Let me die in my footsteps – lasciatemi morire sui miei passi – è un testo di Bob
Dylan, giovanissimo allora; è molto semplice ed essenziale, mi frullava in
mente ieri mentre camminavo, dopo ore, nella nuvola della montagna verso
Ortuabis.
Per quanto flebile possa essere l’intenzione,
rispetto alla durezza della realtà, avevo deciso di muovermi comunque, per
onorare la settimana internazionalista del popolo kurdo, nell’anniversario
della cattura del presidente Ocalan, il 15 febbraio 1999.
Ho un po’ rubato quel titolo cambiandone una
sola parola, vivere, «lasciatemi vivere sui miei passi» ma il significato è
uguale.
Quello che vorrei dire in queste righe è che
esistono i prigionieri politici, come esistono i perseguitati per la causa
della giustizia e i costruttori di pace; Abdullah Ocalan è questo. Idee
impedite e vite rinchiuse: possono camminare solo sui nostri passi, solo sul
cammino testimoniato per loro dai nostri corpi.
E’ poco, ma ne scrivo … nonostante il velo di
intimità che protegge questo sentimento. Ho partecipato negli anni scorsi alla
marcia internazionalista che il movimento kurdo in Europa organizzava nel cuore
delle istituzioni europee – dalla Corte di giustizia in Città del Lussemburgo
al Parlamento europeo, a Strasburgo, giù per la valle della Mosella. Ho vissuto
da vicino l’apprensione per la tragedia di giovani vite spezzate dallo sciopero
della fame, come è successo due anni fa (e poi ancora col martirio della band
musicale Grup Yorum, e gli innumerevoli perseguitati a Istanbul come nelle
città e villaggi dell’interno). Abbiamo camminato in tanti nella marcia di
febbraio, gli scorsi anni. Ma quest’anno, a causa del Covid, è diventato
impossibile. Abbiamo dovuto pensare ad altro, per quanto resta compatibile con
le circostanze. Abbiamo lanciato una campagna internazionale, con una
petizione on line e iniziative diffuse. Abbiamo ottenuto una
risoluzione del Parlamento europeo, che addebita in modo inequivoco al regime
turco la disumanità nel trattamento dei prigionieri. Abbiamo inoltrato al
segretario generale delle Nazioni Unite una lettera aperta, proposta dal
congresso dei sindacati del Sudafrica, per l’applicazione nei confronti della
Turchia delle nelson mandela rules. Abbiamo inviato a papa
Francesco, in occasione del suo ormai prossimo viaggio in Iraq, una lettera
aperta chiedendogli di visitare e portare conforto alle popolazioni dei
villaggi e delle enclaves kurde e yazide, massacrate dall’Isis e ora in balia
del disegno espansivo della Turchia. Cerchiamo in ogni modo di tenere attenta
l’opinione pubblica sulla deriva nella Siria del nord, abbandonata
dall’amministrazione Trump alle soldataglie assoldate da Erdogan.
Quanto a me, anche spinto dalla contiguità
filosofica degli scritti carcerari di Ocalan con l’opera del nostro Gramsci, e
sostenuto da realtà associative già attive su questo drammatico problema (i
Cobas scuola Sardegna e le locali associazioni gramsciane) ho
intrapreso la mia marcia Gramsci-Ocalan, da Ales a Sorgono a Ghilarza, i
paesi di Antonio; cento chilometri di cammino, nell’intento di sensibilizzare
anche le amministrazioni comunali di passaggio e di contribuire a smuovere per
questa via il nostro ministero degli Esteri dal suo colpevole torpore e
distoglierlo dalla sua connivenza con regimi criminali quale quello dell’Arabia
Saudita, dell’Egitto e della Turchia.
Molti Comuni, primi fra tutti Riace e Palermo,
hanno concesso ad Abdullah Ocalan la cittadinanza onoraria. Non si tratta di un
atto pletorico: esso richiama il fatto giuridico che un tribunale italiano ha
stabilito che Ocalan è un prigioniero «politico» e che questa repubblica ha il
dovere giuridico di richiederne formalmente il trasferimento in Italia.
La mia marcia è giunta ora a metà strada, al
valico di Ortuabis; domani (venerdì) arriverà a Sorgono e sabato mattina
a Ghilarza.
I prigionieri possono camminare solo con i
nostri corpi.
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