Chi sono io? Rispondo: sono un essere umano. È il mio sostantivo. Ma ho
molti aggettivi, di importanza variabile a seconda delle circostanze: sono
francese di origine ebraico sefardita, parzialmente italiano e spagnolo,
ampiamente mediterraneo, europeo culturale, cittadino del mondo, figlio della
Terra-Patria.
Si può essere tutto questo nello stesso tempo? No, dipende dalle
circostanze e dai momenti in cui predomina talvolta l’una, talvolta l’altra di
queste identità. Come si possono avere molteplici identità? Risposta: è di
fatto il caso comune. Ognuno ha l’identità della sua famiglia, quella del suo
villaggio o della sua città, quella della sua provincia o della sua etnia,
quella del suo paese, e poi quella più vasta del suo continente. Ciascuno ha
un’identità complessa, cioè nello stesso tempo una e plurale.
La mia identità una e plurale
La coscienza della mia identità una e plurale mi è venuta progressivamente. I miei genitori
immigrati non avevano identità nazionale. Avevano un’identità etno-religiosa
sefardita e l’identità di una città, Salonicco, oasi pacifica nell’impero
ottomano dal 1492, ove la maggioranza della popolazione era ebrea. A differenza
dei greci, dei serbi e degli albanesi che erano stati conquistati e colonizzati
dai turchi, gli ebrei vi erano stati accolti e non subivano né esazioni da
parte dei giannizzeri né persecuzioni da parte degli ottomani. Una parte di
loro, venuta dalla Toscana (Livorno) all’inizio del XIX secolo, vi aveva
portato le idee laiche, il capitalismo e poi il socialismo. Anche Salomon
Beressi, mio nonno materno, era apertamente un libero pensatore e insegnava ai
suoi figli una morale senza Dio. Mio padre, da giovane, non sognava che Parigi.
La borghesia sefardita di Salonicco parlava il francese oltre al vecchio
castigliano, detto “djidio” in casa e giudeo-spagnolo fuori casa.
Nato in Francia, non ho avuto in eredità una nazionalità straniera. I miei genitori
avevano l’identità di una città a fare da alone dietro la loro nuova identità
francese. In famiglia parlavano il djidio, anche se mai con me, ma io avevo
questo spagnolo nelle orecchie. Fui sorpreso in Spagna dal fatto di comprendere
in parte la lingua e di parlarla più o meno male. Poi fui molto felice di
sviluppare la mia parlata castigliana in Spagna e in America latina. Ciò
risvegliò in me, che mi credevo discendente diretto degli espulsi del 1492 da
Isabella la Cattolica, una identità spagnola – identità che peraltro posso
rivendicare legalmente, cosa che mi è stata spesso ufficialmente proposta.
Sono diventato francese naturalmente durante l’infanzia poiché i miei
genitori parlavano il francese con me, e a scuola la mia mente si è appropriata
della storia della Francia. Ho sentito mia questa storia, con forti emozioni
all’evocazione di Vercingetorige, di Bouvines, di Giovanna d’Arco,
dell’assassinio di Enrico IV, della Rivoluzione, di Valmy, della prima campagna
d’Italia, di Austerlitz, di Napoleone glorioso e di Napoleone decaduto a
Sant’Elena, del 1848, del 1870, della Comune, della guerra del 1914-1918. Non
ero assolutamente consapevole delle ombre di questa storia […].
Nello stesso tempo, scoprivo di essere ebreo. I miei genitori,
benché laicizzati, mi facevano partecipare alla cena di Pasqua da mia nonna,
celebrata in giudeo-spagnolo in presenza del rabbino Perahia. Ero stato
circonciso, evidentemente senza saperlo, ma mio padre non mi aveva fatto
preparare il mio bar mitzvah alla sinagoga dove, a tale scopo, si impara un po’
di ebraico e qualche preghiera. Su insistenza di un cognato pio si rassegnò a
un compromesso: chiese al rabbino di rue Buffault di celebrare il rito senza
preparazione, adducendo il fatto che fossi un piccolo orfano. Così dovetti
ripetere le parole ebraiche che il rabbino mi suggeriva e fare una breve
dichiarazione, in francese, dicendo che sarei stato sempre rispettoso nei
confronti della famiglia.
Era soprattutto al liceo, nella mia classe, in cui c’erano dei cattolici,
qualche protestante, cinque ebrei e dei figli di liberi pensatori, che alcuni
compagni mi domandavano quale fosse la mia religione. Ero dunque ebreo, ma
questa identità non aveva contenuto culturale. Essa era soprattutto qualcosa di
strano per alcuni, e qualcosa di cattivo per altri che avevano ereditato
dell’antisemitismo dai loro genitori. Sebbene abbia subito solo pochissime
offese personali nella mia giovinezza, ho dovuto sopportare
l’antisemitismo estremamente violento della stampa di destra, poi quello di
Vichy, senza che ciò mettesse in discussione interiormente la mia identità
francese sempre più legata alla tradizione umanista che va da Montaigne a Hugo.
Umanista prima di tutto
In effetti, la mia coscienza ebraica si diluiva nella mia ricerca
di una coscienza politica umanistica che cercava una via nella crisi della
democrazia, nell’antifascismo e nell’antistalinismo. Avevo diciassette anni
quando i nazisti privarono gli ebrei tedeschi dei loro diritti civili e organizzarono
la Notte dei cristalli, nel novembre del 1938. Rimasi pacifista, desideroso di
conservare un punto di vista universale, piuttosto che auspicare, in quanto
ebreo, la guerra contro la Germania.
Sotto l’Occupazione, durante la Resistenza, dopo la guerra, l’identità
ebraica si risvegliava e poi scompariva. Avendo preso nella Resistenza
lo pseudonimo di Morin, ebbi dopo la guerra la tentazione di cambiare
legalmente identità, come fecero alcuni, ma ho mantenuto Nahoum sulla mia carta
d’identità, facendovi aggiungere: “detto Morin”. Infine, poiché all’epoca
vivevo la tragedia dei processi comunisti, seguii da lontano la guerra
d’indipendenza di Israele, felice che i combattenti e i kibbutz smentissero il
mito dell’ebreo commerciante e codardo.
Un soggiorno in Israele nel 1965, dunque prima della Guerra dei sei giorni,
mi fece scoprire l’odio fra ebrei e arabi. Abbandonai la mia ricerca di radici
in quella nazione. Poi, la dominazione di Israele sul popolo arabo della
Palestina mi implicò di nuovo come ebreo, ma in quanto uno degli ultimi
intellettuali ebrei portatori di universalismo e anticolonialismo, dunque
ostili alla colonizzazione della Palestina araba. Gli articoli che
all’epoca scrissi su “Le Monde”, nei quali non contestavo per niente
l’esistenza di Israele, mi valsero l’essere trattato da traditore e persino da
antisemita.
Ho scritto un libro di omaggio a mio padre e ai miei antenati, Vidal
mio padre, cosa che rende ridicola ogni accusa di odio, ivi compreso l’odio
di sé.
Non ho mai contestato il diritto all’esistenza dello stato israeliano e ho
sempre avuto consapevolezza dei pericoli storici che ha subito e potrà subire
nel futuro la nazione israeliana. Ho in compenso criticato l’azione repressiva
dell’esercito o della polizia israeliani sui palestinesi, e ho riconosciuto il
diritto di questi ultimi a uno stato nazionale, conformemente alle risoluzioni
dell’ONU e ai defunti accordi di Oslo. Il mio vero desiderio sarebbe stato lo
stesso di Martin Buber, quello di una nazione comune agli ebrei e agli arabi.
[…] Pur riconoscendo la mia discendenza ebraica e pur affermando di essere del
popolo maledetto e non del popolo eletto, mi definisco come post-marrano, cioè
come figlio di Montaigne (di ascendenza ebraica) e dello Spinoza anatemizzato
dalla sinagoga.
Spagnolo, italiano, europeo
La mia identità spagnola deriva dal vecchio castigliano parlato nella mia
famiglia, dal mio amore per il teatro e per la letteratura del Secolo d’oro,
per García Lorca e Antonio Machado, e soprattutto dai soggiorni in Spagna,
particolarmente in Andalusia, dove ho trovato dei cibi matriciali. Tuttavia,
la mia identità italiana è diventata molto viva, non solo perché in Toscana mi
sono sentito come in una matria ritrovata e perché mi sono
impregnato d’Italia, ma anche perché le mie famiglie materne, Beressi e
Mosseri, sono di origine italiana. Anche i Nahoum furono un tempo insediati
in Toscana, dove uno di loro partecipò al Risorgimento. Del resto, la mia
famiglia Nahoum ottenne la nazionalità italiana a Salonicco non appena l’Italia
divenne uno stato unificato indipendente. Così come il primo ministro Felipe
González volle restituirmi l’identità spagnola, la città di Livorno mi offrì la
cittadinanza onoraria.
Europeo, lo divenni politicamente nel 1973, quando scoprii che l’Europa
dominatrice del mondo e potenza coloniale disumana era divenuta una povera
vecchia cosa che aveva perso le sue colonie e poteva sopravvivere solo sotto
perfusione del petrolio mediorientale. Ma le mie speranze europee si
deteriorarono con la subordinazione delle istituzioni europee alle forze
tecno-burocratiche e poi finanziarie. Infine, le divergenze fra le ex
democrazie popolari e le nazioni fondatrici, la pressione distruttiva delle autorità
dell’UE sul governo greco di Tsipras e l’atteggiamento generale nei confronti
dei migranti di Afghanistan e Siria finirono per deludermi. Mi
auguro che ciò che sussiste non si disintegri, ma ho perso la fiducia
nell’Europa.
La mia cultura umanistica mi ha reso fin dall’adolescenza preoccupato per
il destino dell’umanità. Quando Philippe Dechartre, uno dei capi del movimento
di Resistenza a cui avevo aderito, mi ha chiesto che cosa avesse motivato il
mio ingresso nella lotta clandestina, gli ho risposto che non era solo per
liberare la Francia, ma anche per partecipare alla lotta di tutta l’umanità per
la sua emancipazione – cosa che confondevo con il comunismo.
Una volta dissipata questa confusione, verso il 1952-1953 aderii ai
Cittadini del mondo, di cui ho conservato la tessera. Poi presi coscienza del
fatto che noi viviamo gli sviluppi dell’era planetaria cominciata nel 1492,
prendendo a prestito questo termine da Heidegger. Nella rivista “Arguments” mi
dedicai ai problemi di quello che allora si definiva Terzo mondo. Nel 1993
scrissi e pubblicai Terra-Patria, poi diventai adepto di una altermondializzazione,
pur prendendo coscienza del fatto che la mondializzazione tecno-economica aveva
creato una comunità di destino fra tutti gli umani. Tramite, dunque, Terra-Patria e
la comunità di destino, ritorno alla mia prima e sostantiva identità di essere
umano. […]
Identità familiare
I miei genitori avevano sei o sette fratelli o sorelle. Una comunità di
mutuo aiuto li tenne legati per tutta la loro vita. Le coppie della mia
generazione avevano solo un figlio o due. Con la fine della grande famiglia, i
legami si allentarono. Figlio unico, incontravo qualche volta zii, zie e
cugini; mantenevo qualche raro legame affettivo con alcuni di loro.
La morte di mia madre Luna, quando avevo dieci anni, aggravò la mia
solitudine. Rimaneva di lei solo una grande presenza mitica, ma nessuna presenza
fisica. L’esagerata protezione che mio padre esercitava sul suo unico figlio fu
vissuta da me come una schiavitù della quale mi liberavo non appena si
presentava l’occasione. Vissi veramente fuori dalla famiglia, a scuola,
al cinema, nei libri, in strada. Io ho fatto la mia educazione e appreso le mie
verità.
Sposato e padre di due figlie, non cercavo di educarle, pensando che niente
valesse più dell’auto-educazione, come era stata la mia. Poi la mia separazione
da Violette quando loro avevano undici e dodici anni, la mia vita amorosa, le
mie ossessioni intellettuali e politiche sospesero a più riprese le nostre
relazioni senza porvi fine. Non fui un buon figlio né un buon padre, ma
fui un marito amato e amorevole. […]
Il mio cammino intellettuale da solitario
Il mio primo libro, L’Anno zero della Germania, che tornava
sulle mie esperienze del 1945-1946 nella Germania devastata e sconvolta, fu
accolto bene. Se ha irritato qualche germanista, è pur vero che in quel momento
non c’era nessun altro che trattasse di quel momento unico e straordinario
della storia tedesca. Allo stesso modo, L’uomo e la morte, il
mio primo libro importante, in cui inauguro il mio modo di conoscenza
transdisciplinare, non subì alcuna critica da parte degli specialisti, poiché
nessuno fino ad allora aveva mai trattato dei paradossali atteggiamenti umani
davanti alla morte intrecciando la storia, la sociologia e la psicologia.
Fu così anche per il mio libro di antropologia del cinema, che non fece torto
ad alcun esperto, e poi per quello sulle star, personaggi semi-mitici che non
avevano mai interessato i sociologi. In seguito, al contrario, quando mi sono lanciato
ne Il Metodo, sono stato spesso mal visto da alcuni proprietari dei
domini di conoscenza, accusato come incompetente o volgarizzatore, mentre
reinterpretavo e collegavo le conoscenze sparse e forgiavo il metodo per
trattare le complessità.
So per certo che ci sono state e che ci sono molto più grandi vittime
dell’incomprensione e della calunnia. Pur amareggiato, e pur criticando quelli
che ritengo essere i loro errori, e in alcuni casi la loro vanità, non ho mai
attaccato chi mi ha attaccato.
Ho anche subito, dopo la mia rottura con il Partito comunista, gli insulti
di routine che ogni escluso riceve. Ho subito le più enormi calunnie per aver
criticato la politica repressiva di Israele nei confronti del popolo
palestinese. Ogni personaggio pubblico suscita innumerevoli inimicizie. Ma beneficia
anche di amici sconosciuti…
Ho preferito rimanere libero e indipendente al CNRS (dove ero giudicato
favorevolmente, a seconda della quantità e non della qualità dei miei lavori)
piuttosto che brigare per un posto in un’università di provincia dove sarei
stato ossessionato dal desiderio di essere chiamato a Parigi, sognando la
pensione o la morte dei titolari di cattedra. Non ho aspirato ad alcun posto
onorifico come il Collège de France e non ho mai fantasticato sull’Académie. Ma
ho accettato con piacere i trentotto dottorati honoris causa ricevuti
all’estero.
Chi sono io, infine?
Ho dedicato molte pagine per descrivermi, sapendo che questo autoritratto
lacunoso comporta anche l’assenza di ciò che indicherò ora.
Non sono solo una minuscola parte di una società e un effimero momento del
tempo che passa. La società in quanto Tutto, con la sua lingua, la sua cultura
e i suoi costumi è all’interno di me. Il mio tempo vissuto nel XX e XXI secolo
è all’interno di me. La specie umana è biologicamente all’interno di me. La linea dei
mammiferi, dei vertebrati, degli animali, dei policellulari è in me.
La vita, fenomeno terrestre, è in me. E poiché ogni vivente è costituito da
molecole, le quali sono assemblaggi di atomi, i quali sono unioni di
particelle, è tutto il mondo fisico e la storia dell’universo che sono in me.
Sono un Tutto per me, pur restando quasi niente per il Tutto. Sono un umano tra
otto miliardi, sono un individuo singolare e qualunque, differente e simile agli
altri. Sono il prodotto di eventi e di incontri improbabili, aleatori,
ambivalenti, sorprendenti, inattesi. E nello stesso tempo sono Me stesso,
individuo concreto, dotato di una macchina ipercomplessa
auto-eco-organizzatrice che è il mio organismo, macchina non banale, capace di
rispondere all’inatteso e di creare dell’inatteso. Il cervello dà a ciascuno la
mente e l’anima, invisibili al neuroscienziato che analizza il cervello, ma
emergenti in ogni umano nella sua relazione con l’altro e con il mondo. Ciascuno
di noi è un microcosmo, che porta all’interno dell’unità irriducibile del suo
Me-Io, spesso inconsciamente, i molteplici Tutto dei quali fa parte all’interno
del grande Tutto. Questi molteplici Tutto sono costituiti dalla diversità dei
nostri ascendenti familiari e delle nostre appartenenze sociali.
Il rifiuto di un’identità monolitica o riduttiva, la coscienza
dell’unità/molteplicità (unitas multiplex) dell’identità,
sono delle necessità di igiene mentale per migliorare le relazioni umane.
Morin per me è un faro.
RispondiEliminaun grande uomo libero è sempre un riferimento e un esempio necessario
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