso vale per Giovanni Truppi che canta Nella mia ora di libertà di De André e poi posta su Facebook e Instagram dicendo che secondo lui dovremmo non solo essere anticapitalisti ma contro gli ordini sociali del dominio (con tanto di foto di cuore dell’anarchia). Vogliamo stare nella contemporaneità e provare a riscrivere l’ordine del discorso o questi esempi sono troppo pop per la nostra nicchia borghese?

Innanzitutto, allora, al di là degli episodi isolati, occorre cominciare ad agire con cognizione un conflitto sul piano degli immaginari per contendere l’ordine egemonico. A tal proposito diviene opportuno differenziare il concetto di «socializzazione» come insieme di esperienze, modalità comportamentali e stili di vita acquisiti sul campo informale e il concetto di «educazione» (o meglio «educazioni») come progetto esplicito e intenzionale di formazione delle sensibilità. In tal senso, se vogliamo fare politica culturale, abbiamo bisogno di un nuovo progetto educativo decentralizzato, ossia di un nuovo progetto politico-culturale di sensibilizzazione delle coscienze. Bisogna scomporre gli immaginari attuali e ricostruirli da capo. Abbracciando le posizioni della pedagogia utopica e rivoluzionaria di Anton Makarenko siamo chiamati a fare l’uomo nuovo (inteso, naturalmente, come essere umano), con tutti i mezzi a disposizione. Si tratta, insomma, di plasmare la realtà culturale in modo diverso da come facciamo oggi, opponendo una guerriglia culturale a tutto campo alla propaganda unificata del marketing e della cultura di massa quando gretta.

Personalmente ho trovato nella scuola e nell’educazione territoriale il luogo in cui impegnarmi direttamente per mettere in circolo idee e immaginari alternativi perché lo considero uno spazio ancora immune (per lo più) dalle libere ingerenze del mercato. Lì ancora esiste un insieme di persone che si incontrano nello spazio pubblico e aperto e provano (in tanti casi) a opporsi alle influenze competitive, mortifere e consumistiche del capitalismo. La scuola è un enorme dispositivo «universale» che si pone sul piano delle idee, dei saperi e delle condotte, perciò ritengo vada presidiato. Ma questo piano, da solo, non basta più, proprio per le ragioni che si sono dette sopra, proprio per la pervasività di una cultura capitalistica fondata sulla competizione, il successo e l’apparire diffuso a media unificati. In generale, allora, la militanza va concepita come un’azione diversificata e stratificata, dal cinema ai social, dalla televisione alla musica, di promozione di una nuova pedagogia pubblica che sappia invertire i valori dominanti. 

Urge dunque mettere in campo un ventaglio di nuove pratiche plurali che si offrano come base per un piano d’azione. Una sincera chiamata alle armi, un impegno di lungo periodo, calmo, fiducioso, solerte che guidi nella pratica coloro che vogliono invertire la rotta e rimettere le persone e le comunità al centro. Bisogna riappropriarsi della cultura e delle forme di educazione in senso ampio, con la fiducia che tutti i processi culturali e sociali siano storici e transitori, formati dal condizionamento di reti e processi produttivi. Ieri era così, oggi è così e domani sarà ancora così. Le idee e gli immaginari cambiano, sono cambiati e possono cambiare. Rinunciare al tentativo di trasformare i linguaggi e le coscienze, è rinunciare a fare politica. Oggi più che mai bisogna schierarsi, agire e contaminare le strutture esistenti. Occorre, insomma, ritornare a educarsi abitando con consapevolezza il conflitto culturale, tanto a scuola quanto nelle arti o sul web. 

 

*Pietro Savastio è ricercatore sociale e insegnante. Lavora a Napoli in una scuola elementare e svolge attività di ricerca e azione con il centro territoriale Mammut di Scampia 

 

https://jacobinitalia.it/per-un-conflitto-culturale/

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