Nell’occasione
del suo centenario la “scissione di Livorno” è stata celebrata con un ampio
repertorio di deprecazioni. “Dannazione” (Ezio Mauro) – coazione a dividersi da
parte della sinistra proprio “nel momento del massimo pericolo” -. “Sciagura” –
“sciagura per la democrazia” (Adriano Sofri), “sciagura per la sinistra
divisa”… “Catastrofe”, ovvero “l’inizio di una serie di scissioni fino ad
arrivare ai numerosi piccoli partiti odierni” che costituirebbero il male
oscuro di una sinistra autolesionista e per questo incapace di vincere. In ogni
caso “tragedia” – il termine impiegato da Pietro Nenni nel 1926 quando scrisse
che a Livorno “cominciò la tragedia del proletariato italiano” -, ancor oggi il
più usato.
E in effetti
di una tragedia si trattò, quel 21 gennaio del 1921 quando il paio di centinaia
di delegati che, in rappresentanza di 58.783 iscritti avevano votato la
“mozione Bordiga”, lasciarono il Teatro Goldoni e percorsero i 2.124 passi che,
attraverso l’antico quartiere Venezia, separano il luogo in cui si svolgeva il
XVII Congresso del Partito socialista italiano dal Teatro San Marco dove
celebreranno il I° Congresso del Partito comunista. “Tragedia” nel senso
tecnico del termine, nell’accezione greca intendo, ovvero di catena di eventi
retti da un “fato”, da una propria intrinseca necessità (generalmente
determinata da una colpa originaria) e ineluttabilmente destinati a un esito
“catastrofico” che ne costituisce nel contempo lo scioglimento nel senso di una
verità o di un elemento di giustizia (“divina”). E in effetti la “scissione di
Livorno” ha esattamente questo carattere: essa appare come un atto storicamente
ineluttabile e politicamente necessario. Un “sacrificio” – ogni scissione è, a
ben guardare, un atto sacrificale nel quale un organismo “muore” per dare
origine ad altre identità – preparato da tempo, frutto dell’accumularsi di
condizioni che, oltre una certa soglia, determinano la cesura che nessun “eroe
eponimo” è in grado di evitare perché maturata nel tempo sotto forma di
“destino”.
E nel caso
del socialismo italiano le cose stanno esattamente così: l’incompatibile
coesistenza tra riformisti e rivoluzionari – chiamiamoli così, per semplicità –
si era determinata da anni, almeno un decennio. Dalla guerra di Libia,
all’inizio del secondo decennio del nuovo secolo e dalla fine dell’età
giolittiana. Poi, in forma più drammatica, dal ’15 quando l’ossimorica formula
“Né aderire né sabotare” era stata una fragile foglia di fico inventata per
nascondere una divaricazione già in qualche modo terminale. Ma soprattutto con
l’ottobre russo, evento che Hegel avrebbe definito “cosmico-storico”, e che
infatti spaccò la storia mondiale in due, e con la Storia le storie, delle
persone e degli organismi, Stati e partiti, compreso ovviamente il Partito socialista
– suoi gruppi dirigenti e le sue organizzazioni di massa -, scavando un fossato
invalicabile. Quando Turati e i riformisti si identificarono con Kerenskji e la
sua rivoluzione moderata di febbraio mentre le masse si entusiasmavano per
Lenin e per quelli che con lui preparavano la rivoluzione proletaria di
ottobre, il destino di una separazione inevitabile era già scritto.
Gramsci fu
testimone diretto della metamorfosi integrale che i fatti di Russia producevano
nel modo di sentire e di partecipare delle masse lavoratrici, a Torino, nella
città che più di ogni altra in Italia aveva visto nascere una classe operaia
veramente moderna e autonoma, quando la sera del 13 agosto era stato in corso
Siccardi, sotto il balcone della Camera del Lavoro, tra i 30.000 lavoratori
accorsi ad ascoltare la voce dei due delegati russi dei soviet – il “compagno
Goldenberg” e il “metallurgico Smirnoff” – venuti a descrivere la rivoluzione
in corso, e aveva registrato le vibrazioni di quella massa che nell’ascolto
delle parole prendeva forma, si trasformava in soggetto (che sviluppava,
appunto, una “volontà sociale”): “Smirnoff parla in russo – racconterà
sull’”Avanti” sotto il titolo Il compito della rivoluzione russa -,
la sua voce sonora e vibrante è ascoltata in silenzio. La folla segue
l’intonazione passionale, le inflessioni musicali che hanno anch’esse una
significazione, che sono il linguaggio non articolato in periodi non
comunicabili al pensiero di uno stato d’animo che si esprime per la folla come
una sonata di Beethoven”. E aggiungerà: “Gli applausi che accolgono la fine del
discorso sono perfettamente comprensibili: esprimono anch’essi una solidarietà
sentita, una solidarietà che Romain Rolland ha studiato e spiegato quando […]
immaginava l’instaurazione di un’unità sociale perfetta, il cui linguaggio
universale doveva essere appunto la musica”. Quegli operai erano accorsi, dopo
una giornata di lavoro duro, a quel comizio così numerosi e “caldi” anche per
marcare la propria distanza da un gruppo dirigente riformista tiepido e ostile
nei confronti di chi – in Russia come qui – preparava la Rivoluzione. Così come
in esplicita autonomia e tacita ostilità rispetto alla linea collaborazionista
riformista pochi giorni più tardi tra il 22 e il 26 agosto – sarebbero insorti
con la richiesta di pane e pace in quelle che ancora Gramsci definirà sul
“Grido del popolo” Le cinque giornate di Torino: “una battaglia che
rimarrà memorabile nella storia del proletariato socialista internazionale” ma
che la dirigenza riformista si affretterà a tacitare e occultarne la memoria in
nome di quel “non sabotare” dietro cui si nascondeva un riluttante patriottismo
di fondo.
Né
diversamente sarebbe andata nel “biennio rosso”, nel ’19 quando allo sciame di
rivolte e di pulsioni insurrezionali contro il carovita che disseminarono il
primo anno del dopoguerra il Partito socialista rifiutò, sistematicamente, di
offrire uno sbocco politico che non fosse il compromesso giolittiano, e
soprattutto nel ’20. Nella primavera, quando alla Fiat lo “sciopero delle
lancette” ( vedi Quando c’era il movimento operaio.
L’esperienza torinese (volerelaluna.it) ) con cui si poneva un
formidabile problema di potere in fabbrica, fu isolato e lasciato morire
dal non expedit socialista e sindacale (gli operai torinesi
che a gennaio si sarebbero recati a Livorno, ricordavano ancora le parole con
cui segretario generale della Confederazione Generale del Lavoro Ludovico
d’Aragona, riformista di stretta osservanza, era giunto a chiudere quella
vertenza: ”sono venuto a seppellire il morticino”); e a settembre, quando
l’ignobile gioco allo scaricabarile tra la direzione della Cgdl e quella del
Psi sull’opportunità di dare al movimento dell’occupazione delle fabbriche il
significato politico che aveva, finì per ridurlo a mera vertenza contrattuale,
lasciando soli gli operai che le occupavano e di fatto soffocando in culla
l’ultima possibilità di un reale protagonismo nazionale del mondo del lavoro.
Tutto questo
peserà sull’atmosfera velenosa di Livorno. Come peseranno le vicende europee:
la memoria di quanto accaduto in Germania, dove i socialisti riformisti si
assunsero la responsabilità di reprimere nel sangue la possibile rivoluzione
tedesca; e il ricordo dell’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht da
parte dei protonazisti freikorps messisi al servizio del
ministro socialdemocratico Noske… Il che ci dice quanto il “divorzio”
dall’anima riformista del socialismo italiano fosse nei fatti, prima ancora che
nelle mozioni presentate dal palco e votate dai delegati. Come si fosse
sedimentata “nelle cose”, prima che nelle parole. Né sta in quella cesura il
carattere tragico della vicenda (tutt’al più se ne manifesta
il carattere storico). La “damnatio” che segna quel
passaggio, in quell’atmosfera plumbea che solo la pioggia in una città di mare
produce, sta piuttosto nei tempi che hanno scandito quel processo di
separazione, che arrivava – se si può dire – troppo tardi. In buona misura
“fuori tempo”. Non nella fase ascendente del moto di rivolta, quando sarebbe
stata davvero indispensabile una direzione politica adeguata, ma nella sua
parabola calante, quando già l’avversario ne aveva misurato indecisione e
debolezza. Non nel momento di entusiasmo di massa, ma in quello della
delusione.
La tragedia,
in sostanza – come in quasi tutte le tragedie – sta più che negli atti compiuti
negli atti mancati. Nel non aver colto il kairos, nel ’19 – quando
ancora il campo della “riscossa proletaria” era in pieno fiore – e quando tutto
insieme il Partito socialista si era espresso per la partecipazione
all’Internazionale comunista, mettendo nell’angolo e quasi fuori la componente
turatiana, ma poi si era rifiutato di far seguire alle parole le decisioni e i
fatti. Forse ancora nel ’20. E poi, a Congresso già avviato, nel non aver
realizzato la convergenza – tanto auspicata da Gramsci e dal Gruppo torinese –
tra la componente maggioritaria di Serrati e quella intransigente di Bordiga. Il diktat del
Komintern che, con i suoi 21 punti, imponeva a tutti i partiti membri, come
condizione non negoziabile, di assumere il nome di partito comunista e di
espellere le rispettive componenti riformiste – diktat ribadito
dal rappresentante dell’Internazionale a Livorno, il bulgaro Kabacev – fece
cadere la scure dalla parte sbagliata, non nel punto di giunzione a destra, con
la sperata fuoriuscita dei turatiani, ma a sinistra, con la separazione dei
bordighisti. E il Congresso non si concluse nell’accogliente platea del Teatro
Goldoni, col canto liberatorio di una nuova maggioranza a sinistra, ma con
l’orgogliosa, e triste, passeggiata dei delegati comunisti verso il disadorno
stanzone del San Marco che così, crudamente, Terracini – che era con loro – descrive:
“I delegati che rapidamente avevano occupato la platea, non vi trovarono sedie
o panche sulle quali sedersi. E dovettero restare per ore e ore ritti, in
piedi. Sul loro capo, dagli ampi squarci del tetto infradicito, venivano giù
scrosci di pioggia, al riparo dei quali si aprivano gli ombrelli con uno strano
vedere. […] L’intero teatro, dalle finestre prive di vetri ai palchi senza
parapetti, fino ai sudici tendaggi sbrindellati che pendevano attorno al
boccascena, denunciava l’uso al quale esso era destinato durante la guerra:
deposito militare di materiali dell’esercito”.
Era in
fondo, quella, la conclusione voluta, simmetricamente, sia da Turati che da
Bordiga, che si affrettarono infatti a consolidare su fronti opposti le
rispettive casematte. Non dai comunisti torinesi, in particolare da Gramsci,
che infatti – dopo essere rimasto in disparte durante il Congresso, senza
intervenire nel dibattito – rientrò da Livorno con un sentimento di profonda
delusione. Camilla Ravera ricorderà, in un’intervista, che il suo primo
commento fu “Livorno, che disastro!”. Non – evidentemente – per l’avvenuta
scissione (a cui aveva lavorato, collaborando con Kabacev alla stesura del suo
intervento), ma per il modo in cui si era consumata. E per il suo esito, tant’è
vero che pochi mesi più tardi sintetizzerà il suo giudizio affermando che
allora si era chiusa fuori dal partito comunista “la maggioranza del
proletariato italiano”. E aggiungendo che “la scissione di Livorno avrebbe
dovuto avvenire almeno un anno prima, perché i comunisti avessero avuto il
tempo di dare alla classe operaia l’organizzazione propria dei periodo
rivoluzionario nel quale vive”. Quello che emergerà sotto la direzione di
Bordiga sarà invece un partito ferreamente organizzato ma chiuso, dogmatico e
settario, con una rigida struttura di quadri, come forse è inevitabile dopo
ogni scissione la quale per sua natura vive dell’energia negativa
dell’autoreferenzialità e dell’integralismo, indisponibile alla mediazione
politica e alla interazione sociale così come alla riflessione non dottrinaria
sull’esistente, destinato a prolungare lo spirito di setta che l’aveva
alimentato prima del distacco dalla casa madre (ne fanno fede il rifiuto ad
associarsi all’iniziativa degli “arditi del popolo”, uno dei pochi esempi di
resistenza efficace contro la violenza squadrista opposto da Bordiga e il
conflitto aperto con Lenin stesso e la direzione dell’internazionale sul tema
del “fronte unico”)… Un partito destinato a muovere i suoi primi passi con
ranghi ridotti (al II Congresso, nel ’22, conterà appena 43.000 iscritti,
15.000 in meno rispetto a quelli che a Livorno ne avevano approvato la mozione)
in un contesto storico e politico di brutale arretramento: alle elezioni del
’24 – quelle con la famigerata “legge Acerbo” – il PSI, che nel ’19 era
risultato primo partito con più del 30% dei voti, si ridurrà a un misero 5%,
mentre i riformisti di Turati, espulsi dal partito pochi giorni prima della
Marcia su Roma, raccoglieranno il 5,9% e i comunisti il 3,7%, tutti insieme
all’incirca un terzo rispetto a cinque anni prima.
Occorreranno
alcuni anni, prima che l’egemonia di Bordiga debba cedere il passo alla ben più
articolata e dinamica visione gramsciana che esattamente un quinquennio dopo
Livorno, al Congresso di Lione, nel gennaio del 1926, impresse una svolta
decisiva all’identità e all’elaborazione del Partito comunista italiano. Il
quale dovette comunque agire non nel fuoco di un attivo processo rivoluzionario
ma nel pieno di una contro-rivoluzione europea che assumeva il volto truce dei
fascismi e che vedeva, sul fronte opposto, la regressione dell’esperimento
sovietico nella dittatura staliniana. Un tempo di ferro, di dilemmi mortali e
di scelte improbe, di cui la biografia stessa di Gramsci – la sua “persona” –
reca i segni, rappresentando contemporaneamente il simbolo della “storia
ufficiale” del Partito e insieme dell’”altra storia” del movimento comunista
italiano. Colui che ne ha plasmato le linee-guida – della visione culturale,
della pratica politica, del modello organizzativo -, e insieme l’uomo che ha
dato voce all’eresia che covava sotto la cenere della sua storia.
Pochi mesi
dopo la conclusione di quel Congresso celebrato in Francia per sfuggire alla
persecuzione fascista, in cui egli fu eletto Segretario Generale e le cui Tesi sancivano la piena
bolscevizzazione del comunismo italiano (“La trasformazione dei partiti
comunisti, nei quali si raccoglie l’avanguardia della classe operaia, in
partiti bolscevichi, si può considerare, nel momento presente, come il compito
fondamentale dell’Internazionale comunista” recitava l’incipit del
primo punto), il 14 ottobre dello stesso anno, Gramsci scriverà la celebre
lettera al Comitato Centrale del Partito comunista sovietico in cui, in
riferimento alla brutale lotta al vertice del partito bolscevico contro
Trotzsky e Zinoviev, figurava la “fatidica” frase in cui, nel riconoscere ai
comunisti russi la funzione “senza precedenti nella storia del genere umano” si
aggiungeva “Ma voi oggi state distruggendo l’opera vostra, voi degradate e
correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il Partito comunista
dell’URSS aveva conquistato per l’impulso di Lenin”… Quella lettera era stata
affidata a Togliatti – allora rappresentante italiano nell’esecutivo del
Komintern – perché la inoltrasse a Mosca ma questi, dopo averla mostrata
privatamente a Bucharin non la inoltrerà mai, “ritenendola inopportuna”, anzi
in una missiva d’immediata risposta rampognerà duramente Gramsci per averla
scritta: “La vostra visione di ciò che sta succedendo qui a Mosca è miope,
errata in partenza… dobbiamo abituarci a tenere i nervi a posto e a farli
tenere a posto ai compagni della base…”. E per parte sua si allineerà
perfettamente alla linea della maggioranza che, al contrario di quanto
auspicato da Gramsci, non si preoccuperà affatto di difendere, pur nel
dissidio, l’unità del gruppo dirigente ma al contrario porterà alle estreme
conseguenze la frattura.
Gramsci
invece, arrestato pochi giorni più tardi, l’8 novembre, alle 22,15, nella sua
abitazione romana, inizierà la sua terza, e ultima vita, trascorsa interamente
in carcere, della quale recano testimonianza per quanto riguarda l’immenso
lavoro intellettuale i celebri Quaderni dal Carcere e per la
travagliata vicenda personale le Lettere: i primi summa di un
paradigma storico-politico di grande autonomia e originalità; le seconde
traccia di una atroce solitudine, stretto tra la ferocia dei carcerieri, che
spesso gli negavano anche la carta su cui scrivere, e l’ostilità dei compagni
di partito ortodossi. Entrambi – sia i Quaderni che le Lettere –
sorvegliati da lontano (e da “fuori”) dall’onnipresente Togliatti che temeva
l’eterodossia dell’ingovernabile compagno di partito, ma che dopo la sua morte
non esiterà a usarne sistematicamente la produzione intellettuale per costruire
quel “partito nuovo” che con la Resistenza e la democrazia repubblicana
diventerà protagonista di primo piano della “vita nazionale”.
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