Durante un dibattito radiofonico sul nascente governo Draghi e la sua reclamizzata “svolta ecologista”, il conduttore si è compiaciuto della convergenza di posizioni fra un alto esponente di Confindustria, titolare di un’azienda del ramo automobilistico, e il rappresentante di un’associazione ambientalista, reduce dalle formali consultazioni con il presidente del consiglio incaricato. “L’industriale e l’ambientalista dicono le stesse cose”, ha detto con un certo giubilo il conduttore, mentre bollava di “radicalismo che impedisce di fare le cose” quanto detto da Greta Thunberg al recente Forum economico di Davos, pensatoio dei potenti del nostro tempo.
Di che hanno parlato l’industriale e l’ambientalista? Qual è stato il punto di convergenza? Non è difficile immaginarlo: il concetto di “sviluppo sostenibile”, ormai in uso dappertutto, dai quotidiani del mattino ai talk show della sera, dalle piazze finanziarie ai commenti degli “esperti” chiamati a giudicare le prime mosse politiche del banchiere divenuto leader politico. L’industriale ha parlato di sviluppo sostenibile come sinonimo di crescita (“senza la quale non andiamo da nessuna parte”, ha detto) e ha replicato a chi ipotizzava la necessità di una migliore distribuzione della ricchezza con un’osservazione ripetuta fino alla noia da quasi tutti gli economisti e gli imprenditori negli ultimi trenta o quarant’anni: “Prima la ricchezza va prodotta”. L’ambientalista non ha obiettato alcunché, ma si è soffermato sulla necessità di agire presto affinché l’Italia e le sue imprese non perdano la sfida internazionale con le aziende e i progetti già in corso.
Alcune domande retoriche
Dobbiamo
davvero compiacerci per tanto entusiasmo e tale convergenza? O è lecito avanzare delle perplessità? Proviamo
a ragionare.
Intanto, il
concetto di sviluppo sostenibile.
Il dubbio è che si tratti di un
ossimoro. L’idea di sviluppo che ereditiamo dal passato è quella che ha
generato il disastro che ci circonda: un pianeta esausto e già al collasso; una
pandemia originata da un eccesso di produzioni e disboscamenti; l’orizzonte
dell’estinzione di specie. È davvero sufficiente mettere un aggettivo accanto
al sostantivo per
abbandonare il sovraconsumo di risorse non rinnovabili, arrestare
l’innalzamento della temperatura terrestre, combattere l’inquinamento, bloccare
la deforestazione e prevenire nuove pandemie e via elencando? In altre parole
(e altre domande): qual è la prospettiva dello “sviluppo sostenibile” nel post
pandemia, ammesso che ci sia davvero un post pandemia? Comprende o no, per
esempio, la piena ripresa degli spostamenti aerei? E il consumismo, così
radicato nel mondo detto non a caso “sviluppato”, ne fa ancora parte? Le auto
“ecologiche” potranno essere prodotte e vendute in numero illimitato? E gli allevamenti intensivi di animali da latte
e da cerne saranno anch’essi “sostenibili”? Sono solo alcune
domande retoriche fra le tante possibili ma servono a suggerire un dubbio, cioè
che la svolta da compiere non sia verso un mitico “sviluppo sostenibile”, nel
quale la crescita dei consumi resta l’obiettivo di fondo ma sarebbe magicamente
compensata da un altro sviluppo, quello tecnologico.
È più probabile che siamo di fronte a un bivio diverso: da una parte lo
sviluppismo divenuto sostenibile, il “green new deal” e altre locuzioni care al
mondo della tecnocrazia e dell’industria, rigidamente ancorate all’ideologia
del libero commercio; dall’altra parte un’idea di mondo che mette al centro i
beni comuni e la solidarietà fra persone e popoli e comincia a fare i conti con
il senso del limite e ragiona quindi, per esempio, di sovranità alimentare,
giustizia sociale, redistribuzione del lavoro, riduzione dei consumi superflui.
Troppo
radicale? Irrealizzabile?
Certamente sì, se pretendiamo di rimanere all’interno delle coordinate
ideologiche dominanti, forse no se riusciamo a liberarci da questi
opprimenti e oppressivi vincoli mentali e lessicali.
La vita oltre il profitto
La pandemia
ci ha fatto capire quanto sia grave lo stato di salute del pianeta e ci ha
fatto compiere esperienze
esistenziali impreviste; ci siamo misurati con le nostre fragilità e
abbiamo compreso che il futuro nostro e delle prossime generazioni si è
improvvisamente ristretto.
Sia chiaro, non c’è da disprezzare l’avvento dello “sviluppo sostenibile”
né l’impegno attorno alla ricerca di nuove tecnologie più o meno salvifiche, ma
dovrebbe essere chiaro che siamo in realtà alle prese con una sfida e una lotta
politica nuova. C’è vita oltre lo sviluppo ed è probabile che la reale linea di
demarcazione – il motivo di lotta e di conflitto di oggi e del prossimo futuro
– riguardi proprio l’abbandono del modello sviluppista, che ha nella
concorrenza, nella ricerca del massimo profitto, nella finanza globalizzata,
nel cittadino consumista, nel primato dell’umanità sulla natura le sue premesse
logiche e i suoi pilastri, anche nella sua versione “sostenibile”.
Limite,
cura, condivisione, sobrietà, giustizia sociale, beni comuni, diritti di base
garantiti a tutti sono alcune possibili parole d’ordine di un mondo nuovo che andrebbe
costruito, passo dopo passo, lotta
dopo lotta, senza preoccuparsi troppo delle definizioni altrui:
radicali, ideologici, estremisti, irrealistici, passatisti, tutti termini
adoperati per screditare e azzoppare chi avrebbe l’ardire di agire nell’intento
di cambiare l’ordine delle cose. Non
è il caso di scoraggiarsi.
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