venerdì 11 marzo 2022

Un “ponte di corpi” per i migranti che da Torino raggiunge la Bosnia - Tania Paolino

 


La strada dei profughi è lunga, in salita e sempre più affollata. Su di essa, le frontiere rappresentano il varco in cui trovare salvezza o il muro invalicabile dei respingimenti. Ma se si creasse un ponte, un ponte di corpi con le braccia aperte, quel limite sarebbe parola accogliente.

Anche quest’anno quel ponte è stato idealmente creato in numerose città italiane, seguendo le indicazioni del Manifesto di Lorena Fornasir, tanti corpi da nord a sud, arrivando fino a Maljevac, tra Croazia e Bosnia, un posto tristemente noto della rotta dei Balcani. Una mobilitazione pacifica in nome dell’accoglienza, che da qualche giorno è entrata improvvisamente in una dimensione diversa, perché al confine orientale stanno bussando non solo migranti provenienti dall’Asia o dall’Africa, ma dalla stessa Europa.

Il dovere dell’accoglienza

I profughi hanno tutti, indistintamente, il diritto di essere accolti, noi abbiamo il dovere di accoglierli tutti. Le donne sono le mamme che scappano dalle guerre con il terrore negli occhi, i bambini sono i loro figli, privati del gioco, della scuola, dell’intimità di una casa, spesso del papà. Ma, se per alcuni i confini e le porte si aprono con maggiore facilità, per altri questo non accade e, a volte, trascorrono pure dieci anni prima che si passi o si decida di fare ritorno in patria definitivamente. Oggi, con la guerra vicino, la percezione della dimensione della catastrofe umanitaria diventa più viva, il dramma di migliaia di persone è evidente, è qui, a portata di mano, anche se da tempo ormai associazioni e singoli volontari si danno da fare per rendere il passaggio dei migranti meno traumatico, segnalando limiti e falle del sistema di accoglienza. Per questo, le diverse iniziative de “Un ponte di corpi” hanno denunciato la violenza dei lager libici, i morti in mare, i respingimenti illegittimi ai confini.

Lo ha fatto anche “Torino per Moria”, i cui manifestanti si sono incontrati in via Garibaldi, presso la chiesa di San Dalmazzo, proprio nel luogo simbolo delle proteste contro le politiche migratorie ai tempi di Carola Rackete. A Torino è stato ribadito che le frontiere e i muri non sono la risposta, che, al contrario, bisogna attivarsi concretamente per “la concessione del diritto d’asilo e della protezione umanitaria, il ripristino delle vie regolari di accesso, il rispetto del dovere di portare soccorso ovunque ci siano vite in pericolo, in mare come in terra”. In un documento, prima, e nel corso della manifestazione, dopo, il comitato, sorto nel 2019, ha denunciato le azioni di Frontex, la realtà dei Cpr – i Centri di Permanenza per il Rimpatrio – in particolare quello del capoluogo piemontese, in cui lo scorso anno fu trovato morto impiccato Moussa Balde, un giovane di 23 anni originario della Guinea.

La giornalista Federica Tourn, di Torino per Moria, ancor più perché a ridosso dall’8 marzo, ha inteso manifestare la vicinanza ideale alle tante donne, madri, compagne, sorelle, figlie, che non hanno più potuto riabbracciare i loro uomini, partiti da soli e mai più tornati, mentre l’avvocato Gianluca Vitale ha espresso la necessità di ripensare integralmente le nostre leggi sull’immigrazione. Intanto, sempre in via Garibaldi, alcune donne hanno continuato a ricamare su una coperta i nomi dei morti di tutte le frontiere, dal Messico alla rotta balcanica. Così, la coperta, in ricordo di quelle che le donne di Lampedusa spontaneamente offrono ai migranti ammucchiati sul molo, e la farfalla gialla che vola sui fili spinati, disegnata prima di morire da una bambina nel campo di Terezin e ora simbolo del Manifesto di Lorena Fornasir, vogliono rappresentare un’Europa che, pur costruendo spesso muri, sa anche creare ponti. Ponti di corpi, appunto.

da qui



IL MANIFESTO DEL CARRETTINO VERDE

UN PONTE DI CORPI lungo i confini tra Italia e Bosnia

A cura di Lorena Fornasir

 

Oggi si manifesta pienamente un attentato alla vita: dalla madre terra, come la chiama Vandana Shiva, da una natura sistematicamente devastata, a un interminabile processo di distruzione ovunque nel mondo: stiamo assistendo a una specie di trionfo della morte. 

Il carrettino verde, carico di cose per far vivere, che accoglie chi riesce a varcare il bordo mortifero del confine, è invece storia e memoria di una pratica della cura che le donne conoscono bene, non come gesto sacrificale ma come competenza di stare, essere in presenza dell’altro, conosciuto o sconosciuto, perturbante o estraneo.

La donna con il suo corpo pensante, è l’anticonfine per eccellenza.

Il corpo della donna contiene in se stesso la negazione del confine perché è un corpo naturalmente aperto attraverso l’atto più intenso del generare, del portare alla luce l’ALTRO da SÉ .

La cura per l’altro può diventare il ricamo di una mappa creativa dove l’amore tiene assieme i legami spezzati da una parte all’altra del mondo. Madri lontane, in un mandato tacito e di dolore, ci consegnano la vita dei loro figli.

Noi siamo coloro che possono dire no allo scontro di razza, perché nel mondo dei morti nessuno è inferiore all’altro

Noi siamo coloro che dicono no al razzismo, perché da sempre siamo state la prima razza considerata inferiore proprio in quanto geneticamente aperte alla vita e sue portatrici: questa condizione ‘naturale’ è diventata storicamente un servizio!

Noi siamo coloro che gridano al mondo che non c’è nessun dio e nessun bene, quando migliaia di essere umani muoiono a causa dei confini;

Noi siamo coloro che maledicono i confini perché quelle strisce di terra o di mare sono bagnate di sangue, selezionano chi può passare e chi no, chi può vivere e chi può morire, chi può essere torturato e chi può essere deportato

Noi siamo coloro che vogliono alzare alta la voce della maternità, che è la voce della solidarietà, della vita che altre donne hanno generato consegnandola ad altre madri del mondo affinché la salvino e la promuovano

Vorremmo essere in tante ad accorrere sul confine, ad attraversare il confine, ad andare incontro a chi è bloccato nell’inferno della Bosnia, in gruppo, in gruppi, in massa, a ribellarci alla morte… noi lo possiamo fare meglio di chiunque… costruiamo un movimento di donne per aprire tutti i confini.


Nessun commento:

Posta un commento