La Libertà Non Sta Nello Scegliere Tra Bianco E Nero, Ma Nel Sottrarsi A Questa Scelta Prescritta. (Theodor W.Adorno)
martedì 31 marzo 2020
Coronavirus, Annie Ernaux contro Macron: “Hai tagliato la sanità e adesso parli di guerra”
L'autrice
de "Gli anni" e "Il posto", Annie Ernaux, una delle voci
letterarie più profonde e amate del nostro presente, scrive una lettera al
presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron per rilanciare nel campo
presidenziale tutta la retorica, l'uso improprio del linguaggio bellico e
persino la fallacia logica delle contraddizioni politiche dei suoi recenti
discorsi alla nazione, nonché per le politiche messe in campo durante
l'emergenza sanitaria da coronavirus. Cita la censura di cui fu vittima il
grande Boris Vian non per farsi schermo ma per scegliere la parte di campo in
cui stare, e lo fa a modo suo. Non è un caso che la scrittrice francese sia
così amata dai lettori di tutto il mondo.
Innanzitutto,
la citazione di Vian: "Ti scrivo una lettera / Che potresti leggere / Se
hai tempo. Per te che sei appassionato di letteratura, questa introduzione probabilmente
significa qualcosa. È l'inizio della canzone The Deserter di Boris Vian,
scritta nel 1954, tra la guerra dell'Indocina e la guerra algerina. Oggi,
qualunque cosa tu dica, non siamo in guerra, il nemico qui non è umano, non è
il nostro prossimo, non ha né pensato né voglia di fare del male, ignora i
confini e le differenze sociali, si riproduce alla cieca saltando da un
individuo all'altro. Le armi, poiché tieni a questo lessico bellico, sono i
letti degli ospedali, i respiratori, le maschere e i test, ovvero il numero di
medici, scienziati, operatori sanitari. Tuttavia, da quando guidi la Francia,
sei rimasto sordo alle grida di allarme del mondo della salute".
Un
atto di accusa potente contro quelle politica, come nel caso delle politiche
messe in campo dai governi voluti dal presidente Emmanuel Macron, che non si
ferma ai tagli, ma alla concezione del potere, della visione di società del
presidente francese: "Hai preferito ascoltare coloro che sostengono il
disimpegno dello Stato, sostenendo l'ottimizzazione delle risorse, la
regolazione dei flussi, tutto questo gergo tecnocratico privo di carne".
Perché
a sostenere lo stato francese, in questo momento, ci sono "i servizi
pubblici che, per la maggior parte, assicurano il funzionamento del Paese:
ospedali, istruzione nazionale e le sue migliaia di insegnanti, insegnanti che
sono così mal pagati, EDF, l'ufficio postale, la metropolitana e il SNCF. E
quelli che, una volta, hai detto che non erano niente, ora sono tutto, quelli
che continuano a svuotare la spazzatura, a digitare i prodotti nelle casse, a
consegnare le pizze, a garantire questa vita essenziale come la vita
intellettuale e materiale."
Una
lunga disamina di quelli che sono gli invisibili dei nostri tempi, in epoca da
coronavirus: "Sappi, signor Presidente, che non lasceremo più rubare la
nostra vita". Ecco il testo integrale, in (francese), della lettera di Ernaux…
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lunedì 30 marzo 2020
Coronavirus - Raoul Vaneigem
Mettere in dubbio la pericolosità del Coronavirus, è sicuramente assurdo.
D'altra parte, non è altrettanto assurdo che un'interruzione in quello che è il
normale decorso delle malattie venga fatta oggetto di un simile sfruttamento
emotivo, e che risvegli quell'arrogante incompetenza che anni fa era riuscita a
spazzare via dalla Francia perfino la nube di Chernobyl? Ovviamente, sappiamo
con quanta facilità lo spettro dell'apocalisse esca dalla sua scatola per
impadronirsi del primo cataclisma che gli si offre, per giocare così con le
rappresentazioni del diluvio universale, e spostare quella che è la griglia
della colpa sul terreno sterile di Sodoma e Gomorra. La maledizione divina è
sempre stata un utile complemento al potere. Almeno fino al terremo di Lisbona
del 1755, quando il marchese di Pombal, amico di Voltaire, approfittò del sisma
per massacrare i gesuiti, ricostruire la città secondo le sue idee e liquidare
allegramente i suoi rivali politici attraverso degli esperimenti «proto-stalinisti».
Eviteremo di insultare Pombal, per quanto odioso sia stato, paragonando il suo
colpo di stato dittatoriale alle misere misure che il totalitarismo democratico
sta applicando in tutto il mondo all'epidemia di Coronavirus.
Quant'è cinico dare la colpa del propagarsi del flagello alla deplorevole
inadeguatezza delle risorse mediche impiegate! Per decenni il bene pubblico è
stato minato e smantellato, vittima di una politica che favorisce gli interessi
finanziari a spese della salute dei cittadini. Ci sono sempre più soldi per le
banche e sempre meno letti e infermieri per gli ospedali. Quali buffonate
useranno per nascondere ancora il fatto che questa gestione catastrofica del
catastrofismo è inerente al capitalismo finanziario, globalmente dominante, e
che è proprio lui che oggi lotta globalmente a nome della vita, del pianeta e
delle specie da salvare. Senza cadere in questa recrudescenza del castigo
divino per cui l'idea sarebbe quella che la Natura si sta sbarazzando dell'uomo
come se fosse un parassita gradito e dannoso, non è però inutile ricordare che
per millenni lo sfruttamento della natura umana e della natura terrestre ha
imposto il dogma dell'anti-fisica, dell'anti-natura. Il libro di Éric Postaire,
"Le epidemie del XXI secolo", pubblicato nel 1997,
conferma quali sono stati gli effetti disastrosi della persistente
denaturalizzazione, che vado denunciando da decenni. Facendo riferimento al
dramma della «mucca pazza» (che era stato predetto da Rudolph
Steiner già nel 1920), l'autore ci ricorda che, oltre ad essere indifesi contro
alcune malattie, bisogna rendersi conto che a poterle causare è lo stesso
progresso scientifico. Nel richiedere un approccio responsabile alle epidemie
ed al loro trattamento, mette sotto accusa quella che Claude Gudin chiama la «filosofia
del cassiere». Egli ci pone la seguente domanda: «Se subordiniamo
la salute della popolazione alle leggi del profitto, fino al punto di
trasformare in carnivori gli animali erbivori, non corriamo così forse il
rischio di provocare delle catastrofi che saranno fatali per la Natura e per
l'Umanità? I governi, com'è noto, hanno già risposto unanimemente SÌ. Ma che
importa, visto che il NO degli interessi finanziari continua cinicamente a
trionfare?»
E ci voleva il Coronavirus per dimostrare ai più miopi che la
denaturalizzazione per ragioni di redditività può avere delle conseguenze
disastrose per la salute universale (salute che viene gestita senza
disinnescare un'Organizzazione Mondiale le cui preziose statistiche servono a giustificare
la cancellazione degli ospedali pubblici)? Esiste una chiara correlazione tra
il Coronavirus ed il collasso del capitalismo globale. Allo stesso tempo, non è
meno ovvio che ciò che ci sta travolgendo e sopraffacendo, insieme all'epidemia
del Coronavirus, è una peste emozionale, una paura isterica, un panico che
nasconde quella che è la mancanza di terapie, e perpetua il male spaventando il
paziente. Durante le grandi epidemie di peste del passato, la gente faceva
penitenza e proclamava la propria colpa auto-flagellandosi. E non è forse
interesse degli amministratori della disumanizzazione globale persuadere le
persone che non c'è modo di uscire dal miserabile destino che viene loro
inflitto? E che l'unico modo è quello della flagellazione della servitù
volontaria? La formidabile macchina mediatica non fa altro che ripetere la
vecchia menzogna dell'impenetrabile ed ineluttabile decreto celeste, in cui il
folle denaro ha soppiantato gli dei sanguinari e capricciosi del passato.
Lo scatenarsi della barbarie poliziesca contro pacifici manifestanti ha
ampiamente dimostrato che la legge militare è l'unica cosa che funzioni
efficacemente. Adesso confina donne, uomini e bambini nella quarantena. Là
fuori, c'è la bara, dentro c'è la televisione: la finestra aperta su un mondo
chiuso! Si tratta di un condizionamento capace di aggravare il malessere
esistenziale appoggiandosi alle emozioni logorate dell'angoscia, ed esacerbate
dalla cecità di una rabbia impotente. Perfino le bugie cedono il passo al
collasso generale. Il cretinismo statale e populista ha raggiunto i propri
limiti. Non si può negare che ci sia in corso un esperimento. La disobbedienza
civile si sta diffondendo e sta sognando società che sono radicalmente nuove
perché sono radicalmente umane. La solidarietà libera dalla loro scorza
individualista gli individui che non hanno paura di pensare con la propria
testa.
Il coronavirus si è trasformato nel marchio rilevatore del fallimento dello
Stato. Almeno questo, per le vittime della reclusione forzata, è qualcosa cui
pensare. Quando ho pubblicato le mie «Modeste proposte per gli scioperanti»,
ci sono stati alcuni amici che mi hanno parlato di quanto fosse difficile
ricorrere al rifiuto collettivo, da me suggerito, di pagare tasse e imposte. Oggi,
però, l'evidente bancarotta dello Stato corrotto è la prova di una declino
economico e sociale che sta facendo sì che le piccole e medie imprese, il
commercio locale, i bassi redditi, le aziende agricole familiari e perfino le
cosiddette libere professioni siano assolutamente insostenibili. Il collasso
del Leviatano è riuscito a convincerci in maniera più rapida di quanto avevano
fatto i nostri sforzi per abbatterlo.
Il Coronavirus ha fatto di meglio ancora. La cessazione delle attività
produttive nocive ha ridotto l'inquinamento del mondo, salvando da una morte
programmata milioni di persone: la natura respira, i delfini tornano nuotare e
a giocare in Sardegna, i canali di Venezia liberatisi del turismo di massa
riscoprono l'acqua chiara, il mercato azionario crolla. La Spagna decide di
nazionalizzare le cliniche private, come se avesse riscoperto la sicurezza
sociale, come se lo Stato si ricordasse dello stato sociale che ha distrutto.
Niente viene dato per scontato, tutto comincia. L'utopia continua a
gattonare a quattro zampe. Abbandoniamo alla loro celestiale inanità i miliardi
di banconote e di idee vuote che circolano sulle nostre teste. Quel che importa
è «farci gli affari nostri» lasciando che la bolla degli affari
crolli e imploda. Stiamo attenti alla mancanza di audacia e fiducia in sé
stessi!
Il nostro presente non consiste nel confinamento che ci viene imposto dalla
sopravvivenza, ma è l'apertura ad ogni possibilità. Quelle misure che lo Stato
oligarchico è costretto ad adottare, e che fino a ieri aveva ritenuto
impossibili, sono solo effetto del panico. Dobbiamo rispondere a quello che è
il richiamo della vita e della terra da riconquistare. La quarantena favorisce
la riflessione. Il confinamento non sopprime la presenza sulla strada, ma la reinventa.
Permettetemi di pensare, cum grano salis, che l'insurrezione della
vita quotidiana continua ad avere insospettabili virtù terapeutiche.
da qui
La coalizione dei ripugnanti
Moltissimi lutti addusse agli umani il Covid-19 (e non ha finito).
E
però diventa un’occasione per ripensare tante cose.
Primo: che idea hanno di Europa quelli che prima di lanciarti il salvagente vogliono il numero della carta di credito? - Primum vivere, deinde philosophari (qui), diciamo noi.
secondo: alla fine la coalizione dei ripugnanti farà la classifica dei buoni e dei cattivi, la faranno gli olandesi che fanno dumping fiscale, e i loro amici, "Alla Commissione – ha aggiunto Von der Leyen – è stato affidato dal Consiglio il compito di elaborare il piano di ricostruzione, e questi sono i binari su cui stiamo lavorando" (qui)
Traduzione: aspettiamo che l'epidemia faccia il lavoro di distruzione del vostro paese (come anche in Spagna e in Portogallo, la Grecia è stata una prova ben riuscita) e poi ci prenderemo tutto a prezzi di saldo (ecco il piano di ricostruzione).
Primo: che idea hanno di Europa quelli che prima di lanciarti il salvagente vogliono il numero della carta di credito? - Primum vivere, deinde philosophari (qui), diciamo noi.
secondo: alla fine la coalizione dei ripugnanti farà la classifica dei buoni e dei cattivi, la faranno gli olandesi che fanno dumping fiscale, e i loro amici, "Alla Commissione – ha aggiunto Von der Leyen – è stato affidato dal Consiglio il compito di elaborare il piano di ricostruzione, e questi sono i binari su cui stiamo lavorando" (qui)
Traduzione: aspettiamo che l'epidemia faccia il lavoro di distruzione del vostro paese (come anche in Spagna e in Portogallo, la Grecia è stata una prova ben riuscita) e poi ci prenderemo tutto a prezzi di saldo (ecco il piano di ricostruzione).
già
l’otto marzo una lettera dell’Associazione nazionale di Amicizia Italia-Cuba
segnalava al ministro della Sanità Speranza la disponibilità a offrire medicine
e personale medico per aiutare a combattere il virus (qui)
il
23 marzo Il governo italiano ha
lanciato un appello diretto al segretario alla Difesa americano, Mark Esper,
per aiuti militari nella lotta contro il coronavirus…A parte qualche tweet di
solidarietà, gli Usa piuttosto hanno fatto incetta in Italia di kit per gli
esami di laboratorio. La notizia aveva fatto scalpore nei giorni scorsi: mezzo
milione di tamponi sono stati comprati presso un’azienda produttrice al Nord e
caricati su un grande aereo militare che è poi partito da Aviano. (qui)
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il 28 marzo alle parole di Ursula Von der Leyen (Presidente della Commissione Europea) contro i coronabond:
“Quella parola è solo uno slogan” replica il presidente del consiglio Conte: "Qui c’è un appuntamento con la storia. L’Europa deve
dimostrare se è all’altezza” (qui)
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il 28 marzo arriva dall’Albania un team di 30
medici e infermieri albanesi è partito per l’Italia per aiutare il nostro Paese
ad affrontare l’emergenza Coronavirus.
qui
il 29 marzo Boris
Johnson dice: "E' importante che io
sia chiaro con voi: sappiamo che le cose peggioreranno prima che inizino a
migliorare” (qui).
probabilmente la sera prima aveva guardato Oltre
il giardino), prendendo spunto da Chance il giardiniere (qui)
e
sempre Peter Sellers aiuta a capire la logica della coalizione dei ripugnanti (qui), quella logica schifosa
per cui prima devi avere l’assicurazione medica, o una carta di credito ben
piena e allora ti curiamo, se non hai quelle due caratteristiche al massimo un
paio di aspirine e poi crepa a casa tua, se ce l’hai , o in strada.
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Il
Dipartimento di Stato USA ha criticato Cuba mercoledì scorso per aver inviato
medici in diversi paesi in crisi a causa del coronavirus. Inoltre,
l'ambasciata americana a L'Avana, ha esortato i paesi che ricevono la
cooperazione medica cubana a rifiutare questo aiuto, nonostante la pandemia di
COVID-19.
Il ministero degli Esteri cubano, tuttavia, ha respinto questa posizione di Washington, definendola "offensiva per Cuba e il resto del mondo", mentre il mondo intero è minacciato dalla pandemia di COVID-19.
Allo stesso modo, ha sollecitato la "cessazione e sospensione di ingiusti blocchi e misure unilaterali coercitive", nonché "meschinità e ostilità", come sostenuto dalle Nazioni Unite, ha ricordato.
Inoltre, Palacios ha sottolineato la necessità di impegnarsi per "promuovere la solidarietà e aiutare coloro che ne hanno bisogno" in questi momenti critici.
Il portavoce ministeriale cubano, ha assicurato che il paese caraibico continuerà a “inviare i dottori necessari negli angoli più bui del mondo. Medici e non bombe”, ha precisato.
Il ministero degli Esteri cubano, tuttavia, ha respinto questa posizione di Washington, definendola "offensiva per Cuba e il resto del mondo", mentre il mondo intero è minacciato dalla pandemia di COVID-19.
Allo stesso modo, ha sollecitato la "cessazione e sospensione di ingiusti blocchi e misure unilaterali coercitive", nonché "meschinità e ostilità", come sostenuto dalle Nazioni Unite, ha ricordato.
Inoltre, Palacios ha sottolineato la necessità di impegnarsi per "promuovere la solidarietà e aiutare coloro che ne hanno bisogno" in questi momenti critici.
Il portavoce ministeriale cubano, ha assicurato che il paese caraibico continuerà a “inviare i dottori necessari negli angoli più bui del mondo. Medici e non bombe”, ha precisato.
(qui)
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"Questo discorso è ripugnante nel quadro
dell'Unione europea. Questa è la parola giusta: ripugnante, perché noi non
siamo pronti per ascoltare ancora una volta ministri dell'Economia
olandesi". Così il premier portoghese Antonio Costa attacca il ministro
olandese Wopke Hoekstra, ricordando le parole che il suo predecessore Jeroen
Dijsselbloem aveva durante la crisi economica. Lo scontro è ancora una volta di
natura economica: il Portogallo è schierato con i Paesi Ue che sostengono la
necessità degli eurobond, su tutti Italia e Spagna. Un'ipotesi che non piace,
tra gli altri, all'Olanda e che avrebbe spinto Hoekstra a chiedere alla
Commissione Ue di avviare un'indagine sui bilanci dei Paesi che vorrebbero gli
eurobond per far fronte all'emergenza coronavirus.
Il governo del Portogallo ha deciso di
concedere il permesso di soggiorno a tutti gli immigrati che ne hanno già fatto
richiesta, almeno fino al primo luglio, per garantirgli di affrontare al meglio
l'emergenza coronavirus. Il governo di Antonio Costa ha approvato la sanatoria
per i richiedenti asilo e per tutti gli stranieri senza permesso di soggiorno
che abbiano chiesto di accedere ai servizi sanitari.
Come l’austerità ha distrutto la sanità - coniarerivolta
Nel pieno dell’esplosione dell’epidemia legata al Coronavirus, tutti
sembrano concordare sull’esistenza di un serio pericolo di insufficienza di
strutture e macchinari, quali respiratori e posti letto in terapia intensiva,
che prima o poi metterà gli operatori del sistema sanitario nella posizione di
dover scegliere a chi
somministrare i trattamenti o meno, innalzando in questo modo la
mortalità della malattia per ragioni che nulla avrebbero a che vedere con
l’aggressività specifica del Covid-19. È datata 14 marzo la dichiarazione dell’assessore
al welfare della Lombardia, Giulio Gallera, su un numero ormai limitatissimo di
posti di terapia intensiva nella regione, del tutto insufficienti a fronte dei
nuovi malati registrati ogni giorno.
A tal riguardo si sta accendendo una polemica politica sui motivi di tale
incapacità del sistema ospedaliero di assorbire il numero crescente di pazienti
gravi. Su una cosa sembrano essere tutti d’accordo: il Servizio Sanitario
Nazionale (SSN) è evidentemente inadeguato per affrontare questa situazione.
Tuttavia, due posizioni distinte emergono dal dibattito circa tale
inadeguatezza.
Da più parti si è sottolineato che la causa principale di tali difficoltà
siano i tagli alla
sanità pubblica effettuati nel corso degli ultimi anni. Sul
fronte opposto, invece, le cause sarebbero da ricercare nella cattiva gestione
dei finanziamenti pubblici (la cui erogazione sarebbe addirittura cresciuta
negli ultimi anni), attribuibile all’inadeguatezza dei dirigenti del settore
sanitario e al malaffare. Proviamo a districarci in questo dibattito.
Partiamo, innanzitutto, da un dato incontestato: il SSN si sta rivelando,
ad oggi, gravemente inadeguato ad affrontare questa situazione emergenziale.
Il dato italiano sul
numero dei posti letto è allarmante: nel 2017 (ultimo dato disponibile) c’erano
3.2 posti letto ogni mille abitanti (in discesa dai 3.9 del 2010). Si tratta di
un dato impietoso se rapportato alla media OCSE (4.7), e soprattutto a Francia
(6) e Germania (8). Dal 2010 al 2017 è crollato il numero delle strutture
ospedaliere, passate da 1.165 a 1.000 (-14.2%), e il numero complessivo
dei posti letto,
passati da 244.310 a 210.907 (-13.7%, che diventa -30% se partissimo dal 2000).
Dal nostro punto di vista, questo declino è figlio di un disegno
politico ed economico ben preciso, comunemente definito come austerità: si
tratta di un processo di privatizzazioni e riduzione della spesa pubblica
portato avanti dai governi di tutti i colori degli ultimi trent’anni, sotto la
spinta del processo di integrazione europea, e la cui realizzazione ha subito
una violenta accelerazione a partire dalla crisi scoppiata nel 2008.
Il sistema sanitario è inadeguato perché decenni di tagli hanno ridotto il
personale medico e infermieristico, i posti letto, i macchinari e i servizi,
all’interno di un più ampio progetto politico che sta disintegrando lo stato
sociale per favorire l’accumulazione di profitti di pochi. Non ci stupisce che,
in questi giorni, coloro che hanno favorito, messo in pratica e promosso
l’austerità siano in evidente imbarazzo e provino a nascondere le loro
responsabilità storiche e politiche.
In particolare, il responsabile economico di Italia Viva, Luigi
Marattin, ha dichiarato che la
storia dei tagli alla sanità sarebbe una bufala e che, al contrario, i
finanziamenti pubblici al SSN sono quasi raddoppiati negli ultimi 20 anni.
Luigi Marattin, così come il ministro delle politiche agricole alimentari e
forestali Teresa Bellanova,
basa le sue dichiarazioni sui dati della spesa sanitaria corrente (ossia, la
spesa in costi per il personale e consumo di beni non durevoli) in termini
nominali. Così computata, in effetti, la spesa per il SSN mostra una certa
crescita che sembrerebbe protrarsi, sebbene a ritmi modesti, anche negli anni
della più dura austerità, dopo il 2011. Su questi dati, Marattin conclude che
la colpa dello stato emergenziale del SSN andrebbe quindi attribuita alla
cattiva gestione delle risorse.
Il grafico a cui fanno riferimento Marattin e il ministro Bellanova si
basa su dati forniti
dal Ministero della Salute. I dati OCSE qui riportati in Figura 1
confermano il trend evidenziato da Marattin: in termini nominali la spesa
corrente in sanità è aumentata piuttosto sensibilmente fino al 2008, e
successivamente, sebbene a ritmi meno elevati, è continuata a crescere.
FIGURA 1. Fonte: Elaborazioni su dati OCSE, banca dati Cofog (spesa
governativa per funzione). Miliardi di euro a prezzi correnti. Dalla spesa
complessiva (total government expenditure) sono stati sottratti gli
investimenti.
1
Tuttavia, calcolare il finanziamento al sistema sanitario facendo
riferimento a dati in termini nominali significa non tenere in considerazione
l’andamento dei prezzi dei beni e servizi acquistati dalla pubblica
amministrazione nel comparto sanitario. Nel corso degli anni presi a
riferimento si è verificata infatti una crescita del livello dei prezzi
nell’economia che ha svalutato l’entità di quegli stanziamenti. Per
giunta il tasso di inflazione annuo specifico del settore sanitario è
risultato costantemente maggiore rispetto a quello medio dell’economia (dal
2000 al 2015 i prezzi medi nell’economia italiana sono aumentati di circa il
25%, mentre la crescita dei beni e servizi del comparto sanitario è stata del
37%), contribuendo così a svalutare ancor di più i valori nominali del
finanziamento.
Per queste ragioni, al fine di valutare l’andamento della spesa pubblica in
sanità è opportuno considerare il finanziamento al sistema sanitario in
termini reali. Perché è questo il dato che conta? Qualsiasi grandezza
economica deve essere valutata in termini reali nella sua evoluzione temporale,
dal momento che 1 miliardo di euro nel 2000 non equivale a 1 miliardo nel 2020,
poiché l’aumento dei prezzi fa sì che nel 2020 la stessa cifra in termini
nominali non permetta di acquistare le stesse quantità di beni, servizi e forza
lavoro. Per quanto riguarda il settore sanitario, la crescita molto marcata dei
prezzi di farmaci e strumentazione medica insieme alla dinamica più lenta della
spesa sanitaria nominale hanno provocato una continua riduzione della quantità
di farmaci, attrezzature e servizi medici a disposizione del SSN.
Considerando il valore deflazionato, ovvero in termini reali, della spesa
pubblica sanitaria, ottenuto utilizzando l’indice dei prezzi di un paniere di
beni e servizi sanitari, la dinamica di tale grandezza cambia drasticamente
(Figura 2).
FIGURA 2. Fonte: Elaborazioni su dati OCSE, banca dati Cofog (spesa
governativa per funzione). Miliardi di euro a prezzi costanti (base 2015). La
spesa in termini nominali presentata in Figura 1 è stata deflazionata
utilizzando il deflatore dei prezzi della sanità disponibile a questo link.
Ecco come i valori in termini reali mostrano chiaramente che, dopo una fase
di crescita nel primo decennio del nuovo secolo, a partire dal 2011 vi sia una
fase di contrazione costante della spesa sanitaria, causata dall’applicazione
delle severe politiche di austerità di matrice europea avviate dal governo
Monti e poi proseguite. Si tratta di un taglio di circa 26 miliardi,
pari al 12%, dal livello di spesa del 2009 a quello del 2018, che si traduce in
termini pro-capite in un taglio di quasi 400 euro pro-capite.
Inoltre, il dato finora preso in esame non tiene conto degli investimenti
pubblici in sanità, ossia dell’acquisto da parte dello Stato di beni durevoli,
quali strutture e macchinari, capaci ad esempio di incrementare i posti letto o
di mantenere elevati standard di attrezzature (che, ad esempio, se non
rinnovate possono soffrire di obsolescenza). Anche in questo caso, dall’analisi
condotta in termini reali registriamo un costante decremento degli investimenti
annui (Figura 3), che passano dai 6.1 miliardi del 2009 ai 3.4 del 2018 (-44%).
Il dato è ancora più eclatante se facciamo riferimento ai soli investimenti nel
comparto ospedaliero, quello più sotto pressione in questi giorni, diminuiti da
3 a 1.3 miliardi (-56%).
FIGURA 3. Fonte: Elaborazioni su dati OECD, Cofog (spesa governativa per
funzione). Miliardi di euro a prezzi costanti (base 2015). La spesa per
investimenti (gross capital formation) è stata deflazionata utilizzando il
deflatore degli investimenti complessivi.
Nel complesso, l’entità dello sforzo pubblico (spesa corrente più
investimenti) nel comparto sanitario è caduta dal 2008 del 13%, da 136 miliardi
a 118 miliardi annui.
Il taglio di risorse risulta ancora più vistoso se si considera che nel
corso dell’ultimo ventennio si è verificato, in Italia come in molti altri
paesi del mondo occidentale, un significativo invecchiamento
della popolazione: una parte cospicua della spesa sanitaria è infatti
rivolta alla popolazione anziana, e ciò significa che per garantire un pari
livello di servizi, ceteris paribus, la spesa sarebbe dovuta
aumentare in termini reali, anche solo per assecondare tali mutamenti
demografici.
Inoltre, l’evoluzione tecnologica – particolarmente marcata nel settore
sanitario – comporta anch’essa un aumento dei finanziamenti nel tempo,
indispensabile per l’adozione delle nuove apparecchiature, che permettono ad un
sistema di cura di evolversi al passo con i tempi, e l’affinamento di tutte le
competenze specifiche necessarie.
Come se non bastasse, le risorse destinate ad acquistare farmaci e
materiali sempre più costosi sono state in parte individuate attraverso la
riduzione del monte salari di medici e infermieri. Ecco perché negli ospedali
si registra una carenza sempre più preoccupante di infermieri e personale
infermieristico (meno 36.000) e medico (meno 8.000). Regioni e
aziende sanitarie per raggiungere l’equilibrio di bilancio hanno tagliato gli
organici. Non stupisce affatto che il settore sanitario risulti, insieme a
quello assistenziale, il peggiore in termini di gap occupazionale rispetto alla
media europea: all’Italia, nel 2017, mancavano 1 milione e 435 mila
addetti per raggiungere il medesimo tasso di occupazione
settoriale dell’aggregato UE15.
Infine, vediamo che altri grandi paesi europei hanno aumentato la spesa
nominale in modo molto più marcato di noi nel periodo di riferimento.
L’andamento più recente ha ulteriormente allontanato la spesa sanitaria
pubblica italiana rispetto a quella di altri paesi europei, dove non sono stati
effettuati simili tagli in termini reali, in un contesto di applicazione meno
ferrea delle politiche di austerità finanziaria. Nel 2018, la spesa pubblica
nel settore sanitario corrisponde in Italia al 6.8% del PIL (il
7.4% nel 2009), contro l’8.1% della Francia (8%), il 7.2% di Germania (7.1%) e
l’UE15 (7.5%).
Abbiamo visto come i vari Marattin stiano provando, in ogni modo, a negare
l’evidenza, a negare cioè che la responsabilità dell’inadeguatezza del nostro
SSN sia da imputare alle politiche di austerità. È l’austerità che ha
decimato gli ospedali, riducendo i posti letto ed il personale medico, una
scelta tutta politica che ora rischiamo di pagare cara.
Chi oggi prova a sviare l’attenzione, dall’austerità a qualche altra
presunta causa del declino del sistema sanitario nazionale (una vaga mala
gestione per Marattin, addirittura
quota 100 per Boeri!), lo fa per vergogna, perché davanti
all’emergenza sanitaria non ha il coraggio di sostenere apertamente un progetto
politico che impone il sacrificio di molti per il profitto di pochi. Ma basta
fare qualche passo indietro, uscire dall’emergenza di queste settimane, per
imbattersi in dichiarazioni inequivocabili che vanno nella direzione opposta.
Emblematico, da questo punto di vista, il libro pubblicato da Carlo
Cottarelli nel 2015 dal titolo “La lista della spesa: la verità sulla spesa
pubblica italiana e su come si può tagliare”. Nel capitolo 12, dedicato alla
spesa sanitaria, Cottarelli rivendica apertamente che l’Italia avrebbe fatto
“meglio della Germania”: siamo stati “più virtuosi dei tedeschi” perché “la
spesa sanitaria è cresciuta negli ultimi decenni (…) meno di quanto sia
avvenuto nella maggior parte degli altri paesi avanzati”. E ancora: “Che è
successo negli ultimi anni? Siamo stati anche più virtuosi: dal 2008, la spesa
è rimasta praticamente costante rispetto al Pil, nonostante il Pil (in termini
reali) scendesse”.
Cottarelli concludeva: “Il fatto che la spesa sanitaria sia aumentata meno
che negli altri paesi avanzati dimostra che il Servizio sanitario nazionale ha
funzionato bene”, aggiungendo una chiosa significativa: “almeno in termini
di contenimento dei costi”. Ecco il punto. Oggi, intimiditi, ci raccontano
che la spesa pubblica per la sanità non si è mai ridotta, ma prima di questa
epidemia, tronfi, rivendicavano con toni altisonanti il contenimento della
spesa sanitaria. L’epidemia è un fatto naturale, la difficoltà che il sistema
sanitario ha nel contenerla è invece una loro responsabilità politica. Lasciamo
che i medici combattano il Covid-19, ma spetta a noi combattere contro il virus
dell’austerità.
domenica 29 marzo 2020
lo sguardo e le parole di Alberto Negri
Senza tregua, il falso cessate il fuoco - Alberto Negri
Antonio
Guterres, segretario generale dell’Onu, il 23 marzo si era rivolto ai paesi in
guerra chiedendo un cessate il fuoco per impedire che in zone già devastate e
indebolite dai conflitti il coronavirus potesse mietere ancora più vittime.
Nessuna grande o media potenza se lo è filato, tranne qualche gruppo di
guerriglia come gli insorti comunisti delle Filippine.
Siamo senza
tregua ma sui media ci raccontiamo la favoletta della “pace da coronavirus”.
Il Pentagono
ha ordinato ai comandanti militari di prepararsi a un aumento dei combattimenti
in Iraq emanando una direttiva per preparare una campagna contro le milizie
sciite: alcuni generali esitano ma Trump e Pompeo spingono per approfittare
dell’indebolimento dell’Iran prostrato dall’epidemia.
Il quadrante
iracheno è ribollente. Gli Usa si sono defilati da alcune basi per evitare
attacchi dei miliziani mentre la Francia ha ritirato qualche centinaio di
soldati: questo è il prezzo che Macron ha pagato per la liberazione di quattro
ostaggi francesi dell‘organizzazione umanitaria Cristiani d’Oriente prigionieri
per oltre un mese non si sa se di qualche milizia o degli stessi servizi
iracheni. Appare sempre più chiaro che a Baghdad si sta aprendo un nuovo capitolo
della “guerra di Soleimani” tra le forze che vorrebbero un ritiro degli
americani e gli Usa che qui vogliono fare la guerra a Teheran e alla Mezzaluna
sciita.
Altro che
tregua. Non finiscono neppure le guerre economiche. Anzi gli Stati Uniti
continuano a strangolare Teheran con le sanzioni e hanno imposto persino una
taglia sul presidente venezuelano Maduro. Da ogni parte si chiede la
sospensione delle sanzioni all’Iran: quelle finanziarie e bancarie, lo scrive
anche il New York Times, impediscono a Teheran qualunque operazione di
pagamento internazionale, compreso l’import di medicinali. Non solo:
Washington, dopo avere offerto agli ayatollah la carità pelosa di aiuti
umanitari, si prepara a bloccare la richiesta di Teheran di un presto da 5
miliardi di dollari al Fondo monetario.
Ognuno
strangola chi può. Non pensiamo che noi europei siamo tanto meglio: il Nord
dell’Unione europea non ci vuole regalare soldi perché spera di raccogliere
quel che resterà di buono tra le macerie delle economie meridionali come la
nostra. La Germania non ha bisogno di eserciti: fa lavorare l’epidemia e
l’economia. Dopo avere evocato terminologie belliche per settimane adesso che è
in guerra la nostra classe dirigente stenta ad accorgersene e se ne meraviglia.
L’America di
Trump non rinuncia al suo obiettivo, cambiare i regimi che non gli piacciono
perseguendo politiche contrarie alla carta delle Nazioni Unite. Del resto non
ci si poteva aspettare altro visto che hanno cominciato l’anno il 3 gennaio
assassinando il generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad.
Si combatte
eccome, dalla Siria allo Yemen, dall’Afghanistan all’Iraq. Quel che si vede
sono soltanto pause o un rallentamento delle operazioni. Nella provincia di
Idlib siriani e turchi continuano a spararsi in mezzo ad azioni di guerriglia e
attentati. In Libia sono in corso violenti scontri a sud-est di Misurata e le
forze di Khalifa Haftar si stanno scontrando con quelle del governo di Tripoli.
Haftar sta tentando a Ovest di impadronirsi di Zuara sulla direttrice di
terminali di gas dell’Eni a Mellitah. Il governo di Tobruk garantisce che non
intende interrompere il flusso del metano nella pipeline verso l’Italia ma
quello che sta accadendo in Libia non è un buon viatico per la nuova missione
europea Irene destinata a far rispettare l’embargo sulle armi.
Dove non si
guerreggia è soltanto perché si teme la diffusione del coronavirus non tra le
popolazioni, completamente abbandonate al loro destino, ma tra eserciti e
miliziani: quando la pandemia sarà passata serviranno truppe efficienti per
regolare i conti.
Certo c’è
spazio anche per la diplomazia. Ma sui generis, per fare altre guerre. Il
principe ereditario di Abu Dhabi, lo sceicco Mohammed bin Zayed e il presidente
della Siria Assad si sono messi d’accordo: i Paesi del Golfo stanno riaprendo a
Damasco che è entrata nell’asse con la Russia e l’Egitto in appoggio al
generale Haftar in Libia. I siriani insieme a Mosca stanno reclutando schiere
di miliziani da mandare a combattere per il generale libico e controbilanciare
la presenza della Turchia a favore di Tripoli e di Sarraj.
I più
dimenticati di tutti sono i profughi: per loro non c’è fine alla sofferenza. E
ora sono vulnerabili anche all’epidemia. In Medio Oriente, dalla Siria, allo
Yemen, dall’Afghanistan alla Libia, oltre 20-30 milioni di persone ammassate
nei campi profughi, all’addiaccio, o in cammino tra deserti e montagne, vivono
senza neppure la speranza di raggiungere l’Europa. Loro restano in una perenne
“zona rossa”, sospesi tra la vita e la morte. Senza tregua.
sabato 28 marzo 2020
Scongiurare la catastrofe finale. Che fare, qui ed ora - Carlo Ruta
Dobbiamo
prenderne atto: non esistono modelli, perché è mancata la capacità di pensarli
in tempo, un attimo prima. Occorre quindi inventarseli, adesso. La storia
stessa non offre punti di riferimento chiari. Sarebbe inutile ricercare
precedenti nel periodo lungo per trarne lezioni decisive, perché la lotta
contro le pestilenze, contro i morbi, fino a qualche secolo fa avveniva con
mezzi inadeguati, i numeri degli infettati e dei morti erano immensi, i tempi
per il ritorno alla normalità erano lunghissimi, perlopiù di anni, e la
conoscenza in campo medico solo tra l’Ottocento e il Novecento ha fatto balzi
in avanti decisivi.
Stiamo vivendo in realtà un disastro in progress, e ce ne ricorderemo per sempre. Ma occorre riflettere su quel che ancora è possibile fare per evitare, che in Italia, nel Nord soprattutto, oggi nelle «barricate», si sprofondi ancora. Il nostro Paese, lo si è detto già, non è la Cina, per tanti motivi. E tuttavia il governo italiano, nel vuoto quasi assoluto di punti di riferimento, storici e del presente, ha dovuto ispirarsi, per necessità, a quella esperienza. Dall’Oriente asiatico è arrivato un modello che appariva risolutivo e lo si è adottato. Ma proprio perché l’Italia non è la Cina, questo paradigma operativo si sta rivelando poco applicabile e, soprattutto, non risolutivo. Vi prego allora amici di seguire il mio ragionamento, perché credo che qui stia la chiave di tutto, e soprattutto dell’attuale situazione italiana.
La Cina, che conta circa un miliardo e 300 milioni di abitanti, non ha chiuso l’intero paese, dall’Oceano Pacifico alle frontiere con la Mongolia, a quelle occidentali con India, Pakistan e Kazakistan. Non avrebbe potuto adottare una soluzione del genere perché ne sarebbe derivato il più grande disastro umano della storia. Ha chiuso, ermeticamente, solo una provincia, quella di Hubei, che ha un numero di abitanti pari a quello italiano, e ha fatto tutto ciò nella maniera più determinata e totalizzante, con l’arresto di tutti i settori produttivi, inclusi gran parte di quelli strategici, lasciando attivi solo gli avamposti medici, potenziandoli anche, e pochissimo altro. Ma ciò è potuto avvenire perché nei tre mesi che sono stati necessari alla eradicazione del morbo da quella provincia, l’altra Cina, con i suoi territori immensi, con il suo gigantismo economico e con il suo «restante» miliardo e 250 milioni di abitanti attivi, ha continuato produrre tutto l’occorrente per sé, e, in maniera piena e di fatto solidale, per la provincia immobilizzata. E sta qui la differenza con il nostro Paese.
L’Italia, come qualsiasi altra nazione al mondo, non può chiudere tutto perché collasserebbe dopo due giorni. Ha fatto comunque delle scelte, a gradi. Prima ha creato, con acume e ponderatezza, le zone rosse. Ma quando il timore di un contagio generalizzato ha preso il sopravvento, il Paese intero, dal Brennero alla Sicilia, è diventato di fatto, con decreti di emergenza, zona rossa. Quel che è avvenuto in queste due settimane è tuttavia ben noto: il virus continua ad alimentarsi ed è sempre più virulento. Si comprende allora, ad un esame disilluso dei fatti, che il provvedimento del Governo, pur importante, pur utile per tanti aspetti e perciò comprensibile, non può essere decisivo e conclusivo, anche dopo gli inasprimenti degli ultimi giorni. Per quali motivi?
L’Italia, come ogni altro paese, conta su una serie di settori economici e di attività pubbliche di rilevanza strategica che, anche nelle condizioni estreme, come quelle di una guerra devastante, non possono essere bloccati senza che si determini l’implosione materiale dell’intero sistema, economico, sanitario, sociale e civile. L’ho detto ieri ma è il caso di ribadirlo oggi, in maniera un po’ più argomentata. Non si possono fermare l’industria alimentare, la produzione agricola, l’industria farmaceutica, l’industria dell’elettricità, la gestione delle reti fognarie, la manutenzione degli autoveicoli, il trasporto merci e di passeggeri, il trasporto aereo, il trasporto marittimo, i servizi postali, i servizi di vigilanza, i servizi di pulizia urbana. Non possono essere fermati inoltre: il sistema sanitario, gli organi amministrativi dello Stato, delle Regioni e dei Comuni, le attività di assistenza pubbliche e private, i corpi armati e i servizi di polizia, il sistema carcerario, i servizi funerari. E si sta parlando, si badi, solo degli ambiti più significativi.
Come si può ben capire, anche in tempo di coronavirus, si tratta di masse enormi di persone, nell’ordine di milioni, che giorno dopo giorno sono chiamati ad espletare le loro funzioni, vitali appunto, che implicano contatti materiali, relazioni, sinergie, scambi. E non può essere evitato, a ben vedere, che da questi milioni di cittadini attivi e cooperanti il morbo continui a penetrare nel vivo dell’Italia, quella che, per decreto, resta barricata in casa. È inutile illuderci: i numeri sono troppo grandi, trattandosi di milioni appunto, perché ciò non accada. Lo si è visto in questi giorni. Nella stragrande maggioranza, questi italiani attivi hanno familiari con cui vivono, madri, mogli, mariti, figli, nonni, nipoti, e in determinate ore del giorno e della notte è naturale che si ritrovino in un focolare domestico. Si evince allora, da tutto ciò, che la chiusura in casa di gran parte della popolazione non basta. Occorre a questo punto altro. Il tempo è sempre più esiguo, e si è già quasi al marasma, come nel racconto dantesco del conte Ugolino, per metterla in metafora, con i padri che rosicchiano i figli.
Dopo quasi un mese di gestione di questa crisi, senza precedenti appunto, manca ancora l’essenziale, dai tamponi alle banali mascherine protettive, a ogni altro presidio sanitario, mentre numerose categorie di malati, per sopperire alla carenza di strutture ospedaliere e di operatori medici e paramedici nelle aree più congestionate dal contagio, vengono lasciati di fatto a sé stessi, spesso senza cura. Quando ci vuole per porre fine a questo caos italiano a cielo aperto? John Rawls diceva che il governo di un paese bene ordinato, cioè civile, è legittimato a concepire la disuguaglianza solo in un caso: quando si tratta di assicurare pienezza di diritti ai più svantaggiati. In Italia, i più svantaggiati in questo momento sono diventati invece gli agnelli sacrificali. E peseranno come macigni nella coscienza di chi aveva e ha il dovere di prevenire e di fare il possibile per scongiurare il peggio.
Che fare, allora, per fuoriuscire da questa situazione apocalittica? Ritengo che possano essere compiuti ancora atti importanti, con la consapevolezza comunque che siamo arrivati davvero all’ultima spiaggia. Anzitutto, credo che sia utile tornare alla differenziazione delle aree, e alla decretazione, per quelle più colpite, nel Nord, dell’arresto di ogni attività. Si lascino operare, in tali province, solo gli avamposti sanitari. Si faccia presto a potenziarli, a moltiplicarli, a porli in sicurezza, e si congelino anche parti dei settori strategici. E, dal momento che è mancata l’azione solidale di altri paesi, che sia l’altra Italia a farsi carico di tutto quel che occorre, attivando in pochissimi giorni un’industria dell’emergenza, nell'Italia centrale e nel Sud in particolare, in cui il contagio non manifesta ancora un andamento parossistico.
Si riattivi in sostanza la vita delle aree del Paese in cui la situazione appare ancora gestibile, perché il blocco rischia di risultare, nel presente e in prospettiva, estremamente dannoso. Qui non si tratta di chiudere, come si sta facendo, ma di riconvertire con urgenza, attivare appunto un’industria straordinaria, di guerra all'infezione, mettendo in campo tutte le energie possibili. E in questo caso sì che la storia offre degli esempi: come quello, davvero luminoso, delle donne di Cartagine, che nel 146 a.C., quando la città nordafricana era allo stremo, all’unisono sacrificarono tutto, perfino i loro capelli, per ricavarne cordame, necessario per la difesa, ormai disperata, delle mura. Non servì a nulla contro gli assedianti di Scipione Emiliano, ma quelle donne ci provarono.
Pensiamo ancora alla resistenza. Pensiamo alla rivolta del Ghetto ebreo di Varsavia. Ricordiamoci dell’Italia del «fischia il vento». Siamo o non siamo i figli e i nipoti di quella generazione? Dimostriamo di esserne degni e ci si muova, subito.
Vanno emergendo prodotti antivirali già in uso che, impiegati nelle terapie contro l’infezione, stanno dando frutti. Sulla base di ciò si istituisca allora, con urgenza, in due-tre giorni, e non di più, un protocollo di cure. Si levi la voce dell’Italia che «sventola sul ponte bandiera bianca», come la Venezia del 1848 di Arnaldo Fusinato, perché si crei, subito, un organismo tecnico internazionale, di scienziati e medici, per l’approntamento di un vaccino in tempi rapidi, possibilmente entro l’estate. Si provveda a dotare l’intero paese di presidi sanitari, subito. Si provveda a sanificare gli ambienti, le scuole, gli uffici pubblici, i luoghi di socializzazione, subito.
Si chiedeva Kennedy se ci fosse un giudice a Berlino. È ora di chiedersi perché in questo momento non si levano a sufficienza voci alte e influenti, come, un tempo, quelle di Bertrand Russell, Piero Calamandrei, Giorgio La Pira, Albert Einstein, Benedetto Croce. Possibile che l’Occidente, che ha creato tutto, che ha inventato tutto, che si è sentito fino ad oggi padrone di tutto, debba votarsi alla catastrofe, morale oltre che materiale? Possibile che l’Italia resti, a fronte di tutto questo, attonita e spaesata?
Stiamo vivendo in realtà un disastro in progress, e ce ne ricorderemo per sempre. Ma occorre riflettere su quel che ancora è possibile fare per evitare, che in Italia, nel Nord soprattutto, oggi nelle «barricate», si sprofondi ancora. Il nostro Paese, lo si è detto già, non è la Cina, per tanti motivi. E tuttavia il governo italiano, nel vuoto quasi assoluto di punti di riferimento, storici e del presente, ha dovuto ispirarsi, per necessità, a quella esperienza. Dall’Oriente asiatico è arrivato un modello che appariva risolutivo e lo si è adottato. Ma proprio perché l’Italia non è la Cina, questo paradigma operativo si sta rivelando poco applicabile e, soprattutto, non risolutivo. Vi prego allora amici di seguire il mio ragionamento, perché credo che qui stia la chiave di tutto, e soprattutto dell’attuale situazione italiana.
La Cina, che conta circa un miliardo e 300 milioni di abitanti, non ha chiuso l’intero paese, dall’Oceano Pacifico alle frontiere con la Mongolia, a quelle occidentali con India, Pakistan e Kazakistan. Non avrebbe potuto adottare una soluzione del genere perché ne sarebbe derivato il più grande disastro umano della storia. Ha chiuso, ermeticamente, solo una provincia, quella di Hubei, che ha un numero di abitanti pari a quello italiano, e ha fatto tutto ciò nella maniera più determinata e totalizzante, con l’arresto di tutti i settori produttivi, inclusi gran parte di quelli strategici, lasciando attivi solo gli avamposti medici, potenziandoli anche, e pochissimo altro. Ma ciò è potuto avvenire perché nei tre mesi che sono stati necessari alla eradicazione del morbo da quella provincia, l’altra Cina, con i suoi territori immensi, con il suo gigantismo economico e con il suo «restante» miliardo e 250 milioni di abitanti attivi, ha continuato produrre tutto l’occorrente per sé, e, in maniera piena e di fatto solidale, per la provincia immobilizzata. E sta qui la differenza con il nostro Paese.
L’Italia, come qualsiasi altra nazione al mondo, non può chiudere tutto perché collasserebbe dopo due giorni. Ha fatto comunque delle scelte, a gradi. Prima ha creato, con acume e ponderatezza, le zone rosse. Ma quando il timore di un contagio generalizzato ha preso il sopravvento, il Paese intero, dal Brennero alla Sicilia, è diventato di fatto, con decreti di emergenza, zona rossa. Quel che è avvenuto in queste due settimane è tuttavia ben noto: il virus continua ad alimentarsi ed è sempre più virulento. Si comprende allora, ad un esame disilluso dei fatti, che il provvedimento del Governo, pur importante, pur utile per tanti aspetti e perciò comprensibile, non può essere decisivo e conclusivo, anche dopo gli inasprimenti degli ultimi giorni. Per quali motivi?
L’Italia, come ogni altro paese, conta su una serie di settori economici e di attività pubbliche di rilevanza strategica che, anche nelle condizioni estreme, come quelle di una guerra devastante, non possono essere bloccati senza che si determini l’implosione materiale dell’intero sistema, economico, sanitario, sociale e civile. L’ho detto ieri ma è il caso di ribadirlo oggi, in maniera un po’ più argomentata. Non si possono fermare l’industria alimentare, la produzione agricola, l’industria farmaceutica, l’industria dell’elettricità, la gestione delle reti fognarie, la manutenzione degli autoveicoli, il trasporto merci e di passeggeri, il trasporto aereo, il trasporto marittimo, i servizi postali, i servizi di vigilanza, i servizi di pulizia urbana. Non possono essere fermati inoltre: il sistema sanitario, gli organi amministrativi dello Stato, delle Regioni e dei Comuni, le attività di assistenza pubbliche e private, i corpi armati e i servizi di polizia, il sistema carcerario, i servizi funerari. E si sta parlando, si badi, solo degli ambiti più significativi.
Come si può ben capire, anche in tempo di coronavirus, si tratta di masse enormi di persone, nell’ordine di milioni, che giorno dopo giorno sono chiamati ad espletare le loro funzioni, vitali appunto, che implicano contatti materiali, relazioni, sinergie, scambi. E non può essere evitato, a ben vedere, che da questi milioni di cittadini attivi e cooperanti il morbo continui a penetrare nel vivo dell’Italia, quella che, per decreto, resta barricata in casa. È inutile illuderci: i numeri sono troppo grandi, trattandosi di milioni appunto, perché ciò non accada. Lo si è visto in questi giorni. Nella stragrande maggioranza, questi italiani attivi hanno familiari con cui vivono, madri, mogli, mariti, figli, nonni, nipoti, e in determinate ore del giorno e della notte è naturale che si ritrovino in un focolare domestico. Si evince allora, da tutto ciò, che la chiusura in casa di gran parte della popolazione non basta. Occorre a questo punto altro. Il tempo è sempre più esiguo, e si è già quasi al marasma, come nel racconto dantesco del conte Ugolino, per metterla in metafora, con i padri che rosicchiano i figli.
Dopo quasi un mese di gestione di questa crisi, senza precedenti appunto, manca ancora l’essenziale, dai tamponi alle banali mascherine protettive, a ogni altro presidio sanitario, mentre numerose categorie di malati, per sopperire alla carenza di strutture ospedaliere e di operatori medici e paramedici nelle aree più congestionate dal contagio, vengono lasciati di fatto a sé stessi, spesso senza cura. Quando ci vuole per porre fine a questo caos italiano a cielo aperto? John Rawls diceva che il governo di un paese bene ordinato, cioè civile, è legittimato a concepire la disuguaglianza solo in un caso: quando si tratta di assicurare pienezza di diritti ai più svantaggiati. In Italia, i più svantaggiati in questo momento sono diventati invece gli agnelli sacrificali. E peseranno come macigni nella coscienza di chi aveva e ha il dovere di prevenire e di fare il possibile per scongiurare il peggio.
Che fare, allora, per fuoriuscire da questa situazione apocalittica? Ritengo che possano essere compiuti ancora atti importanti, con la consapevolezza comunque che siamo arrivati davvero all’ultima spiaggia. Anzitutto, credo che sia utile tornare alla differenziazione delle aree, e alla decretazione, per quelle più colpite, nel Nord, dell’arresto di ogni attività. Si lascino operare, in tali province, solo gli avamposti sanitari. Si faccia presto a potenziarli, a moltiplicarli, a porli in sicurezza, e si congelino anche parti dei settori strategici. E, dal momento che è mancata l’azione solidale di altri paesi, che sia l’altra Italia a farsi carico di tutto quel che occorre, attivando in pochissimi giorni un’industria dell’emergenza, nell'Italia centrale e nel Sud in particolare, in cui il contagio non manifesta ancora un andamento parossistico.
Si riattivi in sostanza la vita delle aree del Paese in cui la situazione appare ancora gestibile, perché il blocco rischia di risultare, nel presente e in prospettiva, estremamente dannoso. Qui non si tratta di chiudere, come si sta facendo, ma di riconvertire con urgenza, attivare appunto un’industria straordinaria, di guerra all'infezione, mettendo in campo tutte le energie possibili. E in questo caso sì che la storia offre degli esempi: come quello, davvero luminoso, delle donne di Cartagine, che nel 146 a.C., quando la città nordafricana era allo stremo, all’unisono sacrificarono tutto, perfino i loro capelli, per ricavarne cordame, necessario per la difesa, ormai disperata, delle mura. Non servì a nulla contro gli assedianti di Scipione Emiliano, ma quelle donne ci provarono.
Pensiamo ancora alla resistenza. Pensiamo alla rivolta del Ghetto ebreo di Varsavia. Ricordiamoci dell’Italia del «fischia il vento». Siamo o non siamo i figli e i nipoti di quella generazione? Dimostriamo di esserne degni e ci si muova, subito.
Vanno emergendo prodotti antivirali già in uso che, impiegati nelle terapie contro l’infezione, stanno dando frutti. Sulla base di ciò si istituisca allora, con urgenza, in due-tre giorni, e non di più, un protocollo di cure. Si levi la voce dell’Italia che «sventola sul ponte bandiera bianca», come la Venezia del 1848 di Arnaldo Fusinato, perché si crei, subito, un organismo tecnico internazionale, di scienziati e medici, per l’approntamento di un vaccino in tempi rapidi, possibilmente entro l’estate. Si provveda a dotare l’intero paese di presidi sanitari, subito. Si provveda a sanificare gli ambienti, le scuole, gli uffici pubblici, i luoghi di socializzazione, subito.
Si chiedeva Kennedy se ci fosse un giudice a Berlino. È ora di chiedersi perché in questo momento non si levano a sufficienza voci alte e influenti, come, un tempo, quelle di Bertrand Russell, Piero Calamandrei, Giorgio La Pira, Albert Einstein, Benedetto Croce. Possibile che l’Occidente, che ha creato tutto, che ha inventato tutto, che si è sentito fino ad oggi padrone di tutto, debba votarsi alla catastrofe, morale oltre che materiale? Possibile che l’Italia resti, a fronte di tutto questo, attonita e spaesata?
I tre vuoti da colmare per continuare a fare scuola nell’emergenza - Christian Raimo
Cosa significa fare scuola nell’emergenza? Cosa significa farla a distanza,
durante giorni di paura, di dolore, di crisi sociale? Le questioni che
riguardano i modi in cui si può e si deve continuare a farla sono molto
complesse, e non si possono ridurre a un mero cambiamento di assetto, a una
rimodulazione della didattica.
La scuola riguarda tutti, non solo gli studenti e gli insegnanti, e in
questi giorni ne abbiamo la dimostrazione: siamo tutti una comunità educante,
le nostre azioni e i nostri comportamenti hanno un effetto sulle persone che ci
sono vicino, e gli interrogativi su cosa fare e come vivere queste giornate
toccano particolarmente chi è più giovane, chi è in via di formazione, chi ha
un’identità più malleabile.
Ormai è evidente: quest’epidemia non è una parentesi, per cui si tratta di
capire quando e come rientreremo in classe. Non può nemmeno essere considerata
un’opportunità per ripensare la didattica digitale. La scuola, come qualunque
altra infrastruttura sociale, non era pronta per affrontare una simile
evenienza. Ed è normale che viviamo questo tempo come un tempo di crisi.
La scuola è sempre in crisi. Una delle cose che s’imparano standoci è che è
impossibile essere infallibili: che lo si voglia o no, stare così a lungo
insieme ad altre persone – bambine, bambini e adolescenti – rivela il nostro
carattere e le nostre vulnerabilità. Lo spazio della scuola è anche quello dove
si elabora questo confronto, dove semplicemente si cresce insieme.
L’importanza dell’ascolto
La discussione che in questi giorni sta tenendo banco tra ministero, associazioni di insegnanti e sindacati – se quella di questi giorni sia scuola o non sia scuola, se la scuola si ferma o se la scuola non si ferma – è forse un dibattito capzioso: tutto dipende da come usiamo questo tempo per l’educazione, mettendo al centro sempre la relazione educativa, che esiste anche quando è complicata, anche quando deve fare a meno della presenza fisica, perfino quando non c’è. I vuoti di relazione tra docenti e studenti, anche tra compagni, sono le esperienze negative che tutti conosciamo: il nostro compito principale è colmarli.
La discussione che in questi giorni sta tenendo banco tra ministero, associazioni di insegnanti e sindacati – se quella di questi giorni sia scuola o non sia scuola, se la scuola si ferma o se la scuola non si ferma – è forse un dibattito capzioso: tutto dipende da come usiamo questo tempo per l’educazione, mettendo al centro sempre la relazione educativa, che esiste anche quando è complicata, anche quando deve fare a meno della presenza fisica, perfino quando non c’è. I vuoti di relazione tra docenti e studenti, anche tra compagni, sono le esperienze negative che tutti conosciamo: il nostro compito principale è colmarli.
Quello che mostra questa crisi sistemica è soprattutto quello che alla
scuola manca tutti i giorni, quello che manca nella “normalità”. E quindi se è
impensabile ragionare su come ovviare ai problemi della scuola nell’emergenza,
si può invece riconoscere insieme come affrontare le mancanze, per ora e per
dopo.
La prima mancanza è quella di una scuola che si occupi dell’educazione
emotiva e sentimentale. Le richieste che vengono dagli studenti in questi
giorni sono soprattutto richieste di ascolto. Gli insegnanti e le classi devono
essere capaci d’intercettare questa richiesta; e questo non vale solo per
l’emergenza di una pandemia, ma per il quotidiano andamento della vita
scolastica. Vuol dire ricordare che si fa scuola sempre all’interno di una
comunità e di un mondo che cambiano, con le problematiche gigantesche e i
piccoli avvenimenti che colpiscono la classe. Bisogna sempre trovare il tempo
per parlarne, mantenendo un difficile equilibrio: senza pensare che i programmi
da seguire vengono prima di tutto e senza lasciare che tutto sia stravolto. I
rischi opposti, anche nel contesto educativo, sono la rimozione e la
saturazione.
Questo bisogno diffuso, che riguarda ovviamente anche gli adulti, dimostra
quanto sia necessaria una formazione psicologica degli insegnanti, sia al
momento della selezione sia durante il percorso professionale. E conferma che
per i docenti e per gli studenti è indispensabile avere figure di riferimento
per il sostegno psicologico, anche all’interno della scuola. Queste figure esistono,
ma sono poche e spesso fantomatiche. Il grande lavoro di cura che chiediamo
agli insegnanti – e di cui sono tenuti a farsi carico – dev’essere un lavoro di
qualità, che non può contare solo sull’iniziativa o sulle attitudini
individuali.
Disuguaglianze
La seconda mancanza evidenziata dalla crisi è quella di un’educazione che tenga conto delle disuguaglianze sostanziali tra le famiglie degli studenti. Chi ha genitori che riescono a seguire i figli nei compiti e chi no, chi ha a disposizione un computer e chi no, chi ha una stanza tutta per sé e chi no, chi ha una connessione decente e chi no, chi ha molti libri a casa e chi no. Le mattine in classe riducono e in parte nascondono queste disparità, che sono invece tangibili e appaiono ancora più evidenti in questi giorni in cui le webcam – di chi ce l’ha – sono puntate sulle camerette.
La seconda mancanza evidenziata dalla crisi è quella di un’educazione che tenga conto delle disuguaglianze sostanziali tra le famiglie degli studenti. Chi ha genitori che riescono a seguire i figli nei compiti e chi no, chi ha a disposizione un computer e chi no, chi ha una stanza tutta per sé e chi no, chi ha una connessione decente e chi no, chi ha molti libri a casa e chi no. Le mattine in classe riducono e in parte nascondono queste disparità, che sono invece tangibili e appaiono ancora più evidenti in questi giorni in cui le webcam – di chi ce l’ha – sono puntate sulle camerette.
In Italia il digital divide è
drammatico: come ricorda anche Franco Lorenzoni, nel 2019
solo il 76,1 per cento delle famiglie aveva accesso a internet e il 74,7 per
cento aveva una connessione a banda larga. Nelle aree metropolitane
quest’ultimo dato sale al 78,1 per cento, mentre nei comuni sotto i duemila
abitanti scende al 68 per cento. Questa è una carenza che intacca i diritti
costituzionali minimi, anche al di fuori dell’emergenza.
I gestori di telefonia e internet hanno investito sempre più sul mobile e
sempre meno sul fisso (ogni anno vengono disdetti milioni di contratti di linea
a casa). È vero che oggi la maggior parte degli italiani possiede almeno uno
smartphone, ma non è uno strumento che può essere usato adeguatamente per la
didattica. Lo sintetizzava bene Massimo Mantellini in un recente articolo sul Post:
Serviranno
linee fisse veloci (e se possibile simmetriche) nelle case dei cittadini e
device di accesso alla rete idonei alla complessità del mondo. (…) La cultura
digitale non si fa utilizzando come infrastruttura cognitiva una connessione 4G
e uno smartphone da 6 pollici.
Si poteva fare un accordo nazionale con gli operatori per portare la banda
larga nelle scuole. Oggi sull’ultimo tratto c’è concorrenza tra Tim e
Openfiber, e solo la settimana scorsa si è cominciato a parlare di una
possibile joint venture tra le due aziende.
Un’infrastruttura debole
La terza mancanza, molto profonda, riguarda i contenuti digitali, sia pedagogici sia disciplinari. In questi giorni il ministero sta pubblicizzando iniziative sparse e risorse digitali varie, compreso un canale Telegram che ha come hashtag #Lascuolanonsiferma. Il coordinamento è stato affidato soprattutto all’Istituto nazionale per l’innovazione e la ricerca educativa (Indire).
La terza mancanza, molto profonda, riguarda i contenuti digitali, sia pedagogici sia disciplinari. In questi giorni il ministero sta pubblicizzando iniziative sparse e risorse digitali varie, compreso un canale Telegram che ha come hashtag #Lascuolanonsiferma. Il coordinamento è stato affidato soprattutto all’Istituto nazionale per l’innovazione e la ricerca educativa (Indire).
Le molte risorse che stanno emergendo, però, rivelano soprattutto le
carenze sistemiche. Le piattaforme digitali sono spesso frutto dell’iniziativa
di startup piuttosto che di movimenti pedagogici o di associazioni di
insegnanti. L’offerta pubblicizzata dal ministero è esigua e non strutturata.
Anche questo non è un caso, ma il risultato di un’idea di autonomia
scolastica che ha di fatto liquidato la programmazione sistemica. Il documento del Miur che raccoglie le
prime indicazioni operative sulle attività di didattica a distanza, redatto da
Marco Bruschi, capo dipartimento del ministero, è molto chiaro, condivisibile e
pieno di buone intenzioni. Allo stesso tempo, però, mostra come il ministero
stesso sia un’infrastruttura debole, capace più di orientare, suggerire e
proporre che di programmare e offrire soluzioni, per quanto temporanee.
C’è un’ultima questione, che riguarda il ruolo e i metodi degli insegnanti.
Oggi siamo nell’emergenza, e cosa vuol dire insegnare nell’emergenza nessuno lo
sa. Sicuramente però vuol dire starci, non sottrarsi a un compito difficile ma
in questo momento importantissimo. Per svolgerlo bisogna cambiare certe
abitudini che sembrano inveterate nella scuola italiana: lezioni frontali,
didattica trasmissiva, compiti assegnati senza una reale valutazione, abuso
della funzione del voto.
Nelle condizioni difficilissime di questi giorni, chi insegna è un po’ più
fortunato: può lavorare da casa, può mantenere relazioni significative con la
sua classe anche a distanza, continua a ricevere lo stipendio, anche se è uno
stipendio basso. Tuttavia, fare scuola non è solo mantenere la rotta nella
tempesta, ma un grande dovere professionale.
Nell’ultimo contratto collettivo si dice che “il profilo professionale dei
docenti è costituito da competenze disciplinari, informatiche, linguistiche,
psicopedagogiche, metodologico-didattiche, organizzativo-relazionali, di
orientamento e di ricerca, documentazione e valutazione tra loro correlate ed
interagenti, che si sviluppano col maturare dell’esperienza didattica,
l’attività di studio e di sistematizzazione della pratica didattica”. Gli
insegnanti devono pensare di essere all’altezza del compito che gli è stato
assegnato.
Le rivendicazioni di tipo corporativo dei sindacati non sono utili in
quest’emergenza: non serve essere insegnanti missionari, ma inventivi e
generosi sì, e questo vale per tutti i giorni di scuola.
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