All’indomani dell’invasione russa in Ucraina, i media
mostrano le tristi immagini della popolazione in fuga dal conflitto: sono le
vittime inermi dinanzi alle quali ogni guerra non può che risultare più che
ingiusta, oscena. La presidente della commissione europea, Ursula von der
Leyen, ha ricordato i bambini, prime vittime, e accusato Putin di aver
riportato la guerra in Europa dopo la seconda guerra mondiale. E tuttavia, la
presidente ha la memoria corta: la guerra in Europa c’era già stata nei Balcani
negli anni ’90, culminata con i bombardamenti della NATO su Belgrado, anch’essa
una capitale europea. Come ricordava Luciana Castellina sul Manifesto: “Il 24
marzo, alle 20.25, il primo bombardamento su Belgrado; il 26 le ‘operazioni’,
chiamate interventi umanitari, sono già 500. Dureranno 78 giorni e
scaricheranno 2.700 tonnellate di esplosivo”.
Diverse migliaia di civili sono morti in quei
“bombardamenti umanitari”, in largo numero partiti dall’Italia, inclusi pullman
colmi di persone colpiti mentre attraversavano ponti, inclusi gli stessi
kosovari per i quali in teoria si combatteva, massacrati dai bombardieri mentre
fuggivano dalla guerra. Non c’erano bambini dei quali preoccuparsi, a Belgrado?
C’erano, però i loro volti non sono comparsi sui nostri giornali; neppure anni
dopo, quando hanno continuato a essere falcidiati dall’insolito picco di tumori
infantili causati dall’uranio impoverito (umanitario?) con cui erano fatte le
bombe della NATO. Continua Castellina: “È la prima volta che con tanta spudoratezza
si è proceduto ad una applicazione selettiva dei diritti. In questo caso quello
dell’auto-determinazione dei popoli, riconosciuto, in Europa, ai soli kosovari,
che diventano quindi automaticamente ‘patrioti’, sebbene la risoluzione 1160
del 3 marzo 1998 del Consiglio di sicurezza dell’Onu avesse definito
‘terroristi’ gli attacchi dell’Uck. Contemporaneamente, e come conseguenza,
contro ogni principio sancito dai trattati dell’Unione europea, secondo cui
deve esser rifiutato il pericoloso nesso etnia-cittadinanza, si appoggia
l’ipotesi di stati etnicamente fondati”.
Insomma, il precedente c’è, e l’abbiamo dato
noi. E non parlo nemmeno delle guerre lontane, esterne all’Europa, come
l’invasione dell’Iraq su basi che ormai tutti sappiamo essere state completamente
pretestuose (le armi di distruzione di massa), sappiamo pure da chi tali
mastodontiche bugie sono state costruite (i governi Bush Jr. e Blair), sappiamo
che hanno causato almeno mezzo milione di morti, sappiamo che furono usate armi
proibite dalle convenzioni internazionali (il fosforo bianco sui civili di
Falluja), sappiamo che nessuno degli ideatori di tali colossali fake news (uso
un termine che oggi va di moda) è mai stato perseguito (anzi vivono tutti
ricchi e tranquilli), eppure non ricordo di aver visto in giro le foto dei
profili sui social media con la bandierina irakena, così come ora vedo per
l’Ucraina. Evidentemente non tutte le morti sono uguali; evidentemente i media
hanno un peso nel condizionare le nostre reazioni. Oggi passano sui nostri
schermi o sui social le foto di cittadini ucraini che mettono in salvo cani e
gatti, oltre al classico delle incubatrici con i neonati, già un cavallo di
battaglia della propaganda americana a proposito del Kuwait prima della guerra
del Golfo del 1993[1]: per ogni guerra si reiterano le stesse immagini di
propaganda e gli occidentali dalla memoria corta e dalla lacrima a comando
tirano fuori i fazzoletti. Se le immagini non ci sono (vedi l’Iraq,
l’Afghanistan, lo Yemen, Belgrado) nessuno si commuove.
I media, con poche eccezioni, in questa storia
hanno un ruolo rilevante. Per quante giornate della memoria ci affanniamo a
istituire, quelle dell’oblio mi paiono assai più frequenti. Nell’oblio sembrano
essere caduti tutti i passi che sono stati compiuti da un’Ucraina che si è
fatta forte del sostegno americano: ma le è servito? Non servì alla Georgia
agli inizi degli anni ’00, passata dall’alleanza con la Russia (con la quale intratteneva
ottimi rapporti economici e dove vendeva i suoi ottimi prodotti che ora nessuno
compra più) a quella con gli Stati Uniti di Bush Jr.; anche lì era stato fatto
credere che ospitare le armi americane e combattere le guerre al confine, ove
la popolazione russa era più presente, sarebbe convenuto al paese, che adesso
si ritrova con una popolazione immiserita, largamente diasporica, con le
pensioni e gli stipendi da fame, con i vini pregiati e i prodotti alimentari
invenduti, perché gli amici europei e americani non se ne fanno niente. E
tuttavia, almeno fra i giovani, circola la convinzione che il nemico sia la
Russia.
Il presidente che avviò questo processo
virtuoso, Mikheil Saak’ashvili, in carica fra 2004 e 2013, nel 2014 è stato
messo sotto accusa dalla magistratura del suo paese, per bazzecole che
includono frodi e omicidi; naturalmente, Stati Uniti e Unione Europea si sono
espresse contro la magistratura, ma intanto Saak’ashvili si è trasferito in
Ucraina. Qui il governo del paese ha pensato bene di dargli il governo della
regione di Odessa; ha anzi acquistato un pacchetto, con la mediazione del
politico francese dell’UE Raphaël Glucksmann, che con Saak’ashvili ha scritto
un libro su (indovinate?) “la libertà”, e che ha sposato in prime nozze Eka Zgouladze,
vice ministro degli Interni in Georgia. Glucksmann si interessa dei diritti
umani di tutti, fuorché dei georgiani, visto che prima della fuga di
Saak’ashvili e Zgouladze, erano venuti fuori video delle torture subite dai
prigionieri nelle carceri del paese; insomma, la bella coppia riceve la
cittadinanza ucraina e va a governare Odessa. A causa del suo buon governo,
Saak’ashvili viene espulso anche dall’Ucraina, divenendo apolide, poiché
nessuno vuole ridargli il passaporto: fino a quando il nuovo presidente ucraino
Zelenskyy, nel 2019, lo reintegra e lo nomina a capo del Consiglio nazionale
delle riforme. Mentre era a Odessa, e con il suo avallo esplicito, dal momento
che aveva accusato gli “elementi antisociali”, le milizie neonaziste insieme con
la popolazione di Loshchynivka, hanno condotto un pogrom selvaggio contro la
popolazione romanì dell’area, costretta ad abbandonare le proprie case e
fuggire.
D’altra parte, le stesse milizie nel 2014
avevano massacrato decine di civili russi, ammazzati a sangue freddo mentre si
erano rifugiati in un edificio per sfuggire ai disordini in strada. Peraltro,
la guerra in Ucraina c’è stata dal 2014 in poi, visto che il conflitto nell’est
del paese ha fatto migliaia di morti, con l’evidente volontà delle milizie
neonaziste di condurre una pulizia etnica a danno dei russi, che in quell’area
rappresentano una fetta consistente della popolazione. In questo caso, a quanto
pare, la pulizia etnica non finisce alla Corte internazionale di giustizia
dell’Aja. C’è stato persino il caso di Andrea Rocchelli, il reporter-fotografo
italiano ucciso dagli stessi miliziani ucraini, sempre nel 2014, nel Donbass:
un’uccisione sulla quale ha indagato la magistratura italiana, che ha
individuato responsabilità precise, ma che pure è stato negato e del quale
evidentemente oggi non importa più a nessuno, tanto meno ai suoi colleghi
giornalisti che oggi seguono gli eventi.
Così come non ha più eco la clamorosa strage del
20 febbraio 2014, quando nelle proteste contro il governo filorusso si dice che
le forze governative spararono sulla folla, facendo vittime fra i civili e
persino fra i poliziotti. Fu l’episodio che decretò la fine del governo e diede
corso a tutto ciò che è avvenuto dopo, fino agli eventi contemporanei. Nel
2018, una puntata di Matrix, insieme alla stampa italiana (almeno il Manifesto
e il Giornale ne parlarono ampiamente) e a quella israeliana, rivelarono come a
sparare furono in realtà cecchini georgiani assoldati da un americano sotto
copertura. Anche in questo caso, Mikheil Saak’ashvili è protagonista. Dal
Manifesto: “Il movimento reazionario di massa della Maidan che scosse Kiev
giusto 4 anni fa e che condusse al rovesciamento del governo Yanukovich,
raggiunse il suo apice il 20 e il 21 febbraio del 2014 quando negli scontri a
fuoco tra i poliziotti della Berkut (la guardia scelta del governo) e i
dimostranti, morirono oltre cento persone. […] Uno dei due georgiani,
intervistato qualche giorno fa da due televisioni europee e ieri anche dalla
agenzia di stampa moscovita Interfax, Alexander Revazishvili ricorda: ‘Giunse
alla nostra tenda sulla Maidan Mamulashvili (uno stretto collaboratore di
Michail Shakashivili, ex presidente della Georgia, n.d.r.) con un ucraino che
si faceva chiamare Andrea, ma soprattutto con un americano che indossava la
mimetica, un ex soldato dell’esercito, che si presentò con il nome di
Cristopher Bryan’. Il misterioso Bryan venne presentato come ‘istruttore di
contractors’. La circostanza è confermata dall’altro ‘contractor’ georgiano,
Koba Nergadze, che incontrò separatamente Bryan ma questa volta alla presenza
proprio di Shakashivili. Racconta Nergadze: ‘Era presente all’incontro anche
l’attuale capo della sicurezza nazionale Sergey Pashinsky. Gli ordini venivano
dati da Bryan e a noi tradotti in georgiano da Mamumashvili. Un gruppo di contractors diretto da Pashinsky, e composto da
lituani, polacchi e georgiani avrebbe dovuto recarsi all’edificio del
Conservatorio ma non avevamo idea per far cosa’. […] ‘La mattina presto –
ricorda ancora Nergadze – verso le 8, ho sentito spari provenienti dal
Conservatorio. Dopo tre o quattro minuti il gruppo di Mamulashvili ha anch’esso
iniziato a sparare dall’hotel Ucraina. I due gruppi di cecchini spararono in
modo incrociato sia sulla polizia sia suoi dimostranti cercando di provocare
più morti possibili’. ‘Pashinsky mi ha aiutato a scegliere le posizioni di
tiro. Verso le 7.30 del mattino (o forse più tardi) Pashinsky ordinò a tutti di
prepararsi ad aprire il fuoco. Avremmo dovuto sparare 2 o 3 colpi e poi cambiare
posizione in modo che i colpi sembrassero casuali. Abbiamo continuato per circa
10-15 minuti. Successivamente, ci è stato ordinato di abbandonare le armi e
lasciare l’edificio’”…
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