Ogni anno vedo i Romantici di Jena passeggiare sul
prato davanti alla scuola dove insegno, di solito tra ottobre e novembre. Dopo
le vacanze natalizie è Heine a sedere, avvoltolato in una pesantissima coperta
di lana, su quello stesso prato: guarda verso le finestre della nostra classe e
so che ha già in tasca un biglietto ferroviario per Parigi – penso tra me e me
(non lo dico ai ragazzi, ovviamente!) che sarebbe stato meraviglioso se un
collasso del tempo avesse consentito a lui e a Benjamin d’incontrarsi magari
nella sala di lettura della Bibliothèque Nationale in
Rue Richelieu o nella Galerie Vivienne dove
anche Julio Cortázar amava passeggiare…
Tonio Kröger e il suo amico Hans Hansen attendono lo
spirare della mattinata di scuola solitamente tra marzo e aprile: il Lago
Maggiore si profila vicinissimo, grigio nelle mattinate autunnali nuvolose,
scintillante bacino di luce in primavera, battuto da un vento implacabile in
certe invernate che promettono la neve.
È un ritornante stupore scorgere traverso la grande
finestra dell’aula, a metà mattinata, Hölderlin che prepara i bagagli per
mettersi in viaggio (a piedi!) verso Bordeaux: tutto questo accade da anni ed è
accaduto, malgrado tutto, anche nell’ultima primavera, continua ad accadere in
queste complicatissime settimane di ripresa dell’anno scolastico.
Questa è la prima volta che scrivo qualcosa che abbia
direttamente a che fare con la pandemia in atto: ho scelto di continuare a
leggere con i miei allievi i testi che amo, nelle classi iniziali continuiamo a
scoprire insospettati entusiasmi per alcune strutture grammaticali o iniziamo
l’avventura vertiginosa delle etimologie e so che tutto questo è perfettamente
inutile e per questo bellissimo e irrinunciabile.
Anche il modo (spesso abborracciato, miope, spesso
ottuso) di fornire indicazioni per affrontare la cosiddetta emergenza è
filiazione diretta del processo in atto da anni: asservire la scuola alle
esigenze del mercato avvoltolando il tutto nell’ipocrita parola d’ordine del
“mettere l’allievo al centro del dialogo educativo”.
Continuare allora a trovare mezz’ora per discutere dei
valori di un aggettivo o per tradurre due versi di Trakl è silenzioso atto di
resistenza e di rivolta nella sua fiera inutilità (non è utile al mercato, non
è utile al potere), anche quando la “didattica a distanza” impone e frappone
nuove fatiche e nuovi ostacoli – ma è proprio la distanza temporale della maggior
parte delle opere che leggiamo ad allenare all’abolizione della lontananza e,
contemporaneamente, alla sua feconda bellezza: quel ch’è lontano
dall’asservita, banausica quotidianità attrae e conquista la mente per farla
aspirare a livelli di pensiero più alti: più umani – quel ch’è lontano chiama
il desiderio a essere avvicinato e il lungo arco di tempo che unisce questo
presente (spesso malato d’infantilismo e sempre di narcisismo) al cosiddetto
passato rende ridicola la distanza spaziale che s’è spalancata all’interno
delle classi nella recente primavera e che rischia di tornare a spalancarsi nei
giorni prossimi venturi.
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