RINA ha
scelto ancora di ignorare le vittime della Ali Enterprises
La società
di auditing italiana RINA Services S.p.A. si è rifiutata di
assumersi le sue responsabilità per aver certificato come
sicura una fabbrica di abbigliamento a Karachi (Pakistan) in cui, un mese dopo
la certificazione, sono morte oltre 250 persone. I sopravvissuti
pakistani, le famiglie dei deceduti e le organizzazioni per i diritti
dei lavoratori insieme ad alleati europei avevano presentato istanza al Punto
di Contatto Nazionale (PCN) dell’OCSE in Italia nel Settembre 2018. Dopo mesi
di mediazione, quando ormai si era arrivati a un passo dalla chiusura, almeno
storica, di questa drammatica vicenda, RINA ha deciso di non firmare l’accordo
che avrebbe garantito un sollievo economico alle famiglie colpite e obbligato
l’azienda a migliorare le proprie pratiche di certificazione.
L’11
settembre 2012 un incendio ha travolto lo stabilimento Ali Enterprises. Solo
tre settimane prima RINA aveva certificato l’azienda conforme alla norma
SA8000, uno standard internazionale stabilito da Social Accountability
International. L’auditor aveva trascurato una serie di obblighi di sicurezza,
come la necessità di avere un sistema di allarme antincendio funzionante o
uscite di emergenza sufficienti ed efficaci. Successivamente sono venute a
galla una serie di altre violazioni dei diritti dei lavoratori ignorate
dall’auditor.
“Sebbene
RINA abbia certificato la fabbrica come sicura, in realtà è stata una trappola
mortale che è costata la vita a mio figlio e ad altre 250 persone“, ha
dichiarato Saeeda Khatoon, presidente dell’Ali Enterprises Factory
Fire Affectees Association (AEFFAA). “Come familiari delle vittime e
sopravvissuti chiediamo giustizia e responsabilità. Siamo molto delusi dal
rifiuto di RINA di firmare l’accordo.”
Scrivi
a RINA e chiedi spiegazioni
Come impresa
situata in un Paese membro dell’Organizzazione per la cooperazione e lo
sviluppo economico (OCSE), RINA deve attenersi alle Linee guida
per le imprese multinazionali. In risposta alla nostra istanza
di giustizia, RINA ha respinto ogni responsabilità e ha affermato di aver
debitamente verificato l’edificio secondo le norme. Ha sostenuto di non
essere in grado di risolvere da sola i problemi del settore dell’auditing e ha
ritenuto che la mediazione presso il Punto Nazionale di Contatto non fosse la
strada giusta per fornire un risarcimento alle famiglie colpite. Il PCN
ha tuttavia riconosciuto il merito della denuncia e ha organizzato il processo
di mediazione dando incarico ad un’esperto esterno alla struttura del Mise che
gestisce e ‘ospita’ il PCN stesso.
Come
punto di compromesso di un lungo processo di mediazione, il PCN ha
proposto innanzitutto che RINA si impegnasse a pagare 400.000 dollari alle
persone colpite dall’incendio e che un rappresentante dell’azienda incontrasse
le famiglie per esprimere la propria solidarietà. In secondo luogo, ha
suggerito all’azienda di promuovere un miglioramento dei sistemi di
certificazione globali, includendo ad esempio le pratiche di acquisto dei
marchi committenti nei processi di audit, oltre a migliorare le sue pratiche di
due diligence. Ciò includerebbe trasparenza sulle politiche in materia di
gestione del rischio, corruzione e conflitto di interessi.
Ritenendolo
un compromesso accettabile – anche se non avrebbe reso piena giustizia alle
famiglie colpite – le organizzazioni titolari dell’istanza (associazioni
vittime, sindacati) hanno firmato l’accordo nel marzo 2020. RINA,
invece, ha improvvisamente ritirato il suo impegno nel processo e si è
rifiutata di firmare prima della scadenza, considerando il contributo economico
alle famiglie come il più grande ostacolo. Nella sua dichiarazione finale
il PCN raccomanda a RINA di compiere comunque un “gesto umanitario” per le
famiglie attraverso l’erogazione di un sostegno economico ed esprimendo
cordoglio di persona.
“Il
comportamento di RINA mostra chiaramente la necessità di regole obbligatorie
per le aziende di condurre due diligence sui diritti umani che possano essere
imposte anche attraverso i tribunali“, ha affermato Miriam
Saage-Maaß, responsabile del Programma per le imprese e i
diritti umani presso l’European Center for Constitutional and Human Rights
(ECCHR).
L’incendio
della Ali Enterprises è un esempio eclatante del fallimento delle società di
auditing nel condurre il proprio lavoro nell’interesse dei lavoratori: i
problemi nel settore sono endemici e strutturali. Un articolo
investigativo (link) sulle strategie commerciali di RINA pubblicato
all’inizio di quest’anno ha mostrato come l’azienda abbia costantemente e strutturalmente
ricavato profitti sulla pelle delle persone, nonostante il loro obiettivo
dichiarato sia di migliorare le condizioni di lavoro nell’industria
dell’abbigliamento. Serve una modifica radicale di tutto il sistema per
ottenere miglioramenti significativi e concreti, a partire dalla trasparenza
fino alla responsabilità legale delle società di auditing per le loro
ispezioni.
“Incentivi perversi, mancanza di
tempo e assenza di un effettivo coinvolgimento e informazione dei lavoratori
creano un sistema che protegge l’immagine delle aziende piuttosto che i
lavoratori“, ha
affermato Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna Italiana
Abiti Puliti. “Gli
Stati inoltre dovrebbero rafforzare gli ispettorati del lavoro per garantire il
rispetto delle normative, ripristinando il primato del controllo pubblico
invece di una pericolosa deriva verso la sua privatizzazione“.
“A parte
l’amarezza per un nulla di fatto dopo mesi di lavoro, e per non essere riusciti
ad aiutare i familiari delle vittime e tutti i soggetti coinvolti a mettere
almeno la parola fine a questa storia terribile -afferma Alessandro
Mostaccio Segretario generale del Movimento Consumatori copresentatore
dell’istanza al PCN – rimane la nostra disponibilità nel rispettare e
perseguire le raccomandazioni ricevute dal PCN e la nostra determinazione a
spingere in tutti i modi perché Rina abbia ‘cuore’ di aumentare i propri
standard di due diligence”
Leggi la dichirazione
finale del PCN
Pubblichiamo
l’approfondimento di Internazionale, a cura di Maria Hengeveld, su
RINA, il sistema delle certificazioni e il caso Ali Enterprises.
Quando
nel 2001 Kishore Sharfudeen, un uomo cordiale con due figli
originario del Tamil Nadu, nel sud dell’India, fu assunto
come capo del personale dal calzificio Snqs International Socks,
davanti a lui si spalancarono nuovi mondi. Otto anni come avvocato
gli avevano fatto perdere ogni illusione, e il suo nuovo datore
di lavoro, nella città di Coimbatore, sembrava offrirgli una vita più
facile in un’azienda che forniva calze a marchi europei come Primark
e H&M.
Ripulire abiti dalla violenza
di genere - Giuditta
Pellegrini
Il via
libera da parte del Senato, lo scorso 12 gennaio, alla ratifica della
Convenzione n. 190 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro per il
contrasto alla violenza e alle molestie sui luoghi di lavoro è un passo
importante che fa da apripista per la presa in carico di un problema purtroppo
in crescita a livello globale.
LA RATIFICA PER LA PRIMA VOLTA STABILISCE gli obblighi legali dei singoli
Stati per agevolare l’accesso alla giustizia in caso di violenze o molestie,
subite non solo sul luogo di lavoro, ma anche sul trasporto per arrivarci e
implementa il monitoraggio attribuendo maggiori poteri agli ispettori.
Obbligando
i singoli stati ad aggiornare il proprio sistema giuridico affinché ne sia resa
possibile l’attuazione, anche in presenza di contratti precari, la convenzione
permetterà di «non lasciare alla discrezionalità del singolo giudice la
gestione di questi casi» come ha diramato all’indomani del voto
l’associazione nazionale D.i.Re, Donne in Rete contro la violenza, attraverso
la voce della legale Francesca Garisto.
Ma la
ratifica ha anche il merito di portare l’attenzione su come le violenze di
genere siano facilitate dai processi di produzione sregolati del mercato.
LA CAMPAGNA ABITI PULITI, CHE DA TEMPO SI BATTE per la ratifica della Convenzione
ILO 190, sottolinea come a livello internazionale la pressione produttiva, che
ha effetti nefasti sull’ambiente, abbia forti conseguenze anche a livello
lavorativo.
Il
comparto tessile, dove l’85% per cento della forza lavoro globale è femminile,
ne è un esempio.
CON UN VALORE DI MERCATO CHE SUPERA I 400 miliardi di dollari, l’industria
della moda è una delle più attive nel mondo e una delle più inquinanti.
Gli
ultimi studi parlano di un consumo di abiti pressoché raddoppiato negli ultimi
15 anni, mentre decresce la percentuale di tempo del loro utilizzo.
Quello
che ne deriva è in pratica «un largo impiego di risorse non rinnovabili per
produrre vestiti che spesso vengono usati per un breve periodo» come
afferma il report sull’economia tessile di Ellen Macarthur Foundation, secondo
il quale l’impiego di petrolio, fertilizzanti e prodotti sintetici per
accompagnare l’intero ciclo produttivo, dalla materia prima allo smaltimento,
consuma annualmente 98 milioni di tonnellate di risorse non rinnovabili e 93
miliardi di metri cubi d’acqua.
L’INCENTIVAZIONE ALL’ACQUISTO SI TRADUCE nel fenomeno del cosiddetto fast
fashion, che offre abiti economici per un rapido consumo.
Ma il
basso costo, si sa, ha delle ricadute, sia ambientali che sociali.
«Le
pratiche di acquisto estremamente competitive si riversano sui lavoratori delle
filiere internazionali, in particolare le donne, costrette a lavorare con paghe
sempre più ridotte in un sistema sociale gerarchico come è quello patriarcale.
Spesso sono le uniche a lavorare in famiglia e si
trovano quindi in una situazione di vulnerabilità in cui non si sentono di
denunciare»
spiega Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti.
«Questo
ci fa capire come la violenza di genere abbia origine anche da una violenza
economica strutturale, reiterata dalle dinamiche di acquisito e da condizioni e
prezzi troppo bassi imposti dai brand internazionali».
Dall’ultimo
position paper della Clean Clothes Campaign, basato su una ricerca condotta da
Bangladesh Center for Workers Solidarity (BCWS) e il network femminista
panafricano Femnet, emerge che il 75% delle donne intervistate ha avuto
esperienze di violenza di genere sul luogo di lavoro.
Una
percentuale altissima a cui fanno seguito poche denunce, per la paura di
ritorsioni o di perdere il posto di lavoro e le cui criticità ritroviamo in
maniera trasversale anche in tutti gli altri ambiti in cui le donne sono
costrette a lavorare in situazioni di forte precarietà.
«UN SISTEMA DI QUESTO TIPO AGGRAVA IL PROBLEMA delle molestie, perché nel momento
in cui la manodopera è interscambiabile, con contratti di lavoro sempre meno
tutelati, lo sfruttamento è sicuramente più diffuso».
A
parlare è Stefania Prandi, giornalista e fotografa che ha realizzato il
reportage pubblicato nel libro Oro rosso, Fragole, pomodori, molestie e
sfruttamento nel Mediterraneo.
A
partire dalle testimonianze dirette e dal lavoro sul campo, l’inchiesta ha
puntato i riflettori sulle condizioni di sfruttamento in cui vertono delle
donne impiegate nella filiera agricola industriale e i conseguenti abusi,
innescando manifestazioni di protesta soprattutto in Spagna e la costituzione
del collettivo di donne Jornaleras de Huelva en Lucha, che fa un monitoraggio
attivo sulle situazione.
IN ITALIA IL COMPARTO DELL’AGRICOLTURA INTENSIVA, che vede il maggior numero di donne
migranti impiegate insieme a quello del lavoro domestico e di cura, con salari
ancora più bassi di quelli degli uomini e la mancanza di contratti che
permettano di accedere a misure di welfare, è uno dei settori più esposti agli
abusi, come evidenzia anche l’ultimo rapporto Agromafie e caporalato a cura
dell’Osservatorio Placido Rizzotto e di Flai-Cgil.
Anche
qui, nelle condizioni definite dalle Nazioni Unite come nuove forme di
schiavismo e generate da un mercato dominato dalle grandi aziende distributive,
le donne soffrono di uno sfruttamento nello sfruttamento, che non ha fatto che
aggravarsi durante il periodo non ancora terminato della pandemia, e di fronte
al quale gli appelli alla responsabilità sociale purtroppo non bastano.
LA CONVENZIONE ALLORA POTREBBE ESSERE un principio di maggiore trasparenza
nelle filiere internazionali della grande distribuzione, affinché tutti gli
attori ne siano responsabili.
«Quanto
potrebbe cambiare la situazione delle donne al lavoro se i costi pagati dai
grandi marchi fossero giusti e comprendessero salari equi, sottraendole in
questo modo dal giogo della vulnerabilità economica?» si chiede Deborah
Lucchetti
«E’
molto importante attribuire delle responsabilità anche a chi normalmente è
tenuto fuori dal gioco, perché le cause strutturali della violenza di genere
sono da ricercare nella natura estrattivista e violenta del sistema capitalista
globale».
(Articolo di Giuditta Pellegrini,
pubblicato con questo titolo l’11 febbraio 2021 su “L’Extraterrestre” allegato
al quotidiano “il manifesto” di pari data)
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