Il caso del rapper catalano Pablo Hasel,
che entrerà in prigione nei prossimi giorni per reati di opinione, è la dimostrazione
che nello Stato spagnolo il potere giudiziario è ancora innervato dalle prassi
del regime franchista
«Tra dieci giorni verrà per sequestrarmi forzatamente il braccio armato
dello Stato [spagnolo], per rinchiudermi in prigione, perché non mi presenterò
volontariamente. Non so in quale prigione mi porteranno né per quanto tempo.
Fra tutti i processi che ho accumulato per lottare, alcuni con condanne che
aspettano il ricorso e altri con condanne già definitive, con questo potrei
restare fino a quasi vent’anni in prigione».
Inizia così il comunicato del rapper Pablo Hasel, nome d’arte di Pablo
Rivadulla (Lleida, 1988), pubblicato lo scorso
28 gennaio come risposta a un decreto della Audencia Nacional nel quale veniva
richiesto il suo «ingresso volontario in prigione». I magistrati firmatari
fanno parte di un tribunale erede diretto del Tribunal de Orden Público
(istituito nel secondo franchismo e sciolto nel 1977) e
condivide con questo il compito di perseguire i reati «politici». Così il
tribunale ha condannato per la prima volta Hasel nel 2015, per i testi di
canzoni pubblicate su YouTube. In quella prima occasione, il tribunale ha
deciso di sospendere la pena.
Nel 2018, il rapper ha ricevuto un’altra condanna – questa volta di due
anni e un giorno, più una multa di 24.200 euro – da parte dello stesso
tribunale per reati di apologia di terrorismo, e di ingiurie e calunnie contro
la Corona e le istituzioni dello Stato. Le prove? Sessantaquattro messaggi
pubblicati dal rapper sui suoi social (tra cui diversi messaggi che
simpatizzano con movimenti lottarmatisti, tutti ormai estinti in territorio
spagnolo, come il Grapo) e una canzone condivisa su YouTube.
Secondo i magistrati «non si tratta […] di un semplice commento nel quale
si dà una determinata opinione, ma bensì di un messaggio che racchiude
chiaramente un invito ad avere una condotta uguale a quella dei suoi
riferimenti, si incita a cercare di imitare i loro atti […] Un’esaltazione
della violenza la quale [l’imputato] pretende di nascondere sotto forma di
opinione, ma che genera un pericolo per l’ordine costituzionale, la pace
sociale e le persone».
La sentenza della Audencia Nacional accusava Hasel anche di false accuse
nei confronti del re emerito Juan Carlos I e di quello attuale Felipe VI,
sostenendo che avessero commesso certi reati. In alcuni dei tweet per i quali è
stato condannato, Hasel faceva riferimento a «business mafiosi» fra la Casa
Real spagnola e l’Arabia Saudita, attualmente sotto indagine giudiziaria e che
hanno già provocato l’esilio volontario di
Juan Carlos de Borbón l’estate scorsa (prima ospite di uno dei più
grandi businessman del Porto Rico e, dall’agosto 2020, negli
Emirati Arabi Uniti). Infine, la condanna del 2018 imputava al musicista i
reati di ingiurie e calunnie per aver accusato le forze dell’ordine di torture
(in casuale sintonia con le denunce di organismi poco sovversivi come Amnesty International). Quella volta la
Audiencia Nacional non ha deciso di sospendere la pena, ma ha deciso di ridurla
a nove mesi e un giorno. Nello scorso giugno 2020, la Corte Suprema spagnola ha
confermato la sentenza. Questa è la base giuridica per cui fra pochi giorni la
polizia avrà il mandato di portare forzatamente Pablo Hasel in prigione,
considerato il suo rifiuto a presentarsi volontariamente.
Indipendentemente dalla distanza che si possa avere con le idee e il
linguaggio di Hasel, l’assedio giudiziario che sta subendo da parte dello Stato
spagnolo è il sintomo di un pericolo sempre meno latente per chiunque prenda
posizioni radicalmente critiche con lo status quo. Così lo hanno interpretato
gruppi, collettivi e singole e singoli di tutto lo spettro della sinistra
extraparlamentare che hanno mostrato la loro solidarietà con il rapper, non
solo sui social media ma anche in diverse manifestazioni pubbliche, tra
cui un corteo di circa 700
persone nelle strade di Barcellona. Inoltre, sono state organizzate diverse
proteste per i prossimi giorni in molte città del territorio
spagnolo. Anche alcuni (pochi) rappresentanti istituzionali hanno espresso
delle critiche alla condanna del rapper. Sia una magistrata della stessa
Audiencia Nacional che il vicepresidente del governo Pablo Iglesias hanno
sostenuto che si tratta di un «reato di opinione» che non dovrebbe essere perseguibile
in un regime democratico (paradossali le dichiarazioni del leader di Podemos,
considerando che Hasel, nel suo comunicato, ha denunciato «il cosiddetto
‘governo progressista’ di permettere che questo succeda mentre protegge la
monarchia e aumenta il loro budget»).
Anche se Pablo Hasel sarà il primo musicista che entrerà in prigione per
reati politici dalla fine del franchismo, non si tratta di un caso isolato, ma
solamente quello più eclatante. Altri casi molto recenti lo dimostrano: il
rapper di Majorca Valtònyc è stato condannato nel 2018 per apologia di
terrorismo, oltre che calunnie e ingiurie gravi nei confronti del Re. In quella
occasione, la risposta del mondo del rap è stata immediata, e la canzone
collettiva Los borbones son unos ladrones («I borboni sono
dei ladri», una delle frasi incluse dal tribunale nella condanna a Valtònyc)
divenne subito virale. Dopo la condanna, e un giorno prima di dover entrare in
prigione, Valtònyc è uscito furtivamente dal territorio spagnolo, e un mese
dopo è stato accertato che si trovava in Belgio. All’indomani di questa
notizia, la Corte di Strasburgo ha rifiutato la richiesta dello Stato spagnolo
di rimpatriare il condannato. Da allora il rapper si trova in territorio belga,
dal quale gli è stato vietato di uscire finché non verrà risolto il suo
processo. Anche i dodici rapper di La Insurgencia sono stati condannati
l’anno scorso a 6 mesi di prigione, per apologia del terrorismo (anche nel loro
caso per esprimere simpatie verso il Grapo).
Negli ultimi anni, la repressione da parte dello Stato spagnolo delle opinioni
politiche discordanti è arrivata a livelli altissimi, anche di ridicolo. Ad
esempio, Cassandra Vera, una studentessa di storia di 21 anni, è stata condannata nel
2017 per apologia di terrorismo, usando come prove sette tweet in cui la
giovane ironizzava sull’attentato del 1973 con cui l’Eta assassinò l’erede
politico designato da Francisco Franco, il generale Luis Carrero Blanco (ironie
che, d’altra parte, si riproducono viralmente ogni anno sui social media
nell’anniversario dell’evento).
I casi sopra elencati sono soltanto quelli più mediatici, ma ce ne sono
tanti altri meno noti: anche se complessivamente il loro numero è basso
rispetto al totale di canzoni o tweet pubblicati ogni giorno e non
rappresentano un vero modello orwelliano di controllo della popolazione, la
loro intenzionalità politica è evidente. Si tratta di un meccanismo repressivo
molto più sottile di quello narrato in distopie come 1984. Più o
meno consapevolmente, le autorità statali che portano avanti casi di
repressione come quello di Pablo Hasel, insieme ai media imprenditoriali che
gli servono da megafono, pretendono di far scattare nella popolazione un
campanello di allarme prima di esprimere pubblicamente (sui social, nelle
canzoni) opinioni che attaccano o mettono in discussione i pilastri
fondamentali del potere costituito, come le forze dell’ordine o la Corona nel
caso particolare dello Stato spagnolo. Si tratta dunque di una versione light,
più elegante, per certi versi meno opprimente ma ugualmente repressiva, di quel
potere che si scatenò il 18 luglio 1936, attraverso un colpo di stato militare,
e che instaurò un regime dittatoriale che, nonostante la sua trasformazione in
democrazia parlamentare alla fine degli anni Settanta, ha lasciato una forte
impronta a livello di prassi e princìpi nelle strutture statali esistenti fino
a oggi.
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