Nel 2020 il numero totale degli italiani morti è di 755 mila, raggiunto, dopo il 1918, solo nel 1943. Non tutti sono morti per Covid-19 ma il triste primato del tasso di letalità del Covid19 in Italia va indagato invece che usato, come fa la politica, strumentalmente.
Un triste primato
L’Italia
è uno dei tre Paesi al mondo dove il Covid19 fa più vittime [1]. Per un Paese che
vanta (vantava?) una delle più alte aspettative di vita e perciò una maggiore
quota di anziani e grandi anziani sulla popolazione, per un Paese che era stato
(un tempo) di esempio al mondo per efficacia del sistema sanitario, questo tema
dovrebbe calamitare l’attenzione della pubblica opinione. Invece se ne parla
poco e per lo più si accampano giustificazioni, arrivando a negare il dato di
fatto o, peggio, strumentalizzandolo senza indagarne le cause.
Per un
po’ si è sentito dire che da noi il dato era amplificato da una classificazione
troppo estensiva dei decessi da Covid19. Nei casi di pluri-patologie altri
Paesi conteggiano solo quelli per cui il virus è la causa determinante (il che
lascia margini di discrezionalità) anziché rilevare solo la positività.
Quando
però l’ISTAT ha diffuso i primi dati sulla mortalità in marzo e aprile è emersa
una realtà peggiore del previsto: i decessi registrati all’anagrafe erano
aumentati rispetto al quinquennio precedente negli stessi mesi, di oltre 48.000
unità mentre i dati del sistema ISS-Protezione Civile ne riportavano 28.000. Il
dato, di per sé non meno inquietante dell’immagine dei camion dell’esercito carichi
di bare, non fa testo, si è detto, in quanto riferito a un fenomeno eccezionale
come il picco della prima ondata. Ma i dati rilasciati dall’ISTAT nel prosieguo
hanno confermato lo scostamento, fino al rapporto del 30 dicembre che ha
anticipato una crescita dei decessi nei mesi di ottobre e novembre sugli anni
precedenti, di 31.700 unità contro le 20.000 della contabilità Covid. E ha
fornito un altro dato che dovrebbe colpire la nostra sensibilità: la stima
finale per il 2020 prevede un numero di morti (circa 755.000) raggiunto, dopo
il 1918, una sola volta. Nel 1943 (792.000).
L’argomento
era stato così abbandonato [2] in favore di una
diversa giustificazione: la maggiore presenza di anziani nella nostra società
spiega il più alto numero di decessi, dato che il virus colpisce in modo più
pesante le persone di età avanzata. Ma, a parte i casi che dimostrano il
contrario, come quello del Giappone che con un’età media della popolazione
ancora più alta di quella italiana ha tenuto il virus sotto stretto controllo,
anche depurando il dato italiano dall’effetto della struttura per classi di
età, la posizione nel confronto internazionale non muta granché [3]. Perché anche i
nostri anziani muoiono in misura maggiore rispetto al resto del mondo, e questa
è semmai un’aggravante.
Qualche
fondamento in più poteva averlo l’essere stati i primi, dopo la Cina, a vivere
un’esplosione del contagio quando ancora la comunità scientifica internazionale
non aveva chiara coscienza della contagiosità e della virulenza del virus. In
più, ora che si cerca di risalire nel tempo per ricostruire l’origine del
contagio le tracce più lontane si sono trovate proprio in Lombardia. È tuttavia
una scusante che vale, al limite, per la prima ondata e non si applica certo
alla seconda.
Sul rapporto tra decessi e contagi (letalità).
Qui si
inseriscono il tema del rapporto tra decessi e contagi, giacché l’argomento
dell’impreparazione ha due facce. Si deve valutare quanto abbia influito sulla
capacità, da un lato, di individuare e isolare il contagio, dall’altro, di
trattarne il decorso nei positivi. Al riguardo, il discorso si divarica
nettamente e l’aspetto più critico appare il primo. Non che manchino criticità
da evidenziare quanto alla capacità di trattamento ma, a un livello più
aggregato di indagine, si può comunque rilevare come la letalità del virus
(rapporto tra decessi e contagiati) appaia in linea con la media degli altri
Paesi. Potevamo presumere (a buon diritto, un tempo) di rappresentare
un’eccellenza e invece non lo siamo. Occorre tuttavia concentrare l’attenzione
soprattutto sulla diffusione del contagio.
Sulle
origini lontane ancora molto si dovrà lavorare, così come su aspetti ancora
controversi ma di sicura rilevanza come la relazione tra la velocità di
diffusione e fattori ambientali (inquinamento dell’aria [4], trasformazioni
dell’habitat e riduzione degli spazi non antropizzati) oltre che
socio-culturali, dagli aspetti più legati a comportamenti individuali (si è
parlato perfino del modo di salutarsi) a quelli più profondi della vita
collettiva e delle radici culturali. Ma su altri aspetti, che rivestono un peso
determinante, si hanno già evidenze rilevabili e misurabili nei loro effetti
attorno ai quali all’apporto delle competenze scientifiche in campo medico e
biologico dovrebbero affiancarsi valutazioni di ordine politico, sociologico ed
economico.
È su
questo sforzo di comprensione che occorre concentrarsi e qui si torna alla
considerazione iniziale. Certo, il dibattito politico è acceso come non mai e il
discorso pubblico è concentrato perfino ossessivamente su questo tema. Ma il
gran parlare che si fa dell’epidemia e delle sue conseguenze non è
significativo, non potrebbe essere altrimenti di fronte a un fenomeno di questa
portata. Occorre guardarlo in faccia e guardarsi allo specchio, mentre si fa un
gran parlare … d’altro. Il nostro Paese, che soffre per un numero eccessivo di
decessi, dovrebbe essere più attento di altri: senonché, il racconto parla di
noi e preferiamo non prenderne atto.
Esaminiamo
dunque le maggiori criticità emerse quanto al contenimento del contagio
mettendo dapprima in rilievo, per stare allo schema delle tre T (testare,
tracciare, trattare), le prime due.
In un
primo momento ha indubbiamente pesato il ritardo nel riconoscere il contagio,
che aveva raggiunto dimensioni notevoli senza che se ne avesse coscienza.
L’indicazione dell’OMS di concentrare lo screening sulla
ricostruzione della catena dei contagi non era adeguata, stante la dimensione
che aveva già assunto. Laddove si è raggiunta questa consapevolezza e si è
impostata sin dalle prime settimane una campagna di test massivi (come in
Veneto) si sono visti i risultati (e si son visti quelli opposti quando si è
cambiata strategia).
Peraltro,
se alla ricerca della catena dei (pochi) contagi già rilevati si fosse
accompagnato un isolamento rigido dei focolai è probabile che si sarebbe
ugualmente ottenuto un contenimento, almeno finché il numero dei focolai non
fosse divenuto eccessivo. Invece, la via dell’isolamento, dopo la prima zona
rossa a Codogno, è stata abbandonata, in un conflitto/rimpallo di competenze
tra Stato centrale e Regioni che si sarebbe riprodotto in innumerevoli
occasioni e non accenna a placarsi. È andata anche bene perché il governo
centrale a quel punto ha deciso per un lockdown generalizzato,
che ha imposto limitazioni perfino eccessive in aree che non era stato
possibile salvaguardare altrimenti dall’estensione del contagio. Ma una volta
abbattuta, con quella misura drastica, la curva dei contagi, i problemi non
hanno tardato a riproporsi, evidenziando anche quelli che il lockdown generalizzato
aveva solo scansato: i trasporti, l’edilizia e l’organizzazione scolastica, la
gestione dei servizi pubblici essenziali. Per non dire della mancanza di un
segnale di discontinuità nei confronti degli operatori per i quali la
sensazione di un’inversione rispetto alle stagioni del disinvestimento era e
resta vitale. Il risultato è stato che nella seconda ondata nuove aree, fin lì
quasi esenti dal contagio, sono state colpite in modo significativo – e in
rapida crescita – per aver rinunciato a isolare le aree di maggiore diffusione
del virus [5].
Allarmi ignorati, competenze inascoltate
Eppure,
l’allarme doveva essere scattato ben prima, grazie a un’indagine sulla
siero-prevalenza compiuta dai ricercatori ISTAT e ISS, con l’aiuto della CRI
all’inizio dell’estate, su un campione ampio e rappresentativo (varie decine di
migliaia di individui). Il risultato era chiaro e per certi versi sconvolgente:
le persone che avevano sviluppato anticorpi al virus erano sei volte più
numerose di quelle ufficialmente censite, con una distribuzione sul territorio
nazionale che si confermava assai ineguale. Nelle zone con il massimo livello
di contagio i decessi raggiungevano dimensioni che non avevano uguali nel
mondo.
Quella
indagine aveva finalmente portato a una decisione convergente dello Stato
centrale e delle Regioni, per uno sforzo rilevante così da testare a largo
raggio i potenziali contagi. Se nel corso della prima ondata erano state
testate 32 persone su mille, a fine anno si è arrivati a 250: un cittadino su
quattro. Eppure, a fronte di un simile aumento del numero di persone testate,
quello dei contagiati è stato ancora maggiore [6].
Un’altra
vicenda che ha avuto qualche effetto negativo sulla capacità di rilevazione dei
contagi, di minore peso ma rivelatrice, è quella della app Immuni, naufragata
per una campagna politico-mediatica in difesa della privacy, veicolata
soprattutto sui social attraverso persone abituate a mettere in pubblico, in
testi e immagini, ogni particolare della propria vita privata, senza neanche
farsi scrupolo di coinvolgere minorenni.
Detto
dei contagi, vanno messi in evidenza gli errori strategici riguardanti la
funzionalità del sistema sanitario. Ci vorrà del tempo, grazie al lavoro
che sta compiendo la magistratura chiamata anche in questo caso a colmare
reticenze e insufficienze della politica, per mettere in luce e soppesare
quanto abbia inciso il mancato aggiornamento del piano pandemico e il fatto che
si sia proceduto senza poterlo prendere a fondamento della strategia di
intervento.
Su
altri errori e altre carenze, più o meno gravi, che hanno segnato gli sviluppi
successivi si dovrà continuare ad approfondire l’analisi per trarne
insegnamento per l’evoluzione di questa pandemia e per il futuro. Tra questi,
spicca il caso su cui si sta lavorando, anche qui, per fare luce a livello
penale, di RSA e case di riposo, pubbliche e private. Clamoroso in quanto ai soggetti
più fragili sono stati negati i trattamenti più efficaci esponendoli a rischi
del tutto evitabili. Ma, soprattutto, si dovrà risalire alle scelte strategiche
del passato che hanno compromesso l’attività sia di prevenzione che di
trattamento. Sul territorio così come nelle strutture ospedaliere [7]. La riflessione
su questo punto è cruciale per il futuro.
La pesante eredità del passato recente
Dobbiamo
risalire alla “controriforma” del 1992, che ha stravolto principi fondamentali
della riforma del 1978 puntando su aziendalizzazione e privatizzazione (ricorso
alle strutture profit, allentamento dei vincoli di esclusiva, crescita della
spesa dalle tasche dei cittadini) per giungere alla stretta dell’austerità che
ha portato a un disinvestimento (la spesa pubblica scesa di ben due punti sul
PIL) e un ulteriore ricorso al privato. Un taglio di risorse e di personale
(ancora più evidente dal confronto internazionale) un ridimensionamento di
strutture e attrezzature, un ritorno indietro sulla prevenzione, il controllo
dei fattori ambientali, la medicina di base. Un sistema sanitario vanto del
Paese e eccellenza nel mondo, portato a rischio di collasso.
Un
ulteriore elemento di riflessione si impone attorno all’assetto istituzionale e
al rapporto Stato-Regioni. Un tema emerso con forza già nei primi giorni
dell’epidemia con la mancata zona rossa nella bergamasca per gli effetti che ha
comportato per la capacità di risposta delle istituzioni [8].
Un’ultima
considerazione, a partire dalle criticità emerse, riguarda alcune delle
questioni su cui sembra concentrarsi il dibattito politico: invocare maggiori
risorse, o metodi diversi di formazione delle decisioni in un contesto in cui
sono possibili fughe di responsabilità e rimpalli, in cui non vi è controllo
sui risultati, né sanzione per le inadempienze, non ha molto senso. Piuttosto,
porta a sprecare risorse e a ostacolare qualunque decisione. Se il tema della
sanità è il cuore del problema in questa vicenda che ci ha sovrastato, questa
considerazione porta a dire che la preoccupazione principale non può essere il
tasso di interesse, più o meno vicino allo zero, che il nostro Paese pagherà
per le risorse che saranno impiegate ma se la loro destinazione risponderà
all’esigenza di rimettere in sesto e rilanciare un sistema che è stato messo in
condizioni di gravissima difficoltà dall’indirizzo politico che è stato
predominante negli ultimi venti anni [9].
Note
[1] Al 16 gennaio in
Italia sono registrati 13,5 deceduti per 10.000 abitanti. Il primato negativo
spetta al Belgio, con 18,4, seguito dal Regno Unito che nei primi giorni di
gennaio ha scavalcato l’Italia, con 14,1. Seguono USA e Perù, entrambi con
12,1. https://statistichecoronavirus.it/dettaglio-mondo/16-01-2021/
[2] Quanto ai nostri principali partner, in Francia il dato dei
decessi è inferiore (le restrizioni hanno fatto diminuire le altre cause); nel
Regno Unito è allineato; in Germania la differenza è di pochi punti. In Spagna
l’Istituto Statistico, riesaminando le cause di morte, è giunto a una cifra
alquanto superiore, innescando una forte polemica, mancando però i dati
anagrafici.
[3] Compiendo una simulazione che, ad esempio, riporti la struttura
per classi di età italiana alla media europea, il nostro paese guadagna appena
una posizione scendendo al quarto posto nel mondo.
[4] Si veda: SIMA (Società Italiana di Medicina Ambientale), POSITION
PAPER Relazione circa l’effetto dell’inquinamento da particolato atmosferico e
la diffusione di virus nella popolazione- https://www.simaonlus.it/wpsima/wp-content/uploads/2020/03/COVID19_Position-Paper_Relazione-circa-l%E2%80%99effetto-dell%E2%80%99inquinamento-da-particolato-atmosferico-e-la-diffusione-di-virus-nella-popolazione.pdf
[5] Un dato (ISTAT) spiega una delle maggiori criticità della seconda
ondata: a fine ottobre, ai primi segni di ripresa del contagio, le 5 regioni
con la maggiore discrepanza tra aumento di decessi sugli anni precedenti e dato
rilevato da ISS-DPC sono tutte del Sud-Isole (seguite da quelle della prima
ondata): un effetto dell’arrivo in quelle regioni di turisti e di emigrati in
visita alle famiglie, già in estate: numeri bassi in assoluto, ma un forte
aumento percentuale, che non è stato colto.
[6] Nel corso della prima ondata i positivi rilevati erano stati 11
ogni cento, nella seconda 24: più del doppio.
[7] Tra la vastissima letteratura al riguardo, segnalo questa nota,
per chiarezza e sintesi: Chiara Giorgi, Le politiche sanitarie
italiane, ieri, oggi e domani https://www.centroriformastato.it/le-politiche-sanitarie-italiane-ieri-oggi-e-domani/
[8] Si tratta di problemi derivati dalla gestione politica più che dai
limiti, che pure esistono, della riforma costituzionale del 2001. Che ha, sì,
spostato verso le Regioni le responsabilità in materia di sanità (ed altre
connesse con l’epidemia, come i trasporti e la scuola) ma senza alterare la
riserva esclusiva allo Stato di compiti, sia di indirizzo che di imposizione.
(Giovanni Principe, Un’Agenzia Nazionale per rilanciare la sanità
pubblica, https://sbilanciamoci.info/unagenzia-nazionale-per-rilanciare-la-sanita-pubblica/). Sul tema, più in
generale, si veda Maria Cecilia Guerra, Regionalismo differenziato: una
scorciatoia a favore di pochi, https://www.ediesseonline.it/wp-content/uploads/2019/09/Rps-2-2019_Regionalismo-differenziato_Guerra_free-text.pdf
[9] Tra le radiografie a tutto tondo dell’impatto dell’epidemia, mi
sembrano da segnalare, per la fase iniziale:
Nicoletta
Dentico, Cronaca di una pandemia annunciata, http://sbilanciamoci.info/cronaca-di-una-pandemia-annunciata/
e per
l’evoluzione più recente Marco Revelli, Sul ponte sventola bandiera bianca,
Volere la luna, 4/1/2021 https://volerelaluna.it/commenti/2021/01/04/sul-ponte-sventola-bandiera-bianca/
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