“L’Italia è in guerra. Ha un comando e degli alleati. L’attende, non si sa quando, un dopoguerra molto difficile, dato che era entrata in guerra già in condizioni di debolezza cronica. (..) oggi vi sono ragioni eccezionali per non curarsi troppo dell’aumento del debito, ma presto verrà reintrodotta una disciplina di disavanzi e debiti pubblici, e noi più di altri arriveremo a quell’appuntamento dopo l’impennata di questi anni; inoltre, la «revisione strategica» della politica della Bce, che Christine Lagarde ha avviato, difficilmente permetterà di fare affidamento a lungo sulla possibilità di finanziare a costo zero il disavanzo italiano”.
Sono le parole con le quali, non più tardi di due settimane fa, il senatore
Monti, fratello gemello per via paterna – Goldman Sachs – del neo incaricato
Mario Draghi, esprimeva una stiracchiata fiducia all’allora presidente del
Consiglio, Giuseppe Conte.
Più che una dichiarazione di fiducia, le parole di Monti sono sembrate un
viatico all’avvicendamento, che da ieri è divenuto realtà con l’incarico a
Mario Draghi a formare un governo, e la conferma di come ad ogni crisi
corrisponda un commissariamento della politica e della democrazia (così fu con
Ciampi dopo tangentopoli e con lo stesso Monti dopo la crisi finanziaria del
decennio scorso).
L’obiettivo è un governo di “salute pubblica”, che, in un Paese immerso
nella pandemia e con un piano vaccinale che procede alla “lasciate ogni
Speranza o voi che entrate”, appare un vero e proprio ossimoro.
Arriva dunque Supermario a mettere finalmente ordine in
palazzi istituzionali dove è bastato un piccolo narciso a far saltare le
magnifiche sorti e progressive di un governo e del suo Recovery Plan che
si poneva nientepopodimeno che l’obiettivo di un “nuovo Rinascimento italiano”.
E arriva con le forze politiche pronte a far da damigelle trasversali e un
coro di luoghi comuni a tributarne il passaggio: “Ha salvato l’Europa, è l’uomo
giusto per l’Italia”, “Finalmente qualcuno che saprà come spendere i soldi del
Next Generation Ue”, “Adesso in Europa andremo a testa alta”, “Basta con
la burocrazia, ecco uno che decide” e via cantando.
La narrazione mainstream racconta l’arrivo di Mario Draghi
come l’avvento della competenza a fronte dell’improvvisazione, della capacità
strategica di fronte al vivacchiare alla giornata, dell’autorevolezza contro
l’irrilevanza. Ammessa la parte di vero di queste qualità, niente essendo
neutro, occorre forse capire al servizio di cosa verranno spese.
Per rispondere al quesito, forse aiuta fare alcuni passi indietro nella
biografia politica ed economica del grande devoto di S. Ignazio di Loyola.
a) la festa alla Res publica
“Il Maestro della Casa Reale ha avuto l’ordine dalla Regina di invitarla a
bordo del Britannia, lo Yacht di Sua Maestà” fu questo l’aulico invito con il
quale, il 2 giugno 1992, banchieri italiani, boiardi e grand commis di
Stato salirono a bordo del panfilo più blasonato del mondo, che, in viaggio per
Malta, fece una sosta al porto di Civitavecchia. A bordo non cavalieri e
dame, ma finanzieri della società “British Invisibles”, una sorta di
Confindustria delle imprese finanziarie. L’oggetto dell’incontro era
l’imminente avvio del capitolo delle privatizzazioni in Italia e fra i
partecipanti, il cui elenco preciso non si è mai saputo con certezza, non è mai
stata messa in dubbio la presenza di Mario Draghi, divenuto l’anno prima
Direttore Generale del Ministero del Tesoro.
Il 2 giugno del 1992 era festa della Repubblica, ma quel giorno ciò a cui
si diede avvio fu la festa alla Res publica che attraversò
l’intero decennio, certificata con queste parole nel Libro Bianco sulle
privatizzazioni, curato nel 2001 dal Dipartimento del Tesoro: “Questo
‘Libro Bianco’ sulle Privatizzazioni vede la luce al termine di una legislatura
nel corso della quale tutti gli obiettivi di dismissioni che erano stati
stabiliti sono stati raggiunti e superati. La legislatura si conclude, infatti,
con la pressoché totale fuoruscita dello Stato dalla maggior parte dei settori
imprenditoriali dei quali, per oltre mezzo secolo, era stato, nel bene e nel
male, titolare.”
Il 2001 è anche l’anno del passaggio di Mario Draghi dalla Direzione
Generale del Ministero del Tesoro a Vice Chairman e Managing Director di
Goldman Sachs (una delle più grandi banche d’affari del mondo) per guidarne le
strategie europee.
b) la parentesi greca
Mario Draghi rimase alla Goldman Sachs fino al 2005, in quella che per lui
fu una breve parentesi, ma per la popolazione greca fu l’inizio dell’incubo. Fu
infatti alla Goldman Sachs che si rivolse nel 2001 l’allora governo greco, che
aveva la stretta necessità di ridurre i parametri del debito pubblico per poter
entrare nell’Unione europea. L’aiuto consistette in un contratto finanziario
derivato che permise al governo greco di occultare 2,8 miliardi dal bilancio,
la cifra necessaria per mostrare i conti in ordine. Per finanziare il primo
swap, la Grecia ne sottoscrisse con Goldman Sachs un secondo, che in breve
tempo, complici le turbolenze finanziarie successive all’attentato alle Torri
Gemelle, fece esplodere i conti e diede l’avvio alla crisi greca che ormai
tutti conosciamo. Sebbene non sia stato Mario Draghi in persona a condurre
queste operazioni, difficile credere che siano avvenute a sua insaputa.
c) caro amico ti scrivo
Dal 2005 al 2011, il nostro diventa Governatore della Banca d’Italia e
chiude il suo mandato con l’ormai celebre lettera, inviata da lui e dall’allora
presidente della Banca Centrale Europea al governo italiano, dando il via alla
costruzione artificiale della trappola del debito. Nella lettera si chiedono
esplicitamente:
1.
la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi
professionali, in particolare nella fornitura di servizi locali attraverso
privatizzazioni su larga scala (erano passati solo due mesi dal vittorioso
referendum per l’acqua pubblica);
2.
la riforma dei contratti di lavoro per rendere i contratti aziendali “più
rilevanti” rispetto a quelli nazionali; la riforma dei licenziamenti
accompagnata da un sistema di assicurazione sulla disoccupazione e di
ricollocamento al lavoro;
3.
l’anticipo sul conseguimento del pareggio di bilancio “principalmente
attraverso tagli di spesa”, in particolare sulle pensioni e sul pubblico
impiego, se necessario riducendo gli stipendi; l’introduzione di una “clausola
di riduzione automatica del deficit”; la messa “sotto stretto controllo”
dell’indebitamento delle Regioni e degli enti locali anche con “una riforma
costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio”.
4.
la riforma in senso aziendalista e privatistico dell’amministrazione
pubblica.
d) whatever it takes
“Tutto ciò che serve” fu il motto che ha reso famoso Mario Draghi nel
ruolo di Presidente della Banca Centrale Europa, ricoperto dal 2011 al 2019.
Una politica monetaria basata su massicce iniezioni di liquidità finanziaria
sui mercati, da tutti salutata come la salvezza dell’Europa.
Ma fu vera gloria? Non si direbbe. Perché, se, da una parte, la Bce ha
messo una pezza per salvare i bilanci delle banche europee pieni di titoli
tossici (concentrati per il 75% negli istituti di Francia e Germania) e di
crediti deteriorati, e per non far crollare del tutto le economie di Paesi in
difficoltà dall’altra, non ha raggiunto l’obiettivo dichiarato di far
uscire l’eurozona dalla crisi. L’idea di immettere denaro nelle riserve bancarie,
al fine di incentivare le banche a concedere prestiti a famiglie e imprese ha
continuato ad essere l’illusione degli economisti mainstream: i
dati del Quantitave Easing segnalano il fallimento del
progetto: i prestiti alle famiglie sono aumentati meno dell’1%, mentre non più
del 27% dell’espansione del bilancio della Bce si è tradotto in prestiti
all’economia reale.
Ma un’altra sua storica frase del medesimo periodo andrebbe ricordata “i
mercati non temono le elezioni, le riforme hanno il pilota automatico”. Con
l’attuale incarico a Draghi potremmo così declinarla “i mercati non temono le
elezioni, nel caso prendono il governo direttamente”.
Perché Mario Draghi ora
Visto il curriculum, dovrebbe essere ora più chiaro il perché dell’incarico
a Mario Draghi. La pandemia ha aperto faglie gigantesche nella narrazione
liberista, costringendo a sospendere in una notte la trappola del debito e i
vincoli finanziari, attraverso i quali si è costruita per decenni la gabbia
dell’austerità e delle privatizzazioni.
Non solo: ha reso evidente come una società fondata sul mercato non sia in
grado di garantire protezione ad alcuno e come sia sempre più urgente e
necessario uscire dall’economia del profitto per costruire un’alternativa di
società fondata sul prendersi cura, sulla conversione ecologica della
produzione, sui beni comuni, su garanzie di reddito e diritti per tutti, su una
nuova democrazia partecipativa.
Sirene il cui canto può risvegliare una società frammentata, scientemente
costretta a vivere nella solitudine competitiva, e produrre il terremoto della
solidarietà e della cooperazione.
La possibilità di fare investimenti, straordinariamente concessa data
l’enormità dell’emergenza, non deve produrre aspettative che facciano da
detonatore a mobilitazioni sociali e a rivendicazioni di cambiamento sociale.
Dopo aver cantato le lodi di un’ Unione europea che apre i cordoni della
borsa in soccorso dei suoi abitanti, è giunto il tempo che siano chiare a tutti
almeno due cose: “il pasto non è gratis” e per averlo dovete fare le riforme (as
usual); “la ricreazione è finita” e viene il tempo di far propria la
filosofia morale di un altro emerito professore, Padoa Schioppa: “Le riforme
devono essere guidate da un unico principio: attenuare quel diaframma di
protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente
allontanato l’ individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i
rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità“.
“Meno male che la gente non capisce il nostro sistema bancario e
finanziario, perché se lo capisse, credo che prima di domani scoppierebbe una
rivoluzione” disse l’industriale Henry Ford.
É passato un secolo da allora, è giunto il momento di capire e di agire.
E di farlo tutt* insieme.
Paolo Ferrero su Draghi:
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