giovedì 25 febbraio 2021

Dentro il cuore di tenebra - Alessandro Portelli


Molti anni fa, disarmato davanti alla tragedia dell’11 settembre, cominciavo un articolo sul manifesto citando Kurt Vonnegut: non c’è niente di intelligente da dire su un massacro. Davanti ai fatti di oggi mi sento allo stesso modo: non c’è niente di intelligente da dire perché non sappiamo abbastanza di come e perché è successo quello che è successo. Sento commentatori autorevoli che insistono sulle menzogne di Trump e sul fatto che i suoi seguaci vivono in una realtà alternativa fatta di falso notizie; tutto vero, ma la malvagità di un uomo e la credulità delle masse non bastano a farci capire come è stato possibile, e come sia possibile che succeda ancora – tanto meno in un paese nato dall’illuminismo, dove si pensava che la democrazia fosse interiorizzata, e l’analfabetismo era stato sradicato due secoli fa.

E invece c’è un cuore di tenebra in America. Ne vediamo i contorni, ma non riusciamo a vedere che cosa c’è dentro. Se ci sono oggi settanta e più milioni di cittadini americani che votano Trump, e migliaia di loro (anche dentro la polizia) pronti a prendere le armi in suo nome, dobbiamo domandarci in che modo noi, colti progressisti e liberali, abbiamo contribuito a rendere possibile questa realtà. Perciò si tratta di entrare dentro questo cuore di tenebra e cercare di capire, non per dargli ragione ma per riconoscere le cause e cercare di affrontarle e risolverle.

Parlare di «bifolchi», di «barbari», di «nemici della democrazia» serve solo ad esorcizzarli, ad allontanarli da noi, a dire che noi non c’entriamo niente (magari solleticando implicitamente i vecchi pregiudizi su un’America tutta cowboy ignoranti violenti e creduloni – come se non fossimo un paese dove metà della gente rifiuta di vaccinarsi, come se le stesse pulsioni che hanno scatenato l’aggressione a Washington non attraversassero tutta l’Europa, oggi in forma non così diretta e violenta ma non meno spaventosa. Perché sempre meno gente crede ai media, perché sempre meno gente ha fiducia nelle istituzioni e nello stato, perché sempre meno gente pensa di avere i mezzi per decidere della propria vita? Che media, che istituzioni, che democrazia gli stiamo offrendo? Perché, mentre ci riempiamo la bocca sui valori della democrazia, ce n’è così poca, e sempre meno, nella vita delle persone? E perché a questa domanda inespressa di contare qualcosa, di avere un po’ di controllo sulla propria vita, non siamo capaci di dare risposte democratiche, di sinistra, di uguaglianza dignità e diritti, e lasciamo che sia il peggio della destra ad alimentare e cavalcare il rancore informe con le sue spiegazioni avvelenate e false?

Guardando le immagini in TV mi colpiva una cosa che non è stata sottolineata da nessuno: c’erano tantissime donne (sono donne tre delle quattro vittime uccise negli scontri). Che ci facevano? E mi sono ricordato di un titolo che avevo letto il giorno prima sul sito di Bloomberg Wealth, non esattamente una fonte di sinistra: «Milioni di americani si aspettano di perdere la casa nella tempesta del Covid». C’entra qualcosa? Direttamente forse no, ma come stato d’animo diffuso sicuramente sì. Succede solo lì, dopo la crisi del 2008? Che ne facciamo? Non sono donne anche loro? C’è ancora qualcuno che parla di diritto alla casa?

Ashly Babbit, la prima vittima degli scontri, era una ex militare che si definiva patriota, amante del suo paese e della libertà (e non veniva da uno stato rosso di bifolchi del Sudest ma dalla ricca colta moderna e blu California), Paradossalmente, mentre aggrediscono quello che i nostri opinionisti chiamano «tempio della democrazia», i manifestanti pro-Trump sono convinti di essere loro i difensori di una democrazia «rubata» dai brogli elettorali – di essere loro «we, the people». Ovviamente, è un tragico errore. Ma come mai, nonostante cinquantuno commissioni stato per stato, repubblicane e democratiche, ed esponenti anche di destra dura nel partito repubblicano abbiano confermato che le elezioni sono state regolari, come mai sono così ostinati a credere il contrario? Il fatto è che la sensazione di stare giocando una partita truccata è una sensazione crescente.

D’altra parte, da quattro anni in qua, non sono stati i vertici del partito democratico a gettare dubbi sull’elezione di Trump, sostenendo che era stata manipolata e falsata da indebite interferenze? Anche questa è una prima volta nella storia americana, e non ha certo contribuito a rinforzare la fiducia nel sistema elettorale e nella trasparenza delle istituzioni. E lasciamo perdere l’elezione del 2000, i voti contestati Bush, la decisione della Corte Suprema che assegnava d’autorità la vittoria a Bush…

Sono cose che vengono da lontano, Trump è più un effetto che una causa (un effetto che retroagisce e aggrava le cause). Dire che tutto questo è colpa di Trump che è un bugiardo corrotto o dei «bifolchi» creduloni che vivono nella realtà alternativa delle false notizie è un modo per dire che noi non c’entriamo niente (non è una malattia solo americana, Salvini, Brexit, Orbán insegnano), per non mettere in discussione la normalità, come se valesse per il trumpismo fosse quello che Benedetto Croce diceva del fascismo, un’invasione degli hyksos, un’interruzione temporanea dopo di che torniamo al business as usual, allo «heri dicebamus».

E invece è stata proprio la normalità di ieri a preparare il disastro di oggi. Il trumpismo è l’esito di mezzo secolo di demolizione del senso del bene comune e delle istituzioni: quando Reagan diceva che lo stato è il problema e non la soluzione apriva la porta a un’antipolitica qualunquista legittimata da un’ideologia neoliberista a cui la sinistra non ha saputo opporre una resistenza significativa (restandone anzi a volte ammaliata, vedi Clinton). Ma prima ancora, le radici stanno anche nel lato oscuro della più luminosa tradizione americana: per esempio, in una visione della libertà declinata fin dall’inizio in termini individuali (senza fraternità, senza uguaglianza) e quindi disponibile ad essere letta in termini antistatuali. E non è stato certo Trump a inventarsi la guerra civile e il suo infinito dopoguerra,, le bandiere sudiste sbandierate anche ieri a Washington dai manifestanti, lo schiavismo, la segregazione, la «southern strategy» di Nixon, la supremazia bianca – ancora celebrata da innumerevoli statue e monumenti coraggiosamente difesi dai nemici del politically correct…

Una tradizione letteraria lunga più di un secolo ha prefiguarato rischi di involuzione autoritaria negli Stati Uniti – Caesar’s Column di Ignatius Donnelly (1890), Il tallone di ferro di Jack London (1907), A cool million (Un milione tondo) di Nathanael West (1934), Qui non può succedere di Sinclair Lewis (1935), fino a La parabola dei talenti di Octavia Butler (1998) e Il complotto contro l’America di Philip Roth (2004 e relativa serie tv), e mezza fantascienza distopica). L’inimmaginabile era stato già immaginato; lì non è successo (in Italia sì), ma poteva succedere, e può succedere. C’erano già state le prove generali. Nel 2016, una milizia armata ha occupato per 41 giorni un parco nazionale in Oregon per contestare l’uso federale delle terre pubbliche; il 1 maggio 2020 una folla armata ha invaso il parlamento del Wisconsin per protestare contro il lockdown, e la polizia (come ieri a Washington) li ha lasciati entrare. Nessuno ha riconosciuto allora questi fatti d’armi come sintomi di qualcosa di più vasto, più profondo e grave – «si sa come sono fatti gli americani…».

Oggi, troviamo sollievo nella civile tranquillità di Biden. Il nuovo presidente parla di riconciliazione e risanamento ma a me viene in mente Dos Passos su Sacco e Vanzetti, quasi un secolo fa: «e va bene, siamo due nazioni». Ci sono volute generazioni per spaccare così gli Stati Uniti, rimetterle insieme sarà un processo lungo, difficile e dall’esito incerto. Non spero tanto in Biden, quanto nella possibilità che qualcuno tra le persone che gli stanno accanto abbia quel tanto di immaginazione e radicalità che ci vuole per indicare una strada nuova. Non è un caso che tanti dei testi distopici di cui parlavo sopra siano stati scritti negli anni ’30 o vi facciano riferimento: il tempo di un’altra crisi, in cui non mancarono pulsioni di estrema destra, ma alla quale Roosevelt seppe rispondere con una svolta, un cambio di paradigma, un New Deal imperniato sulla costruzione dello stato sociale, sulla forza del movimento operaio, sull’orientamento a sinistra di gran parte degli artisti e degli intellettuali.

Le condizioni sono cambiate (e abbiamo contribuito anche noi a smontarle), ma c’è bisogno di un salto di immaginazione dello stesso tipo e della stessa ampiezza, un diverso New Deal capace di cominciare a ricomporre il paese non partendo dalla mediazione al ribasso ma riconoscendo la principale lezione di Black Lives Matter: il cuore della democrazia è il conflitto, e che la democrazia non consiste nell’azzerarlo ma nel fare in modo che possa avvenire senza spararsi addosso. La riconciliazione comincia col ristabilire le regole, ma soprattutto col reinventarle in modo che siano condivise per davvero.

da qui

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