Gli zapatisti sbarcano in Europa: cosa dobbiamo aspettarci - Riccardo Bottazzo
Che poi,
il subcomandante insurgente Marcos ce lo aveva sempre detto,
no? Ce l’aveva ben chiaro in testa, il sub, sotto quel suo
passamontagna nero e quel suo cappello alla cubana. Ce l’aveva chiaro in testa
sin da quella volta che si era affacciato dal municipio occupato di San
Cristobal De Las Casas, per gradare “Ya basta”. Per urlare a tutto il
Messico che i popoli indigeni ne avevano abbastanza di sfruttamento e
umiliazioni. Per annunciare a tutti i potenti della terra che, se la scelta era
tra morire di fame in una baraccopoli o morire combattendo, loro, i
tzotzil, i tzeltal e tutti gli altri popoli nativi del Chiapas, avrebbero
scelto di morire combattendo.
Era l’alba
del 1 gennaio del 1994 e il mondo assistenza stupefatto all’inaspettata e
determinata rivolta degli indigeni del Chiapas. Ma Marcos sapeva bene che la
rivolta partorita tra le fitte boscaglie tropicali della selva Lacandona, nella
selva Lacandona sarebbe anche morta se i popoli indigeni non avessero saputo
creare nuove categorie di pensiero e dipingere con i colori dell’immaginazione
e del coraggio quell’otro mundo posible capace di rovesciare
la narrazione storica di violenza e conquista cominciata con l’arrivo di Hernán
Cortés.
Per quanto
determinata, la rivoluzione zapatista sarebbe nata e morta come tante altre
rivoluzioni, se gli insorti del Chiapas non avessero saputo spiegare a tutto il
pianeta terra che la “quarta guerra mondiale” intrapresa dal capitalismo, con
le sue logiche di mercificazione di beni comuni, non ha come vittime solo gli
ultimi della terra, i popoli indigeni, ma l’intera umanità. Perché siamo
tutti indigeni della terra. Il Chiapas, lo sapeva bene Marcos, si salva
solo se cambia il Messico. E il Messico cambia solo se cambiano gli Stati
Uniti, se cambia l’Europa. Se cambia il pianeta Terra.
Vista da
questa prospettiva, c’era da aspettarselo che, prima o poi, gli indigeni
ribelli sarebbero sbarcati in Europa, ripercorrendo al contrario – tanto nello
spazio geografico che in quello dell’utopia – quelle rotte che nel ‘500 furono
percorse dalle caravelle in armi dei conquistadores. Degli
invasori.
E se è vero
che c’era da aspettarselo, è anche vero che nessuno se lo aspettava, qui, nel
Vecchio Continente. Soprattutto in momenti come questi in cui la nostra massima
preoccupazione è il colore della nostra Regione. Anche i cambiamento climatici,
vera emergenza del pianeta, sono passati nell’agenda di domani o di chissà
quando. Ma loro, gli zapatisti, sono fatti così. Maestri nel rovesciare
le logiche comuni, artisti nel costruire narrazioni rivoluzionarie,
imprevedibili nel gettare anima e corazón oltre gli ostacoli.
Rivoluzionari sempre e comunque.
Puoi
credere, o anche vantarti, di conoscerli bene, perché hai fatto sette viaggi nei loro caracoles,
ma stai sicuro che loro riusciranno comunque a stupirti, rilanciando la posta
quando tu pensi di stare per perdere, ed alzando sempre un po’ più su di
qualche tacca l’asticella del conflitto sociale, prima di saltarci sopra a la
testa in avanti.
Gli zapatisti sbarcano in Europa
E così è
stato con quei sei comunicati firmati da Moisés, il subcomandante insurgente
succeduto a Marcos, in cui veniva annunciato che, questa estate, l’Ezln (Ejército
Zapatista de Liberación Nacional) sarebbe sbarcato in Europa. Il primo
comunicato è stato lanciato nel 27esimo anniversario della ribellione, il primo
gennaio 2021, il sesto nell’ottobre del 2020. Come dite? No, le date le ho
scritte giuste. I compas hanno cominciato dall’ultimo e han finito
col primo. Marcos, o quell’altro tizio di Nazareth, adesso non ricordo, ha
sempre detto che “i primi saranno gli ultimi” e che “saranno los de
abajo ad ereditare la terra”. Come dite adesso? Ho fatto confusioni
con le citazioni? Va bene, scusate tanto ma non statemi sempre a criticare!
Fatto sta
che una delegazione dell’Ezln sta già facendo i bagagli per saltare al di qua
dell’oceano. Ho scritto “delegazione” ma si tratta di un mezzo battaglione:
160 insurgentes, tra uomini e donne. Il variegato arcipelago dei
movimenti sociali e ambientali di tutta Europa, Fridays For Future in
testa, è saltato in ebollizione sin dal primo, scusate, dall’ultimo comunicato
in cui Moisés annunciavano l’avventura. Avventura loro ma anche nostra! Vi
lascio immaginare il casino organizzativo tra le centinaia di organizzazioni di
sostegno alla rivoluzione zapatista attive in tutta Europa per preparare
l’accoglienza! Anche perché i compas del Chiapas sono fatti a
modo loro e non è facile gestirli per una mentalità europea. Volete un esempio?
Alla domanda “Cosa volete fare in Europa?” hanno risposto: “Cosa volete che
facciamo in Europa?” Ve l’avevo detto o no, che sono maestri nello spiazzare
l’interlocutore ribaltandogli il ragionamento? Se poi considerate che metà di
loro non è mai uscita dal Chiapas e l’altra metà non ha mai messo il naso fuori
della selva Lacandona, potete immaginare quando ci sarà di divertirsi
nell’accompagnarli per le nostre città!
Il “tour”
Adesso come
adesso, le certezze sul loro viaggio sono poche: arriveranno in Europa ai primi
di luglio e si divideranno in varie delegazioni. Per prima cosa saliranno a
nord per incontrare i movimenti ambientalisti dei paesi scandinavi (e
vi dico già che gli zapatisti ad Helsinki io non me li voglio perdere per nulla
al mondo). Poi scenderanno nel Mediterraneo dove percorreranno, via
nave, le rotte migranti. Il 20 luglio, saranno a Genova, che è anche la
città di Cristoforo Colombo, per commemorare la morte di Carlo Giuliani.
Il 13 agosto, giorno in cui gli invasori spagnoli rasero al suolo Tenochtitlán,
sfileranno a Madrid per ribadire che i popoli indigeni saranno anche stati
conquistati ma non sono mai stati sconfitti. La delegazione rimarrà nel Vecchio
Continente perlomeno sino al 12 ottobre per la manifestazione conclusiva. E non
voglio offendere le vostre competenze storiche ricordandovi cosa successe in
quel giorno, in una spiaggia dell’isola di San Salvador, nell’anno del signore
1492. Il resto dell’avventura zapatista in Europa è tutto da costruire e da
miracolare.
Ed un
miracolo, col loro arrivo, ce lo hanno già regalato, gli zapatisti. Sono
riusciti a riunire in un unico tavolo – e scrivo “tavolo” per dire decine
di google groups, centinaia di riunioni video e un numero
spropositato di chat WhatsApp e Telegram – tutto quel variegato arcipelago
ambientalista e movimentista che, nel nostro Paese come nel resto d’Europa, è
sempre stato più portato per le divisioni ed i litigi che per far fronte
comune. E siccome lo sanno anche loro, gli zapatisti, come gira la
“rivoluzione” alle nostre latitudini, hanno preferito chiarire la questione sin
dal primo, che poi è l’ultimo, proclama.
“Ci
differenziano e ci allontanano terre, cieli, montagne, valli, steppe, giungle,
deserti, oceani, laghi, fiumi, torrenti, lagune, razze, culture, lingue,
storie, età, geografie, identità sessuali e non, radici, confini, forme di
organizzazione, classi sociali, potere d’acquisto, prestigio sociale, fama,
popolarità, seguaci, likes, valute, grado di scolarizzazione, modi di essere,
mestieri, virtù, difetti, pro, contro, ma, eppure, rivalità, inimicizie,
concezioni, argomentazioni, contro argomentazioni, dibattiti, controversie,
denunce, accuse, disprezzo, fobie, filiazioni, elogi, ripudi, fischi, applausi,
divinità, demoni, dogmi, eresie, simpatie, antipatie, modi, e un lungo eccetera
che ci rende diversi e, non di rado, contrari.
Solo una
cosa ci unisce: che facciamo nostri i dolori della terra”. Traduzione for
dummies o per chi, al contrario degli zapatisti, apprezza il dono
della sintesi: “Vedete di non rompere troppo le scatole che c’è un bel po’ di
lavoro da sbrigare”.
E di
lavoro da sbrigare ce n’è parecchio per salvare questa nostra casa che sta
bruciando. I cambiamenti climatici, ultimo atto della guerra che il
capitalismo ha mosso al vivente, hanno scombinato le carte in tavola. Oggi, un
radicale rovesciamento di valori nella società e nell’economia è ancora più
urgente rispetto ai giorni eroici di quel “Ya basta” lanciato da un balcone
sullo zocalo di San Cristobal.
Se, soltanto
27 anni fa, erano principalmente i popoli indigeni a dover lottare per il
diritto di sopravvivere nella loro terra, oggi tocca all’intera umanità
mobilitarsi per un definitivo cambiamento di rotta capace di chiudere per
sempre i rubinetti delle multinazionali del fossile da cui si nutre il
capitalismo. L’unica cosa da fare è darsi da fare, prima che sia troppo tardi.
E, naturalmente, Que Viva Zapata!
Post scriptum: Greta y Marcos?
Ho scritto
questo articolo tutto d’un fiato e solo ora che sono arrivato alla fine mi
rendo conto di non aver risposto ad una domanda che, ne sono sicuro, avrebbero
voluto farmi coloro che hanno avuto la pazienza di leggermi. “Nella delegazione
zapatista che sbarcherà in Europa ci sarà anche lui? Marcos o, come si chiama
adesso, il comandante Galeano?”
Vi confesso
che non ho avuto il coraggio di chiederlo agli zapatisti. Anche perché so bene
cosa mi avrebbero risposto. “Ma come? Son 27 anni che giriamo col
passamontagna proprio per rimarcare che siamo tutti uguali e tu ci fai
questa domanda? Sarai anche venuto sette volte nei nostri caracoles ma
non hai imparato proprio niente!” E ci avrebbero pure ragione! Ma io che sono
un’anima semplice non posso fare a meno di sognare che, da qualche parte in
Svezia, Marcos e Greta si incontreranno per parlare di come spegnere l’incendio
che sta devastando la terra-madre-casa dell’umanità. E sono anche convinto che
Marcos-Galeano scenderà in Italia. C’è una leggenda a proposito. Leggenda nel
senso che la racconta lo stesso Marcos che, per l’appunto, è leggenda. Quando
partì per il Chiapas a fare la rivoluzione, Marcos salutò sua madre avvisandola
di non aspettarlo a cena per un po’ di tempo perché sarebbe andato all’estero.
Alla domanda “Ma si può sapere dove vai?”, il sub, che non voleva
darle preoccupazioni, rispose: “In Italia, a fare la televisione”. Che vi devo
dire? Io lo aspetto già nella mia Venezia! In fondo, prima o poi, passano tutti
per piazza San… Marco.
La scommessa zapatista - Christian Peverieri
L’alba del nuovo anno di ventisette anni fa ci sorprese con una notizia
incredibile. Ancora frastornati dai festeggiamenti, ci svegliammo con le
immagini provenienti da San Cristóbal de las Casas, nello stato più povero del
Messico, il Chiapas, dove piccoli uomini di mais che non conoscevamo, che non
esistevano, si erano sollevati in armi contro i potenti della terra, con pochi
fucili, qualche bastone e machete e con molte parole. Dissero di essere
indigeni zapatisti, orgogliosi discendenti delle popolazioni maya e fieri
prosecutori dell’opera rivoluzionaria di Emiliano Zapata. Al grido di “democracia,
justicia, libertad”, dopo dieci lunghi anni di preparazione nella
clandestinità, uscivano allo scoperto, coi volti coperti da passamontagna per
farsi vedere, dichiarando guerra all’oblio e allo sfruttamento a cui erano
stati costretti e incatenati dalla conquista spagnola in avanti.
La storia di quei giorni epici e degli anni successivi, ormai la conosciamo
bene grazie ai libri, ai saggi, agli articoli che ne hanno raccontato le gesta,
ma soprattutto grazie ai comunicati che lo stesso movimento zapatista ha reso
pubblici, prima a firma del fu Subcomandante Marcos e, in tempi più recenti, a
firma dei Subcomandanti Moisés e Galeano, ma sempre comunque espressione della
volontà comunitaria. Di questa incredibile storia di rabbia degna da un po’ di
tempo non se ne parla più con lo stupore e l’ammirazione che invece
meriterebbe. Negli ultimi anni c’è stato chi ha detto che gli zapatisti non
esistono più, qualcun altro che si sono venduti, altri ancora che nei loro
territori stanno peggio di 27 anni fa, altri infine che questo movimento è
stato solo un’illusione.
Noi che da più di cinque lustri camminiamo domandando assieme a loro,
sappiamo bene che non è così. Conosciamo bene l’incredibile capacità di questi
piccoli uomini di mais di resistere a repressione e guerra a bassa intensità –
che mai hanno abbandonato quelle terre – e di rispondere colpo su colpo ai
potenti del malgoverno, siano essi “capataz” violenti e criminali o
siano essi “capataz” più moderati ma non per questo meno pericolosi.
Conosciamo bene la capacità di tradurre in fatti concreti quanto proclamato nei
loro comunicati. Conosciamo bene tutto questo perché quelle terre assediate ma
libere dove gli zapatisti hanno costruito autonomia, giustizia e dignità, le
abbiamo calpestate infangandoci gli stivali, condividendo pozol e café
de olla, huevos e sopitas, sogni e utopie. Con umiltà ci siamo messi
in ascolto, abbiamo imparato a camminare domandando, osservato e accompagnato
la crescita di un movimento guerrigliero capace di sorprendere tutti, capace di
disinteressarsi al Palazzo d’Inverno e di costruire realmente altro potere:
quello delle comunità per le comunità che insieme si auto sostengono e costruiscono
il proprio futuro senza servi né padroni.
Qualche anno fa, durante un festival internazionale l’allora tenente
colonnello Moisés e il fu Subcomandante Marcos spiegarono che «la concezione
iniziale dell’EZLN era quella tradizionale dei movimenti di liberazione
dell’America Latina: un piccolo gruppo di illuminati che si alza in armi contro
il governo. Successe però che questo progetto fu sconfitto quando ci
confrontammo con le comunità e ci rendemmo conto non solo che non ci capivano
ma che la loro proposta era migliore. Non stavamo insegnando a nessuno a
resistere. Ci stavamo convertendo in alunni di questa scuola di resistenza di
chi lo faceva da cinque secoli. Da un movimento che pianificava di servirsi
delle masse, dei proletari, dei contadini, degli studenti, per arrivare al
potere e dirigerlo, ci stavamo convertendo, gradualmente, in un esercito che
doveva servire le comunità».
Oggi, grazie a questa visione, il movimento zapatista è più forte e
organizzato che mai. L’esercito, già molti anni fa, ha saputo mettersi da parte
e servire le comunità garantendone esclusivamente la sicurezza, mentre le
generazioni successive ai primi “insurgentes” hanno preso in
mano la gestione dei territori ribelli e autonomi e sono coloro che
concretamente amministrano le comunità stesse, dalla salute all’educazione,
dalla giustizia al lavoro comunitario, dimostrando che questo movimento ha un
futuro lungo e prospero davanti a sé e che non sarà il nuovo accerchiamento
militare promosso dal presidente progressista López Obrador, a porre fine a
questa esperienza radicata e radicale.
Giovani, giovanissimi, molti dei quali nati dopo il 1° gennaio 1994,
tutti cresciuti en rebeldìa, oggi sono dunque “promotori di
salute”, “promotori di educazione” o membri delle Juntas del Buen Gobierno.
Sono loro, in maggioranza mujeres rebeldes, che la prossima
primavera attraverseranno il “grande charco” per arrivare fin
qui, nel vecchio continente, per “incontrare ciò che ci rende uguali” ai
tanti e alle tante che in questa geografia lottano contro il sistema
capitalista. Perché, come annunciato nel comunicato di lancio di questa
avventura, “Una montagna in alto mare”, «bisogna riprendere le strade, sì, ma
per lottare. Perché, come abbiamo detto prima, la vita, la lotta per la vita,
non è una questione individuale, ma collettiva. Ora si vede che non è neppure
una questione di nazionalità, è mondiale».
Senza dubbio per realizzare questa nuova impresa sarà necessario superare
molti ostacoli, burocratici, economici e logistici, ma la scommessa zapatista,
è qualcosa di più del “vediamo se riusciamo ad arrivare in Europa”. È una
scommessa che parla di rete di relazioni, di intrecciare resistenze e
ribellioni anticapitaliste, antirazziste e antipatriarcali. È una scommessa che
parla al cuore di chi non si rassegna a veder precipitare il nostro mondo verso
l’abisso, a chi crede, come dicono gli zapatisti, che vivere significhi
lottare. È una scommessa che ha già trovato pronti moltissimi collettivi,
organizzazioni e singoli italiani ed europei che in queste ultime settimane si
sono attivati e incontrati virtualmente per accogliere la delegazione
zapatista. Una scommessa che spetta anche a noi tutte e tutti far diventare
realtà facendo diventare l’arrivo degli zapatisti il motore di nuove
resistenze, di nuove ribellioni e di nuovi mondi.
L’alba di un nuovo anno sta arrivando. Un anno che sarà migliore di quello
precedente solo se lo affronteremo vivendo, vale a dire lottando. Ora è tempo
di celebrare un nuovo anniversario del “levantamiento” con
l’emozione con cui si guarda sempre ai ricordi del passato, ma con lo sguardo e
i cuori rivolti al futuro, a quel futuro che vogliamo fortissimamente costruire
insieme la prossima estate. La scommessa è lanciata. Chi accetta la sfida?
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