La regolamentazione delle esportazioni italiane di armi ha compiuto 30 anni, intersecandosi con la storia del movimento per la pace e l’economia. Oggi la percentuale di export bellico verso Paesi non liberi è tornata al 50%, un valore simile a prima della approvazione della legge n.185.
Sono
passati 30 anni dall’approvazione della Legge n. 185/90 recante nuove regole
sulle esportazioni, importazioni e transito di armamenti. Tale legislazione è
stata considerata una delle più avanzate nel contesto europeo e internazionale
e una delle più importanti conquiste della società civile, che è riuscita a
porre limiti ad un commercio di armi a basso grado di responsabilità che aveva
alimentato conflitti e dittatori. Ma cosa è successo in questi trenta
anni?
Tra la
fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso, il mondo era
diviso in due blocchi e si respirava ancora il clima da guerra fredda. Anche il
mercato degli armamenti era organizzato per blocchi con alcune eccezioni. In
Italia l’esportazione di armamenti era regolata dalle disposizioni che
concernevano in genere il commercio con l’estero. Le armi venivano considerate
come ogni altra merce e non erano perciò sottoposte a vincoli né a controlli.
Il commercio di armamenti era coperto dal segreto militare e non accessibile
nemmeno ai parlamentari. L’Italia aveva una politica di esportazioni spregiudicata: le armi
italiane erano dirette prevalentemente a Paesi in conflitto, o Paesi i cui
governi si caratterizzavano per gravi violazioni dei diritti umani.
Dal
1980 al 1985, tra i clienti più abituali dell’Italia c’era la Libia (850
milioni di dollari), Iraq (490 milioni di dollari) e Iran (410 milioni di
dollari), nonché Somalia, Sud Africa e Arabia Saudita. Nello stesso periodo,
secondo gli indicatori sviluppati dalla Osservatorio italiano sul commercio
delle armi, l’Italia aveva esportato il 49,8% dell’intero export ai Paesi
caratterizzati da repressione sistematica dei diritti umani (Bonaiuti e Terreri
2004). I destinatari degli armamenti erano molti Paesi del Sud del mondo,
impegnati in processi di ricostruzione, autodeterminazione e sviluppo (96,2%
dal 1978-82, e 94,5% dal 1983-87).
Nonostante
l’intero settore fosse ancora avvolto dal segreto militare, a partire dalla
metà degli anni Ottanta il ruolo attivo e responsabile dei lavoratori
dell’industria della difesa permise di fare luce sull’export di armi italiane e
sui meccanismi illegali che li sottendevano, compresi casi di corruzione e
collusione. Uno dei primi casi fu segnalato da un lavoratore di un’azienda
della difesa, Elio Pagani, della società aeronautica italiana Aermacchi, che
documentò come la sua azienda avesse fornito 70 aerei HB-326K all’Aeronautica
militare sudafricana nel gennaio 1980, violando l’embargo ONU ratificato
dall’Italia nel 1977.
Nel
1986 la rivista “Missione Oggi”, denunciava le esportazioni di armi italiane
verso il Sudafrica dell’apartheid, sulla base di quanto rivelato da Elio Pagani
e dai lavoratori dell’azienda bellica Aermacchi. Dall’unione di quattro
organizzazioni (ACLI, Missione Oggi, Mani tese, MLAL), nacque così la prima
rete di ONG e associazioni che si occupava specificamente dell’esportazione
responsabile di armi, che era stata denominata “Comitato contro i mercanti di
morte” (Cipriani 2013). Il Comitato si allargò anche ad altre associazioni e
poté contare su un terreno fertile caratterizzato dalla società civile e dai
movimenti per la pace, nonché sul coinvolgimento attivo di parlamentari
cattolici e di sinistra.
Un
secondo grosso scandalo esplose nel 1987 dal coinvolgimento della Banca
nazionale del lavoro (BNL) nelle esportazioni di armi italiane verso l’Iraq di
Saddam Hussein. L’FBI, che indagava sulla filiale americana della BNL
scoprì una serie di frodi finanziarie che coinvolgevano il commercio di armi
e di know how verso il regime repressivo del dittatore
iracheno (Palazzolo 2004; Mennella e Riva 1993). Da qui emersero informazioni
circa clientelismo, casi di tangenti e corruzioni che alimentarono un dibattito
molto acceso in Italia e portarono alla costituzione di due commissioni
parlamentari di inchiesta.
A
partire dalla metà degli anni Ottanta si avviò a livello internazionale un
periodo di distensione. Furono firmati importanti accordi sul disarmo, come il
Trattato sulle forze nucleari a medio raggio firmato l’8 dicembre 1987 dai
presidenti di Stati Uniti e Unione Sovietica. La firma del trattato fu
percepita come la fine di quaranta anni di contrapposizione e come l’inizio di
una nuova era di convivenza pacifica. In questo periodo aumentò la fiducia
negli strumenti non bellici come la diplomazia e i trattati sul controllo degli
armamenti per risolvere le tensioni internazionali e prevenire i conflitti e le
guerre. Le spese militari diminuirono per qualche anno e si schiuse la speranza
di poter utilizzare queste risorse come nuovo dividendo di pace.
In
questo contesto, la forte pressione esercitata dal “Comitato contro i
mercanti di morte” e da vasti settori della società civile che denunciavano le
vendite di armi italiane a paesi belligeranti, quali l’Iran e l’Iraq, o
comunque soggetti ad embargo internazionale, come il Sudafrica, indusse il
governo ad adottare nel 1986 nuove misure per il controllo delle esportazioni
e, dopo, oltre cinque anni di dibattito parlamentare venne infine promulgata, il
7 luglio 1990, la Legge n. 185 recante “Nuove norme sul controllo
dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” ancora
in vigore.
Tre
aspetti caratterizzano la Legge n. 185/90: 1) La primazia della politica sulle
ragioni economiche: le armi non sono merci come le altre e il loro commercio
deve essere subordinato alla politica estera e di sicurezza dell’Italia,
orientata alla pace, come sancito dall’Articolo 11 della Costituzione. 2) Il
ruolo centrale del Parlamento: con la legge n. 185/90 il legislatore, assumendo
il controllo e la direzione di una materia così delicata come il commercio di
armi, detta i principi che devono essere seguiti dagli organi competenti nel
processo decisionale sulle licenze, i loro successivi controlli e il livello di
trasparenza, ponendo precisi limiti alla discrezionalità del potere esecutivo.
3) Il principio di responsabilità nell’export di armi, che
coinvolge tutti gli attori che vi concorrono: l’azienda e i suoi lavoratori,
che partecipano alla mission dell’impresa, il governo che
rilascia le autorizzazioni alle esportazioni, il Parlamento che controlla e
indirizza il governo, le banche che finanziano le aziende fino ai singoli
cittadini.
Il
testo della legge si articola su tre pilastri fondamentali: i divieti, i
controlli e la trasparenza.
La
normativa fissa i principi generali entro i quali il commercio degli armamenti
deve svolgersi. Il primo comma dell’art.1 afferma che il commercio degli
armamenti deve essere conforme alla politica estera e di difesa dell’Italia
richiamando in particolare l’Articolo 11 della Costituzione, secondo cui: “l’Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e
come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, consente in
condizioni di parità con gli altri stati alle limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni
promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale
scopo.” Ovvero il Paese deve condurre una politica estera tesa a
portare la pace nell’ambito del contesto internazionale, anche il commercio di
materiale bellico deve sottostare a tale indirizzo.
Il
comma 6 dell’art. 1 introduce importanti divieti alle
esportazioni di armi italiane verso:
·
i Paesi
in conflitto armato o in contrasto con i principi dell’Art.51 della Carta delle
Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali
dell’Italia o le diverse deliberazioni del consiglio dei ministri, da adottare
previo parere (vincolante) favorevole delle camere;
·
i Paesi
i cui governi sono responsabili di accertate violazioni delle convenzioni
internazionali in materia di diritti dell’uomo;
·
i Paesi
che, ricevendo dall’Italia aiuti allo sviluppo destinino al proprio bilancio
militare risorse eccedenti le esigenze di difesa del paese.
I
divieti sono stabiliti per legge primaria e non possono essere cambiati dal
governo di turno. Al contrario, operano come guida e limite all’esecutivo. Sono
assoluti, nel senso che riguardano le esportazioni di tutte le armi
convenzionali contemplate dalla Legge 185/90 (cfr. Art. 2 e Art. 1.10 della
legge).
La
Legge n. 185/90 introduce un sistema di procedure di rilascio di autorizzazioni
e di controlli, segnando così la fine della segretezza in materia di armamenti
e tracciando una chiara distinzione tra mercato lecito e illecito.
La
partecipazione di più soggetti ministeriali richiede un elevato livello di
collaborazione, limita i pericoli di collusione e garantisce l’efficacia dei
controlli previsti tramite un incrocio dei dati finanziari, fiscali, doganali
ed economici.
Infine,
la legge prevede un importante strumento di trasparenza: la relazione annuale
che il governo deve presentare al Parlamento entro il 31 marzo di ogni anno
sulle esportazioni autorizzate e svolte l’anno precedente (Art.5), nella quale
devono essere riportati i dati per tipi, quantità, valori monetari, paesi
destinatari sulle esportazioni svolte l’anno precedente. La legge specifica la
quantità e qualità dei dati che devono essere presentati e non fa un generico
riferimento ad un rapporto annuale, nel quale il governo possa scegliere quali
informazioni inserire. Tutti i ministeri che partecipano alla fase
autorizzativa e di controllo devono dare informazioni per quanto di loro
competenza. La relazione è uno degli strumenti che consente al Parlamento di
valutare l’azione governativa di politica estera e quindi di
indirizzarla.
Complessivamente,
nei primi dieci anni di applicazione della Legge, la percentuale di
esportazioni italiane di armi a paesi non liberi è andata decrescendo per assestarsi
attorno a valori inferiori al 10% (vedi Graf. 1).
Nei
primi anni la legge non fu esente da critiche, mosse soprattutto dalle aziende
che vedevano la loro competitività penalizzata dal rigore dei divieti e
dall’eccessiva trasparenza. Tali critiche furono recepite in due disegni di
legge redatti a metà degli anni Novanta, che non passarono per la forte
opposizione di quelle associazioni che avevano promosso l’approvazione della
legge e dei parlamentari che l’avevano sostenuta. Tuttavia, il processo di
globalizzazione e di europeizzazione, l’affermarsi della narrativa
neoliberista, avrebbero cambiato i rapporti di forza e aperto la strada a
modifiche della Legge n. 185/90.
L’affermazione
della globalizzazione e delle politiche neoliberiste a internazionale investe
anche il campo degli armamenti, sebbene con declinazioni particolari e con un
certo ritardo rispetto ad altri settori. La retorica della mano libera del
mercato, che aggiusta tutto se lasciato a sé stesso e porta crescita e
ricchezza per tutti, della necessità di togliere lacci e laccioli, nasce in
Gran Bretagna e progressivamente pervade tutta Europa, supportando quegli
attori che sostenevano una nuova primazia dei valori del mercato e un
ammorbidimento dei vincoli che ne impedivano il libero funzionamento. Il
neoliberismo e il fondamentalismo del mercato lambiscono anche il settore degli
armamenti con la retorica di ammorbidire i vincoli alle esportazioni e di
allargare i mercati di sbocco, bilanciando il calo delle spese militari europee.
Di
fronte alla diminuzione della domanda di armamenti a seguito del crollo del
bipolarismo, le imprese, prima americane e poi europee, si organizzarono
seguendo tre imperativi: privatizzazione con l’entrata del capitale privato,
concentrazione in poli nazionali, e sviluppo delle coproduzioni anche
transnazionali, joint ventures, vere e proprie fusioni a livello
transnazionale. Nacquero così tre grandi poli attorno ai quali si organizzò
l’industria europea della difesa, in particolare dell’aerospazio, costituiti
dalla BAE System, dalla Thales, e da EADS, cui si aggiungeva l’italiana
Finmeccanica che aveva aggregato a sé circa il 70% della produzione militare
italiana e sviluppato rapporti di collaborazione a livello europeo e con gli
Usa.
Le
aziende cominciarono a chiedere di alleggerire i vincoli nazionali alle
esportazioni tra Paesi partner, per favorire il processo di ristrutturazione ed
allargare i mercati, delegando ai Paesi partner la scelta di legittimità della
destinazione finale del materiale coprodotto (applicando il principio del
riconoscimento reciproco). Secondo l’EDIG (l’associazione delle industrie
europee della difesa): “Il libero scambio di parti e componenti nel quadro di
programmi di collaborazione è ostacolato dall’esistenza di diverse legislazioni
nazionali con complessi sistemi di autorizzazione e di controllo. Ciò ha
l’effetto di rallentare il processo produttivo e ha un effetto negativo sulla
competitività delle industrie europee” (EDIG 1995:2).
Nel
2000, a causa di tali sollecitazioni, i sei principali esportatori di armi
europee (Italia, Francia, Regno Unito, Spagna, Svezia e Germania, che da soli
coprono il 90% dell’export europeo) firmarono l’Accordo quadro per la
ristrutturazione dell’industria europea degli armamenti. Successivamente, nel
contesto dell’Unione Europea, fu soprattutto la Commissione che, muovendosi
lungo tre linee direttrici: il finanziamento alla ricerca sulla difesa,
l’approvvigionamento e appunto la liberalizzazione degli scambi per la difesa,
coinvolse i big four industriali in vari gruppi di esperti,
per predisporre, nel 2007, un “pacchetto difesa”, che avrebbe portato
all’approvazione della Direttiva 2009/43/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, per semplificare le modalità e le condizioni dei trasferimenti all’interno
delle Comunità di prodotti per la difesa.
L’Accordo
quadro e la Direttiva erano dettati dallo stesso spirito e avevano obiettivi
comuni. Entrambi miravano a rafforzare la competitività del mercato della
difesa europeo. Entrambi contemplavano procedure semplificate per
l’esportazione di armamenti. L’accordo introduceva le Licenze globali di
progetto (LGP) per le esportazioni e gli scambi di materiali attinenti ad uno
specifico programma di produzione comune, eliminando le singole autorizzazioni
e definiva un meccanismo decisionale (consensus) per esportare materiali
prodotti in comune, sulla base di una lista bianca di Paesi destinatari. La
Direttiva 2009/43 prevedeva due nuovi tipi di licenze attivabili per le
coproduzioni in ambito comunitario: la licenza generale e la licenza globale, un
sistema di certificazione delle imprese e una parziale sostituzione del sistema
dei controlli da ex ante a ex post, con una
maggiore responsabilizzazione delle imprese. In entrambi i casi la loro
ratifica/trasposizione a livello nazionale implicò inevitabili modifiche alla
legge n. 185/90, aprendo quindi necessariamente un processo di revisione. In
entrambi i casi le leggi di ratifica/trasposizione vennero usate come “cavallo
di Troia” per introdurre modifiche che erano state avanzate invano negli anni
precedenti: Con le modifiche introdotte dalla ratifica dell’Accordo quadro, fu
ridotto il campo di applicazione del divieto relativo al rispetto dei diritti
umani nel paese importatore, con l’aggiunta dell’aggettivo “gravi” in
riferimento alle “violazioni delle convenzioni internazionali in materia di
diritti umani” (Legge n. 148 del 17 giugno 2003). Con la trasposizione della
direttiva, un’unica agenzia del ministero degli Esteri, l’Unità per le
autorizzazioni del materiali di armamento (decreto legislativo, n. 105 del 22
giugno 2012), accentrava molti poteri per il rilascio dell’autorizzazione,
l’effettuazione dei controlli e la raccolta della documentazione dei registri.
Al
termine di questa ultima fase di riforme, anche se le modifiche formali furono
limitate e intaccarono solo parzialmente i tre pilastri della legge, si
affermarono comunque dei cambiamenti profondi: lo slittamento dell’equilibrio
dal potere legislativo a favore dell’esecutivo, che ha riacquistato il potere
rispetto al Parlamento nella definizione di alcuni aspetti fondamentali della
legge; la riduzione del perimetro regolato dalla legislazione primaria a favore
del diritto secondario o della discrezionalità dell’autorità esecutiva e
amministrativa, in particolare per quanto riguarda le licenze generali e
globali; l’attenuazione della responsabilità nazionale sulla destinazione
finale dei beni coprodotti a favore del principio della delega; la riduzione
della collegialità nel processo decisionale a favore di una nuova
centralizzazione; la riduzione del potere dello Stato a favore delle imprese e
della loro capacità di autoregolamentazione. Infine, anche se formalmente la
trasparenza e l’articolo 5 sono stati estesi anche ai nuovi tipi di licenze, di
fatto è più difficile capire la destinazione finale delle esportazioni di armi
che sono tornate ad essere merci come le altre anche se da trattare con le
dovute eccezioni.
L’approccio
e lo spirito dell’Accordo quadro e della Direttiva sono profondamente
differenti dallo spirito della 185/90. Mentre la legge italiana parte dalla
Costituzione e dalla politica estera, la Direttiva muove dal mercato interno,
dalle quattro libertà e dalla competitività. Nel primo caso il commercio di
armi si può svolgere solo all’interno del quadro definito dalla Costituzione,
dalla legge e dei divieti stabiliti dalla legge, nel secondo caso il principio
è la libertà di mercato, mentre la sicurezza nazionale e i criteri come la
tutela dei diritti umani diventano un’eccezione. Cambia quindi anche il
rapporto tra variabili economiche e politiche e la funzione stessa
del diritto. Mentre secondo la Costituzione italiana, la legge è un modo per
intervenire e correggere le conseguenze disuguali e ingiuste di un mercato e di
un sistema lasciato a sé stesso, tutelando i più deboli, la Direttiva
interviene per rimuovere le barriere legali interne e gli ostacoli alla libera
circolazione per consentire alla “mano invisibile” di operare liberamente,
ovviamente con le eccezioni dovute al tipo di merce.
Questo
processo di “marketizzazione” o di convergenza verso un modello orientato
all’export è stato identificato anche in altri paesi europei, come la Svezia,
la Francia, la Germania, la Spagna da vari studiosi dell’integrazione Europea
(Britz 2010; Hoeffler 2012; Béraud-Sudreau 2014). Le legislazioni degli stati
membri dell’UE sono cambiate seguendo una logica di mercato, ma sono rimaste
allomorfiche. (Baccaro & Howell 2017). Si è quindi assistito ad un processo
di liberalizzazione senza armonizzazione. Il modello di riferimento che ha
esercitato una sorta di potere di attrazione nei confronti di quelli di molti
Paesi europei è quello britannico, caratterizzato da flessibilità, ampia
discrezionalità dell’esecutivo, uso molto esteso di licenze aperte, che aveva
ispirato il testo della direttiva in alcune sue parti fondamentali.
Il
processo di “marketizzazione” si riflette anche sulla qualità delle
esportazioni italiane e sul profilo degli importatori di armi italiane.
Incrociando i dati del SIPRI (Stockholm International Peace Research
Institute) sulle esportazioni italiane i con i dati di Freedom
House relativi alle violazioni dei diritti civili e politici nel
mondo, si nota come la percentuale di esportazioni italiane di armi a paesi
classificati come “non liberi” a causa delle violazioni dei diritti civili e
delle libertà politiche, abbia superato il 50% tra la fine degli anni Settanta
e gli anni Ottanta (quando in Italia non c’era ancora la Legge n. 185/90), per
scendere e mantenersi sotto il 10% durante gli anni Novanta (con l’approvazione
della legge). Infine dal Duemila, la percentuale di esportazioni italiane di
armi a Paesi non liberi ha ricominciato a crescere fino a raggiungere, nel
2019, il 50%, ovvero un valore percentuale simile a quelli che caratterizzavano
l’Italia prima della approvazione della legge n. 185/90 (vedi
Graf. 1). Allo stato attuale la legge esiste ma dopo tutti cambiamenti è come
se non ci fosse rendendo vani gli sforzi profusi nel passato.
Tuttavia,
si schiude ora una nuova fase in cui, di fronte alla pandemia che ha messo in
luce fragilità del modello neoliberista, emerge l’idea di uno sviluppo
sostenibile, della primazia della politica sull’economia e una nuova
propensione al multilateralismo, che ben si armonizzano con lo spirito e il
dispositivo della Legge n. 185/90. In questo contesto sarebbe utile qualificare
la legge su alcuni punti fondamentali (quali l’identificazione dei soggetti – anche
assembleari – deputati ad accertare le violazioni dei divieti; la definizione
di sanzioni specifiche per i responsabili dell’esecutivo che non applicano i
divieti; l’ideazione di misure per evitare l’abuso di corsie preferenziali
nell’export), magari in collaborazione con altri Paesi europei con legislazioni
avanzate, come la Germania e la Svezia, elaborando cosi proposte che
potrebbero rivelarsi preziose anche a livello europeo.
Riferimenti bibliografici…
Industria militare italiana e proposte dei movimenti per la Pace - Giulia
Faraci
Il 4
novembre 2020 si è svolto il webinar “L’industria militare italiana e le
proposte dei movimenti per la Pace” che completa il programma del convegno
“Torino, città delle armi?”, del 3 ottobre 2020 al Centro Studi Sereno Regis
nell’ambito del “Festival della Nonviolenza”.
L’incontro
viene introdotto da Zaira Zafarana del gruppo di Coordinamento AGiTe e ha
visto la partecipazione di Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Pace e
Disarmo.
AGiTe lotta
da sempre in prima linea contro armi atomiche, guerre e i
terrorismi raggruppando cittadini, rappresentanti delle istituzioni locali
e sindacati che hanno scelto di collaborare anche in occasione dei negoziati
per l’approvazione del trattato della messa al bando delle armi nucleari
.
Il
coordinamento ha rivolto infatti un appello alla cittadinanza e alla rete Pace
e Disarmo per convincere l’Italia a entrare a far parte dei negoziati,
purtroppo non ottenendo gli esiti sperati.
Nel corso
dei tre anni però, molti paesi hanno scelto di preservare la vita in tutte le
sue forme, ratificando il trattato e il 24 ottobre 2020 si è raggiunto il
traguardo della cinquantesima ratifica.
Francesco Vignarca
ha trattato non solo delle odierne preoccupazioni locali già toccate durante
l’incontro del 10 ottobre, ma ha messo in luce quei dati che l’industria
bellica promuove per interessi personali ma che in realtà sono palesemente
distorti.
Quando si
parla di industria militare bisogna cominciare dicendo che spesso viene
raccontata attraverso una narrativa esplicitata proprio da coloro che traggono
vantaggio da questo comparto.
Ci si pone
quindi l’obiettivo di smontare quelli che sono i miti che stanno alla base
della concezione dell’industria bellica soprattutto quelli in termini di
“investimento”.
Partiamo dai dati
L’industria
in questione fornisce dati attraverso due fonti: AIAD (Federazione
aziende italiane per l’Aerospazio, Difesa e Sicurezza) e Leonardo (azienda
d’impatto nel comparto).
Come chiave
di lettura dobbiamo tenere in considerazione che quando diamo una dimensione
dei fatturati, che sia di Leonardo o di AIAD, dobbiamo sempre ricordarci che
non si tratta solo di industria militare ma anche di aerospazio e difesa e
dunque i dati vanno sempre scremati.
La Leonardo
parla di un fatturato di 13,5 miliardi l’anno con 29 mila addetti e afferma che
nel 2019 è stata del 72% la spesa del fatturato riferita a prodotti militari.
AIAD segnala invece un 16,4 di fatturato e gli occupati diretti sarebbe circa
45 mila. Iniziamo infatti a riscontrare le prime anomalie…
Proviamo
dunque a fare qualche confronto e immaginiamo un fatturato di tutto il comparto
militare e della difesa italiana di 17 miliardi, rispetto al 2019,
rappresenterebbe lo 0,9% del PIL. Se andiamo a valutare questi numeri vorrebbe
dire che l’export della difesa italiana sarebbe di 11,3 miliardi corrispondente
al 2,35% dell’export complessivo.
Quello che
emerge dai dati è che non stiamo parlando di un industria principale che
comporta per l’Italia un bilancio economico essenziale, si parla infatti di
numeri residuali.
Vignarca
spiega le due ragioni principali per le quali questi numeri non possono essere
realistici.
- In primis la stessa
Leonardo attraverso documenti ufficiali ci dice che se il fatturato totale
è di ben 11,3 miliardi non è possibile che abbia un export di 2,9 miliardi,
si tratta infatti di un numero sovrastimato e rilanciato ogniqualvolta si
fa un’audizione parlamentare o in qualunque situazione in cui si
deve dimostrare che siamo davanti a una grande industria.
- Il secondo indizio è il
controllo normativo che avviene attraverso la legge italiana. Infatti è la
legge 185 del ’90 che regola l’importazione e l’esportazione di armamenti
militari e nello stesso tempo fornisce una serie di valutazioni tra cui
autorizzazioni che lo stato rilascia di anno in anno. Anche qui emerge un
dato molto chiaro: l’export si attesta sui 3 miliardi. Ancora una volta
troviamo numeri che dimostrano che si tratta di un industria secondaria.
Posti di lavoro
Gli addetti
al lavoro nel settore militare sono circa dello 0,21% della forza lavoro
complessiva (con un indotto del 0,65%) . Nonostante non si tratti di numeri
importanti c’è la consapevolezza del valore e della sacralità
di ciascun posto di lavoro ma la domanda è: “vale la pena
investire soldi pubblici italiani per mantenere industrie di questo tipo?“.
E
soprattutto vale la pena sapendo che la maggior parte dei prodotti che andranno
esportati alimenteranno conflitti e creeranno un mondo più insicuro, povero e
problematico con la conseguenza di andare a ledere interessi anche di atri comparti?
Al di là delle ragioni etico e morali dunque bisogna anche riflettere sul lato
economico.
È
conveniente investire su un’impresa che alimenta conflitti altamente costosi
per uno 0,9% del PIL? Secondo Vignarca no. Purtroppo però da sempre regna la
retorica del rendersi più forti, soprattutto in periodi di instabilità, dove
avviene quella che viene chiamata una “corsa agli armamenti“ per armarsi contro
un nemico che la maggior parte delle volte non esiste.
Preoccupazioni locali
Nel caso
specifico di Torino, la sua dinamicità soprattutto dal punto di vista
aereospaziale e la presenza di un ambiente sviluppato e ricco, la rendono
altamente “vendibile”. Alle industrie non rimane altro che portare risorse in
quello che è un incubatore di ricerca già ben definito.
Nell’industria
militare, come abbiamo visto, si parla sempre di grandi numeri. Una delle
promesse più utopiche fatte alla Regione Piemonte e non mantenuta riguarda la
produzione di alcune parti di F35 e dell’assemblaggio di alcuni aerei a Cameri,
in provincia di Novara.
Lo stato ha
finanziato 800 milioni di euro per poter costruire la struttura (che
diventerà successivamente Leonardo velivoli) con promesse di 10 mila
posti di lavoro poi ridotte a 6 mila.
I dati
impietosamente parlano di tutt’altri svolgimenti: per il 2019 per produrre solo
41 arti alari e per assembrare 3 F35 con un fatturato di 433 milioni di euro si
è riscontrato un organico di 955 unità. Si tratta infatti del 10% di quello che
i proponenti avevano promesso e 1/6 di quello che era stato riaccordato dopo le
prime contestazioni.
Studi oltreoceano
Due
università americane del Massachusetts hanno calcolato il riscontro in
termini di posti di lavoro che si avrebbe in diversi settori dopo la stessa
iniezione di denaro. I dati rilevano che per ogni milione di dollari investito
nella difesa si ottengono meno di 7 posti di lavoro.
Investendo
lo stesso milione di dollari in energia eolica 8.4, nell’energia solare 9.5,
nell’educazione elementare secondaria 19.2, nell’educazione superiore 15.2
, nelle infrastrutture 9.8 e nella sanità 14.2.
In tutti
questi casi l’investimento in settori diversi da quello dell’industria bellica
ha non solo un impatto positivo di posti di lavoro diretti ma anche indiretto.
L’importanza
di questo studio si denota proprio dal luogo in cui è elaborato. Gli USA sono
infatti il paese con i tassi di investimento più elevati nell’industria
militare.
Cosa possiamo fare noi cittadini?
Ci si chiede
dunque quali possono essere le alternative o proposte concrete che si possano
mettere in atto. Sicuramente approfondire e diffondere attraverso questi
webinar è il miglior modo per scardinare quei dati falsati, che molto spesso
vengono mostrati a giustificazione di ingenti investimenti verso un
industria, con un impatto sia economico che etico, inconveniente.
Se molti
cittadini fossero a conoscenza di questi dati ci si renderebbe conto di quanto
una riconversione industriale sia il miglior percorso che il nostro paese possa
perseguire.
In Italia e
non solo si sta verificando un antagonismo fra diritti. Un diritto infatti, non
può essere privilegiato a discapito di un altro e un interesse di un
particolare settore non può entrare in contrasto con un diritto alla pace e
alla vita.
Il
coordinamento A.G.iTe si propone di combattere questa battaglia morale cercando
di scardinare quella che sembra una vera e propria aerea protetta, svelando che
in realtà l’illusione di un interesse di tanti è in realtà solo quello di
pochi.
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