L’ideologia dominante si evince tanto da quello che i detentori del potere dicono quanto, se non di più, da quello che non dicono.
L’indegna
sceneggiata a cui stiamo assistendo in merito ai vaccini anti-COVID ne è una
dimostrazione lampante. A fronte di colossali ritardi nelle consegne e
gravissime inadempienze contrattuali da parte delle case farmaceutiche, che
rischiano di comportare non solo un enorme costo economico, a causa del
prolungamento delle misure di contenimento del virus, ma anche un’intollerabile
perdita di vite umane – solo per l’Italia si stima che il ritardo nella
fornitura dei vaccini riguarderà almeno 7 milioni di persone –, la Commissione
europea e i governi europei (inclusa l’Italia) non hanno saputo fare di meglio
che minacciare ridicole azioni legali contro le società coinvolte.
Parliamo di
procedimenti che possono impiegare mesi, se non anni, per dare qualche
risultato: tempi assolutamente incompatibili con la necessità di porre fine nel
minor tempo possibile allo stillicidio quotidiano di morti, e impedire che la
pandemia sanitaria si trasformi in una pandemia economica e sociale ancor più
grave.
In questo
contesto, sorprende che nessun governo – in Italia o in altri paesi europei,
che io sappia – abbia pensato di proporre la soluzione più ovvia, a fronte
dell’evidente incapacità delle case farmaceutiche di soddisfare la domanda:
requisire i brevetti vaccinali per consentirne una produzione pubblica su larga
scala per soddisfare la domanda nazionale – nel caso un singolo paese come
l’Italia si muovesse autonomamente – o ancora meglio quella globale.
Si
tratterebbe tra l’altro di una procedura prevista anche dalla stessa
Organizzazione mondiale del commercio (OMC), che all’articolo 31 dei famigerati accordi TRIPs sulla proprietà intellettuale,
prevede che in presenza di crisi sanitarie conclamate come quella che stiamo
attraversando i governi possono autorizzare la produzione locale di un farmaco
con una cosiddetta “licenza obbligatoria” che le case farmaceutiche sono
obbligate a concedere su richiesta.
Una
richiesta di applicazione generalizzata dell’articolo 31 è stata presentata
all’OMC a dicembre da diversi paesi in via di sviluppo – che per ora sono
completamente tagliati fuori dalla campagna vaccinale: il COVAX, «lo strumento
mondiale volto a garantire un accesso equo e universale ai vaccini contro la
COVID-19», per ora è riuscito ad assicurarsi solo 700,000 dosi per i paesi a
basso reddito, a fronte di 6 miliardi di dosi prenotate dai paesi ad alto
reddito attraverso accordi bilaterali con le case farmaceutiche –, ma la
richiesta non è passata per l’opposizione di diversi paesi occidentali: Stati
Uniti ed Unione europea in primis.
In
quell’occasione un portavoce della UE ha persino avuto l’ardire di dichiarare:
«Non ci sono prove che i diritti di proprietà intellettuale ostacolino in alcun
modo l’accesso ai medicinali e alle tecnologie correlati al COVID-19».
Ricordatevelo
la prossima volta che qualcuno vi racconterà che la UE ci ha protetto in questa
pandemia: la verità è che la UE è in prima fila nel mettere i profitti delle
multinazionali davanti alla salute dei cittadini. D’altronde difendere gli
interessi del grande capitale è la sua stessa ragion d’essere, ci si stupirebbe
del contrario.
Alla luce di
ciò, fanno sorridere alcuni appelli e articoli che sono circolati in questi
giorni, in cui si auspica «una nuova cultura sanitaria in chiave europea»,
emancipata dalla logica del profitto e dei brevetti privati. Se la UE è
disposta ad abbandonare a se stesse centinaia di milioni di persone nei paesi a
basso reddito, negandogli il diritto di potersi produrre il vaccino in casa,
figurarsi quanto gliene possa importare del destino di qualche decina di
migliaio di europei a basso reddito.
Come sempre,
vale la regola per cui auspicare “soluzioni globali a problemi globali” è bene,
ma agire autonomamente è meglio. Per questo il governo italiano, se avesse
veramente a cuore la salute dei suoi cittadini, se ne infischierebbe della UE e
del trattato di Lisbona (attraverso il quale ha ceduto alla UE le competenze in
materia di commercio: altra bella c*****a), e si attiverebbe subito per
attivare una procedura di “licenza obbligatoria” per produrre localmente tutti
i vaccini di cui abbiamo bisogno.
Tra l’altro
sarebbe legittimato a farlo anche in base al diritto interno, ai sensi
dell’articolo 141, primo comma, che sancisce che la pubblica amministrazione
può procedere all’espropriazione dei diritti inerenti a tutti i titoli di
proprietà industriale (ad eccezione del marchio) per ragioni di interesse della
difesa militare o di pubblica utilità.
D’altronde,
non fanno che ripeterci che siamo in guerra. Cosa aspettiamo a comportarci di
conseguenza?
(Va da sé
che si tratterebbe di una soluzione emergenziale. La follia sta a monte, cioè
nell’affidare la salute dei cittadini a multinazionali che hanno come unico
faro il profitto. Da questo, in fondo, nasce lo scetticismo di molti cittadini
nei confronti dei vaccini. Gli Stati dovrebbero avere un’industria farmaceutica
pubblica, punto).
Il caso vaccini mostra il fallimento del mercato - Charlotte Bez, Giovanni Tonutti
Il problema principale della più grande campagna
vaccinale della storia non è la distribuzione ma la produzione delle fiale. I
governi si sono fatti carico dei rischi economici ma il sistema del monopolio
dei brevetti non ne garantisce la reperibilità
La scorsa settimana l’Italia e l’Europa tutta hanno ricevuto una doccia
gelata sulla prospettiva di vaccinare l’intera popolazione entro la fine
dell’anno. Le aziende farmaceutiche Pfizer e AstraZeneca hanno infatti
annunciato dei tagli nelle forniture previste ai paesi Ue, fino al 60% nei
prossimi tre mesi. AstraZeneca consegnerà solo 31 delle 80 milioni di dosi
promesse entro la fine di marzo, e non ha ancora formulato un obiettivo di
consegna per il periodo aprile-giugno. Sul vaccino Oxford-AstraZeneca sono
riposte molte delle speranze perché è facile da conservare – a temperatura di
frigorifero, al contrario di -20°C (Moderna) e -70°C (Pfizer-BioNtech) – e con
un prezzo decisamente inferiore rispetto ai competitors (€1,78 a dose, contro i
€18 di Moderna e i €22 di Pfizer-BioNtech). Pfizer-BioNtech, il cui vaccino è
già in distribuzione in Europa, ha annunciato subito problemi di consegna e
ritardi, tanto che in Italia e Germania siamo stati costretti a fermare la
vaccinazione, con il nostro governo che ha già minacciato di intraprendere
azioni legali.
Entrambi i colossi farmaceutici attribuiscono la causa dei ritardi alle
difficoltà incontrate dai due (e unici) stabilimenti industriali che
riforniscono l’intera Europa, entrambi in Belgio, nel far fronte alla domanda
di centinaia di milioni di dosi. Come sostiene l’economista Andrea Roventini
dunque, il problema principale della più grande campagna vaccinale della storia
non sembra essere la distribuzione del vaccino quanto la produzione delle fiale, processo che si sta
rivelando un vero e proprio collo di bottiglia. Nel gridare allo scandalo
minacciando le vie legali, i nostri rappresentanti non dovrebbero indignarsi
rispetto alle ovvie difficoltà di tipo operativo incontrate da due stabilimenti
industriali nel far fronte alla domanda immediata di centinaia di milioni di
vaccini. Il vero scandalo, invece, sta nel fatto che le fiale contenenti quella
che a oggi sembra essere l’unica risposta alla profondissima crisi sanitaria,
economica e sociale in cui versa l’intero continente, vengano prodotte
esclusivamente in due stabilimenti industriali.
Dopo quasi un anno dallo scoppio della pandemia e oltre due milioni di
morti in tutto il mondo, viviamo adesso un paradosso dal sapore amaro: la
tecnologia per l’immunizzazione è stata sviluppata, la domanda c’è (i soldi
stanziati dai governi per le fiale), ma l’offerta è insufficiente (le fiale non
vengono prodotte in tempo). In un futuro libro di testo di economia, la
situazione attuale verrà descritta come caso emblematico di fallimento del
mercato, in cui l’incontro tra domanda e offerta avviene in modo sub-ottimale.
Ci si chiede dunque com’è possibile che di fronte a un fabbisogno immediato e
globale del vaccino la risposta arrivi da soli due stabilimenti produttivi con
una produzione limitata e centralizzata? Per quale motivo non è possibile
adibire la moltitudine di impianti farmaceutici in Europa e nel mondo alla
produzione delle fiale, così da vaccinare il più persone possibili entro un
anno? La risposta a queste domande va cercata nel principio fondante che ha
permesso a industrie farmaceutiche di diventare veri e propri colossi: il
sistema della proprietà intellettuale e dei brevetti.
Il monopolio dei brevetti e la
centralizzazione della produzione dei vaccini
Gli attuali problemi di produzione sono la manifestazione di quello che
l’economista Ugo Pagano aveva definito come il capitalismo monopolistico
intellettuale, un sistema che permette ai detentori di brevetti, per esempio,
di escludere gli altri dall’uso della loro proprietà intellettuale, evitando
così la concorrenza. Quali sono le conseguenze? Una riduzione dell’offerta
competitiva, aumento dei prezzi e abbassamento del welfare economico
a causa dell’uso socialmente inefficiente della conoscenza.
Con l’obiettivo di immunizzare miliardi di persone in pochi mesi sarebbe
auspicabile poter contare su una catena di fornitura delle fiale il quanto più
localizzata possibile. Ciò significa minimizzare la distanza tra la produzione
e distribuzione del vaccino, decentralizzando gli impianti farmaceutici per la
fornitura delle fiale. Questa prospettiva è però in netto contrasto con i
principi fondanti del modello Big Pharma, ovvero la massimizzazione dei
profitti attraverso l’applicazione dei brevetti e della proprietà
intellettuale. Dal momento che le royalties per i vaccini
anti-Covid sono relativamente basse, le compagnie farmaceutiche hanno pochi
incentivi di mercato per esternalizzare la propria produzione attraverso
accordi con i concorrenti, o per iniziare a impegnarsi in un serio
trasferimento di conoscenze e diritti di proprietà intellettuale, in modo che
stabilimenti farmaceutici di tutto il mondo possano produrre vaccini. Ci si
ritrova quindi, come nel caso dell’Europa, con due soli stabilimenti
industriali addetti alla produzione di fiale per l’intero continente. In
quest’ottica, l’industria farmaceutica incarna perfettamente due delle
caratteristiche principali del capitalismo del XXI secolo, ovvero la
finanziarizzazione e il potere monopolistico da un lato, e la centralità
dell’economia della conoscenza dall’altro, che pone la massima importanza sul
ruolo delle cosiddette risorse intangibili.
Non è sorprendente dunque, ma comunque difficile da accettare, che solo
Moderna abbia dichiarato che non applicherà temporaneamente i brevetti relativi
al vaccino per il Covid, mentre nessun detentore di diritti sui vaccini si è
impegnato a condividere apertamente i suoi brevetti, dati e know-how.
Pfizer, infatti, ha dichiarato che farà valere la sua proprietà intellettuale e
ha sostenuto il proprio diritto a trarre profitto dai suoi investimenti nei
trattamenti contro il Covid. Gli stessi governi occidentali (Stati uniti,
Unione europea e il Regno Unito) hanno inoltre bloccato una proposta
all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) da parte di un blocco di paesi
in via di sviluppo per sospendere temporaneamente l’applicazione della
proprietà intellettuale e dei segreti commerciali al fine di accelerare lo
sviluppo e la distribuzione dei vaccini anti-Covid, soprattutto nei paesi a
basso reddito. La proposta, presentata dall’India e dal Sudafrica in ottobre, e
firmata da un totale di 100 paesi, chiedeva all’Omc di esentare i paesi membri
dall’applicazione di alcuni brevetti, segreti commerciali o monopoli
farmaceutici secondo l’accordo dell’organizzazione sui diritti di proprietà
intellettuale legati al commercio. Ciò avrebbe permesso a paesi come l’India,
con una grandissima presenza di industrie chimiche e farmaceutiche, di produrre
i vaccini e di immunizzare in tempi rapidi e a basso costo l’intera
popolazione.
Innovazione pubblica, profitti privati
Gli interessi Big Pharma non si sono fatti attendere nel cercare di
legittimare il sistema di brevetti, sostenendo che la perdita della protezione
della proprietà intellettuale minerebbe gli incentivi per le aziende di
impegnarsi nella ricerca e sviluppo. Anche la stampa conservatrice si è
lanciata in difesa dello status quo. Il quotidiano inglese conservatore The Telegraph ha commentato la
sbalorditiva rapidità di sviluppo del vaccino anti-Covid sostenendo che «un
mercato competitivo per i vaccini anti-Covid dimostra che il capitalismo vince
sempre».
Entrambi gli argomenti ignorano il fatto che lo sviluppo di questi vaccini
è in gran parte un prodotto dello stato, nel suo ruolo di stato innovatore (come teorizzato da Mariana
Mazzucato), essendo frutto di una delle più grandi sovvenzioni di denaro
pubblico alle imprese private nella storia del capitalismo. La start-up
BioNTech ha ricevuto 375 milioni di euro dal governo tedesco e altri 100
milioni dalla Banca europea per gli investimenti. Il vaccino, sviluppato in
collaborazione con Pfizer, avrà un prezzo di 39 dollari per un trattamento di 2
dosi, mentre i costi di produzione ammontano a 15 dollari. Le vendite globali
dovrebbero ammontare a 13 miliardi di dollari con il loro vaccino, di cui il
50% andrà a BioNTech. Moderna ha ricevuto quasi 1 miliardo dollari dal governo
americano per il finanziamento della ricerca, AstraZeneca 900 milioni e Sanofi
1,5 miliardi. Pfizer ha ricevuto quasi 2 miliardi di dollari dal governo
americano in accordo di acquisto anticipato, l’equivalente dell’acquisto di 100
milioni di dosi di vaccino garantite dallo stato, prima che i risultati degli studi
clinici fossero noti, fornendo così un esempio di assorbimento del rischio da
parte del governo. L’Unione europea ha aggiunto altri 4 miliardi di dollari di
impegno di acquisto. Se anche queste somme risultano inferiori a quelle poi
sborsate da investitori privati per lo sviluppo dei vaccini, hanno comunque
avuto il ruolo fondamentale di favorire questi investimenti, abbassando il
rischio per gli investitori con i soldi pubblici.
Si è di fronte quindi a un modello in cui i governi si sono fatti carico dei
rischi relativi allo sviluppo dei vaccini, per poi trovarsi di fronte
all’irreperibilità delle fiale frutto del sistema di brevetti e proprietà
intellettuale, su un bene che hanno contribuito a sviluppare. Questa vicenda
sottolinea come da un lato ingenti investimenti pubblici nella ricerca e
tecnologia diano risultati formidabili in termini di sviluppi innovativi,
dall’altro, come la produzione e commercializzazione di un bene fondamentale
lasciata nella sfera di un sistema capitalistico e monopolistico non possa far
fronte all’emergenza in cui il mondo versa. I vaccini sono stati sviluppati con i soldi pubblici e pubblici devono
rimanere. Il ritardo nella produzione e distribuzione dei vaccini rappresenta un
sacrificio di vite umane per proteggere gli interessi miliardari delle aziende
Big Pharma.
La pandemia e la crisi del capitalismo
I politici europei si stanno gioco-forza scontrando con la realtà dei fatti,
realizzando che il modello di produzione e distribuzione attualmente in campo
non può garantire l’obiettivo di immunizzare l’intera popolazione entro i tempi
inizialmente previsti. Salvo una mozione presentata all’assemblea parlamentare del Consiglio
d’Europa da parte di 38 eurodeputati, le risposte rispetto a questo problema
sembrano però mancare il nocciolo della questione. Da un lato, governi come
l’Italia e la Polonia minacciano le vie giudiziarie, come se una causa legale
potesse in qualche modo risolvere i problemi operativi della produzione delle
fiale. Dall’altro, la Germania e la Commissione europea hanno avanzato la
proposta di bloccare l’export di vaccini prodotti all’interno dell’Ue (in
uscita verso il Regno Unito), spostando la dialettica su un campo nazionalistico invece che sui rapporti tra pubblico
e privato. Dalla Francia arrivano timidi segnali di un tentativo di rottura
della produzione monopolistica e centralizzata dei vaccini. Il gruppo Sanofi,
sotto pressione da parte del governo francese che controlla il 16% delle azioni
dell’azienda, si è reso disponibile a produrre a partire dall’estate il vaccino
Pfizer-BioNtech nel suo stabilimento di Francoforte. Nel nostro paese,
purtroppo, la questione viene inserita in una sterile polemica sull’operato dei
commissari pubblici nella gestione della pandemia, perdendo ancora una volta
l’occasione di introdurre nel dibattito pubblico questioni fondamentali
rispetto all’assetto del nostro sistema produttivo.
Ancora una volta, la pandemia ha messo a nudo le inefficienze e
inadeguatezze del sistema economico capitalistico nel far fronte ai bisogni
fondamentali della nostra società. I problemi emersi nella produzione di
vaccini in Europa sono solo l’ultima manifestazione di tale inadeguatezza. A
inizio emergenza, la domanda di materiale protettivo come mascherine e camici
si è scontrata contro la mancanza di manifatture in grado di produrre questi
beni, perché considerati di basso valore economico. Il processo di
digitalizzazione delle attività lavorative e scolastiche, necessario a causa
del distanziamento sociale, ha visto intere aree del nostro paese sprovviste di
connessione alla rete, perché non costituiscono un’utenza sufficiente a
garantire il profitto delle aziende private di telecomunicazioni. Questi sono
solo alcuni degli esempi di come il paradigma del mercato libero e della legge
del profitto abbiano fallito nel dare risposte adeguate alle esigenze emerse
nella crisi sanitaria.
Di fronte a tale fallimento, è venuto il momento di aprire un dibattito
serio e condiviso che metta in luce le criticità dell’attuale sistema economico
e produttivo. Se è vero che la pandemia ha rimarcato la centralità delle
istituzioni pubbliche nel far fronte ai bisogni della società, è allora
necessario che chi le rappresenta si impegni nell’affrontare seriamente le
cause di questa crisi sistemica, a partire dal ridefinire gli equilibri tra
interessi pubblici e privati. È venuto il momento di dare ascolto a visioni
alternative rispetto al dominio incontrastato di grandi interessi economici di
attori privati, contrastando a parole e a fatti la diffusa percezione di
ineluttabilità dello status quo. Le proposte per riequilibrare il rapporto tra
pubblico e privato nella nostra economia non mancano e giungono dalle campagne
di movimenti sociali e ambientalisti, dalle lotte intersezionali, e dalle
numerose voci di accademici e studiosi che ormai da anni immaginano una realtà
in grado di superare l’insostenibilità ambientale, economica e sociale del
paradigma capitalista.
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