Molti anni
fa, disarmato davanti alla tragedia dell’11 settembre, cominciavo un articolo
sul manifesto citando Kurt Vonnegut: non c’è niente di
intelligente da dire su un massacro. Davanti ai fatti di oggi mi sento allo
stesso modo: non c’è niente di intelligente da dire perché non sappiamo
abbastanza di come e perché è successo quello che è successo. Sento
commentatori autorevoli che insistono sulle menzogne di Trump e sul fatto che i
suoi seguaci vivono in una realtà alternativa fatta di falso notizie; tutto
vero, ma la malvagità di un uomo e la credulità delle masse non bastano a farci
capire come è stato possibile, e come sia possibile che succeda ancora – tanto
meno in un paese nato dall’illuminismo, dove si pensava che la democrazia fosse
interiorizzata, e l’analfabetismo era stato sradicato due secoli fa.
E invece c’è
un cuore di tenebra in America. Ne vediamo i contorni, ma non riusciamo a
vedere che cosa c’è dentro. Se ci sono oggi settanta e più milioni di cittadini
americani che votano Trump, e migliaia di loro (anche dentro la polizia) pronti
a prendere le armi in suo nome, dobbiamo domandarci in che modo noi, colti progressisti
e liberali, abbiamo contribuito a rendere possibile questa realtà. Perciò si
tratta di entrare dentro questo cuore di tenebra e cercare di capire, non per
dargli ragione ma per riconoscere le cause e cercare di affrontarle e
risolverle.
Parlare di
«bifolchi», di «barbari», di «nemici della democrazia» serve solo ad
esorcizzarli, ad allontanarli da noi, a dire che noi non c’entriamo niente
(magari solleticando implicitamente i vecchi pregiudizi su un’America tutta
cowboy ignoranti violenti e creduloni – come se non fossimo un paese dove metà
della gente rifiuta di vaccinarsi, come se le stesse pulsioni che hanno
scatenato l’aggressione a Washington non attraversassero tutta l’Europa, oggi
in forma non così diretta e violenta ma non meno spaventosa. Perché sempre meno
gente crede ai media, perché sempre meno gente ha fiducia nelle istituzioni e
nello stato, perché sempre meno gente pensa di avere i mezzi per decidere della
propria vita? Che media, che istituzioni, che democrazia gli stiamo offrendo? Perché,
mentre ci riempiamo la bocca sui valori della democrazia, ce n’è così poca, e
sempre meno, nella vita delle persone? E perché a questa domanda inespressa di
contare qualcosa, di avere un po’ di controllo sulla propria vita, non siamo
capaci di dare risposte democratiche, di sinistra, di uguaglianza dignità e
diritti, e lasciamo che sia il peggio della destra ad alimentare e cavalcare il
rancore informe con le sue spiegazioni avvelenate e false?
Guardando le
immagini in TV mi colpiva una cosa che non è stata sottolineata da nessuno:
c’erano tantissime donne (sono donne tre delle quattro vittime uccise negli
scontri). Che ci facevano? E mi sono ricordato di un titolo che avevo letto il
giorno prima sul sito di Bloomberg Wealth, non esattamente una fonte
di sinistra: «Milioni di americani si aspettano di perdere la casa nella
tempesta del Covid». C’entra qualcosa? Direttamente forse no, ma come stato
d’animo diffuso sicuramente sì. Succede solo lì, dopo la crisi del 2008? Che ne
facciamo? Non sono donne anche loro? C’è ancora qualcuno che parla di diritto
alla casa?
Ashly
Babbit, la prima vittima degli scontri, era una ex militare che si definiva
patriota, amante del suo paese e della libertà (e non veniva da uno stato rosso
di bifolchi del Sudest ma dalla ricca colta moderna e blu California),
Paradossalmente, mentre aggrediscono quello che i nostri opinionisti chiamano
«tempio della democrazia», i manifestanti pro-Trump sono convinti di essere
loro i difensori di una democrazia «rubata» dai brogli elettorali – di essere
loro «we, the people». Ovviamente, è un tragico errore. Ma come mai, nonostante
cinquantuno commissioni stato per stato, repubblicane e democratiche, ed
esponenti anche di destra dura nel partito repubblicano abbiano confermato che
le elezioni sono state regolari, come mai sono così ostinati a credere il
contrario? Il fatto è che la sensazione di stare giocando una partita truccata
è una sensazione crescente.
D’altra
parte, da quattro anni in qua, non sono stati i vertici del partito democratico
a gettare dubbi sull’elezione di Trump, sostenendo che era stata manipolata e
falsata da indebite interferenze? Anche questa è una prima volta nella storia
americana, e non ha certo contribuito a rinforzare la fiducia nel sistema
elettorale e nella trasparenza delle istituzioni. E lasciamo perdere l’elezione
del 2000, i voti contestati Bush, la decisione della Corte Suprema che
assegnava d’autorità la vittoria a Bush…
Sono cose
che vengono da lontano, Trump è più un effetto che una causa (un effetto che
retroagisce e aggrava le cause). Dire che tutto questo è colpa di Trump che è
un bugiardo corrotto o dei «bifolchi» creduloni che vivono nella realtà
alternativa delle false notizie è un modo per dire che noi non c’entriamo
niente (non è una malattia solo americana, Salvini, Brexit, Orbán insegnano),
per non mettere in discussione la normalità, come se valesse per il trumpismo
fosse quello che Benedetto Croce diceva del fascismo, un’invasione degli hyksos,
un’interruzione temporanea dopo di che torniamo al business as usual,
allo «heri dicebamus».
E invece è
stata proprio la normalità di ieri a preparare il disastro di oggi. Il
trumpismo è l’esito di mezzo secolo di demolizione del senso del bene comune e
delle istituzioni: quando Reagan diceva che lo stato è il problema e non la
soluzione apriva la porta a un’antipolitica qualunquista legittimata da
un’ideologia neoliberista a cui la sinistra non ha saputo opporre una
resistenza significativa (restandone anzi a volte ammaliata, vedi Clinton). Ma
prima ancora, le radici stanno anche nel lato oscuro della più luminosa
tradizione americana: per esempio, in una visione della libertà declinata fin
dall’inizio in termini individuali (senza fraternità, senza uguaglianza) e
quindi disponibile ad essere letta in termini antistatuali. E non è stato certo
Trump a inventarsi la guerra civile e il suo infinito dopoguerra,, le bandiere
sudiste sbandierate anche ieri a Washington dai manifestanti, lo schiavismo, la
segregazione, la «southern strategy» di Nixon, la supremazia bianca – ancora
celebrata da innumerevoli statue e monumenti coraggiosamente difesi dai nemici
del politically correct…
Una
tradizione letteraria lunga più di un secolo ha prefiguarato rischi di
involuzione autoritaria negli Stati Uniti – Caesar’s Column di
Ignatius Donnelly (1890), Il tallone di ferro di Jack London
(1907), A cool million (Un milione tondo) di Nathanael
West (1934), Qui non può succedere di Sinclair Lewis (1935),
fino a La parabola dei talenti di Octavia Butler (1998)
e Il complotto contro l’America di Philip Roth (2004
e relativa serie tv), e mezza fantascienza distopica). L’inimmaginabile era
stato già immaginato; lì non è successo (in Italia sì), ma poteva succedere, e
può succedere. C’erano già state le prove generali. Nel 2016, una milizia
armata ha occupato per 41 giorni un parco nazionale in Oregon per contestare
l’uso federale delle terre pubbliche; il 1 maggio 2020 una folla armata ha
invaso il parlamento del Wisconsin per protestare contro il lockdown, e la
polizia (come ieri a Washington) li ha lasciati entrare. Nessuno ha
riconosciuto allora questi fatti d’armi come sintomi di qualcosa di più vasto,
più profondo e grave – «si sa come sono fatti gli americani…».
Oggi,
troviamo sollievo nella civile tranquillità di Biden. Il nuovo presidente parla
di riconciliazione e risanamento ma a me viene in mente Dos Passos su Sacco e
Vanzetti, quasi un secolo fa: «e va bene, siamo due nazioni». Ci sono volute
generazioni per spaccare così gli Stati Uniti, rimetterle insieme sarà un processo
lungo, difficile e dall’esito incerto. Non spero tanto in Biden, quanto nella
possibilità che qualcuno tra le persone che gli stanno accanto abbia quel tanto
di immaginazione e radicalità che ci vuole per indicare una strada nuova. Non è
un caso che tanti dei testi distopici di cui parlavo sopra siano stati scritti
negli anni ’30 o vi facciano riferimento: il tempo di un’altra crisi, in cui
non mancarono pulsioni di estrema destra, ma alla quale Roosevelt seppe
rispondere con una svolta, un cambio di paradigma, un New Deal imperniato sulla
costruzione dello stato sociale, sulla forza del movimento operaio,
sull’orientamento a sinistra di gran parte degli artisti e degli intellettuali.
Le
condizioni sono cambiate (e abbiamo contribuito anche noi a smontarle), ma c’è
bisogno di un salto di immaginazione dello stesso tipo e della stessa ampiezza,
un diverso New Deal capace di cominciare a ricomporre il paese non partendo
dalla mediazione al ribasso ma riconoscendo la principale lezione di Black
Lives Matter: il cuore della democrazia è il conflitto, e che la democrazia non
consiste nell’azzerarlo ma nel fare in modo che possa avvenire senza spararsi
addosso. La riconciliazione comincia col ristabilire le regole, ma soprattutto
col reinventarle in modo che siano condivise per davvero.
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