lunedì 22 febbraio 2021

c'è chi dice no a Draghi

  

“Draghi al servizio di Bruxelles, ogni democratico dovrebbe dire di no”

 

Alessandro Gilioli intervista Yanis Varoufakis

 

Ministro delle Finanze greco proprio durante la crisi finanziaria che portò Atene a un passo dalla bancarotta, Yanis Varoufakis commenta con il direttore Alessandro Gilioli l’ipotesi di affidare il nuovo Governo a Mario Draghi.

* * * *

Lei ha conosciuto molto bene Draghi quando era ministro delle finanze in Grecia. Ci può dire che impressione le ha fatto dal punto di vista umano, ma soprattutto dal punto di vista della sua visione politica?

Umanamente Draghi è come tutti gli altri a Bruxelles e Francoforte, almeno per come lo ricordo all’Eurogruppo. Politicamente è al servizio dell’ordine finanziario. Tecnicamente è molto capace, e ha mostrato grandi capacità di capire cosa va bene e cosa no nella logica del servizio all’ordine finanziario e all’establishment. In questo senso è il premier ideale per l’Italia, se quello che voi veramente volete è implementare le politiche di Bruxelles e Berlino, e di fingere che il Recovery Fund è veramente la salvezza dell’Italia. Mentre non è altro che un pacchetto di debiti.

 

Quindi lei ritiene che abbiano ragione quelli che dicono che in Italia non abbiamo la Troika, perché ce la siamo fatta da soli. È Draghi stesso la Troika in casa?

Non sarebbe la prima volta, è già successo con Mario Monti, un altro uomo intelligente il cui governo tecnico ha agito come voleva la Troika, altrimenti sarebbe arrivata la Troika vera e propria. E’ così che che le cose funzionano nell’Eurozona, specialmente nei paesi vicini alla bancarotta, quelli che non sono sostenibili all’interno di questa unione monetaria, dove le decisioni politiche vengono dettate dall’estero, dai centri del potere finanziario e con il supporto entusiasta delle oligarchie locali, greche o italiane che siano, contro la grande maggioranza delle persone, del popolo.

 

D’altra parte molte persone esaltano la competenza di Mario Draghi. Molti dicono “è così qualificato, competente, prestigioso. Molto meglio del ceto politico che finora abbiamo visto in Italia”.

Indubbiamente Draghi è intelligente e molto competente, molto bravo a raggiungere i suoi obiettivi. la grande tragedia del popolo italiano è che i suoi obiettivi sono nemici degli interessi della grande maggioranza degli italiani.

 

Un’altra domanda che tutti si fanno è che cosa farà Draghi. Se è di destra o di sinistra. Se toccherà le pensioni, se toccherà il welfare. Se darà soldi alle aziende e come spenderà i soldi del Recovery Fund. Lei cosa ne pensa?

Draghi non sarà autonomo, come non lo era l’ex premier Monti. Dovrà riferire a partiti che ormai sono degli zombie ma soprattutto a Bruxelles e Berlino. Potrebbe anche avere una sembianza abbastanza keynesiana e socialdemocratica, in pubblico magari incolperà perfino Bruxelles, Francoforte e Berlino di non sostenerlo abbastanza, ma eseguirà tutti i loro imperativi.

 

Se lei fosse un membro del Parlamento italiano e si trovasse di fronte all’alternativa tra Draghi e le elezioni, nelle quali probabilmente vincerebbe l’estrema destra, lei cosa farebbe?

Come democratico, voterei sempre contro un tecnocrate come Mario Draghi, è essenziale che noi difendiamo il diritto delle persone di scegliere chi le governa. E oltre a questo devo dire che personalmente ricordo bene quando Draghi è stato decisivo nella chiusura dei bancomat in Grecia, così da impedire che il popolo greco decidesse liberamente nel referendum in cui si decideva la posizione da tenere nei confronti di Bruxelles. Penso che ogni democratico in Italia debba opporsi al suo governo.

da qui

 

 

Draghi e il fragoroso silenzio su Regeni - Alberto Negri

 

Per il neo primo ministro la nostra politica estera, fuori dell’europeismo e dall’atlantismo, si liquida con otto righe. Ignorata la Libia, dimenticato l’Egitto. Forse passerà le patate bollenti a un Di Maio estromesso dall’Europa

 

Visto da Draghi il mondo è vicino e lontano allo stesso tempo. Molto vicino a Berlino, alla Bce di Francoforte e alla Merkel che insieme alla Francia, sono l’ancoraggio, un po’ traballante un verità, di questa Italia a due sole velocità, europeista e atlantista fino allo spasimo.

La Merkel tra l’altro a settembre lascia il posto di cancelliere e non è detto che la costruzione europea regga bene, visto che lei, come ben sa Draghi da capo della Bce e salvatore dell’euro, ne è stata il condizionamento ma anche la colonna portante.

Il mondo visto dal «banchiere di tutti» è lontano quando ci si allontana dall’asse Berlino-Parigi. Nel suo discorso al senato il resto del mondo, dal Mediterraneo ai Balcani, ha meritato l’altro giorno soltanto otto righe. Anzi sul caso Regeni (e su Zaki) che scuote da cinque anni i governi e l’opinione pubblica è calato il silenzio più totale. Un bel silenzio non fu mai scritto dicono i saggi ma nell’ufficio studi del presidente del Consiglio deve essere successo qualche cosa: o non hanno letto i giornali negli ultimi tempi, oppure l’hanno fatto apposta.

Insomma per Draghi la nostra politica estera, fuori dell’europeismo e dall’atlantismo, si liquida con otto righe. Mica tanto in un discorso durato un’ora.

È vero che non si può entrare troppo nello specifico ma visto che si è dilungato a parlare persino degli istituti tecnici non si vede perché si debba ignorare il caso dell’Egitto, di Giulio Regeni e di Zaki.

Il caso Regeni, con la Libia, costituisce il problema irrisolto di tutti i governi negli ultimi cinque anni. Non solo: la procura di Roma ha accertato la responsabilità in giudizio della polizia e dei servizi egiziani che hanno torturato e ucciso un cittadino italiano mentre il Cairo ci sta costantemente umiliando negando la sua collaborazione e prendendo in giro sia l’Italia che la sua magistratura. Questo silenzio di Draghi è tanto più rilevante in quanto lo stesso premier ha menzionato le violazioni della Russia sui diritti umani.

Come diceva Andreotti, citando un Papa e un cardinale, a pensare male si fa peccato ma spesso ci si indovina. Forse Draghi vuole scaricare la patate bollente del caso Regeni e di Zaki, lo studente egiziano di Bologna detenuto ingiustamente, al ministro degli Esteri Di Maio, che non potendo toccare palla in Europa e probabilmente fortemente limitato dal nuovo consigliere diplomatico di Draghi, l’esperto ambasciatore Mattiolo, verrà mandato in giro per il Mediterraneo e i Balcani.

Certo che questo silenzio su un caso che ha scosso e continua a scuotere l’opinione pubblica italiana qualche pensiero malevolo lo solleva. Forse – ma è solo un’ipotesi – Draghi non vuole mettere in pericolo le nostri forniture di armi (10 miliardi di euro di contratti) con il generale e dittatore Al Sisi.

Le guerre probabilmente sono collocate per Draghi in un mondo remoto lontano dagli ovattati corridoi delle banche che di solito frequenta: qualcuno dovrà spiegargli che in violazione delle nostre stesse leggi stiamo vendendo jet da addestramento della Leonardo a un Paese in guerra come l’Azerbaijan che con la Turchia e il sostegno di Israele ha aggredito l’Armenia. Draghi, gesuita di vaglia, cita il Papa ma si dimentica dei cristiani. Strano.

L’impressione è che con il banchiere di tutti noi siamo molto più che atlantisti, siamo schierati con gli Usa, naturalmente, la potenza occupante, ma anche con il Patto di Abramo tra Israele e gli arabi del Golfo che finanziano a piene mani l’Egitto e ci compra le armi. Non una grande svolta. Il silenzio di Draghi su Regeni è già fragoroso.

 

(da il manifesto)

 

da qui

 

 

La selezione naturale - Massimo De Angelis

 

Una civiltà è la meta-cultura di un tempo e designa i modi di relazione dominante al fine della riproduzione sociale. La pandemia è solo l’ultima delle rivelazioni di come la pratica civilizzatrice del capitalismo sia un modello di riproduzione sociale e ambientale violento, discriminatorio e distruttivo. La designazione di Mario Draghi a presidente del consiglio non sarà certamente l’occasione per cambiare modello. Al contrario, corona il capitale finanziario a guida del capitale in generale, in una fase critica attraversata da domande fondamentali e tensioni sociali profonde non solo per il destino dell’accumulazione capitalistica ma anche della sua modalità civilizzatrice.

Come ci ha fatto notare un recente articolo di Marco Bersani su il manifesto, Mario Draghi è parte del Gruppo dei 30, un think tank internazionale composta da grandi capitali finanziari e personalità come Yi Gang (governatore della Banca Popolare della Cina), o Janet Yellen (di recente nomina a segretaria del tesoro dal presidente Biden). Il Gruppo dei 30 ha stilato un rapporto su come affrontare il dopo pandemia, presentato dallo stesso Draghi in un video sul sito del gruppo. Quello che mi interessa sottolineare di questo rapporto è la questione della solvibilità di imprese e settori del dopo pandemia, e della necessaria selezione che si dovrà operare per distribuire le risorse del Recovery Plan.

Nel Recovery Plan europeo — e la stessa logica si può applicare anche a quello di Biden — non ci saranno soldi per tutti, occorrerà scegliere una strategica. Non c’è dunque solo la questione della priorità tematiche del Recovery (conversione ecologica, digitalizzazione etc.), ma anche l’esigenza di stabilire criteri per selezionare quali imprese riceveranno aiuti e quali invece saranno lasciate andare in fallimento. Sì, perché se fino ad ora la crisi si è manifestata come crisi di liquidità, si sta entrando ora nella prospettiva di crisi di solvibilità: la recessione economica innescata dalla pandemia, ha portato il mondo delle imprese (piccole o grandi che siano), a stratificarsi in livelli diversi di vulnerabilità finanziaria attraverso l’accumulazione di debiti insostenibili. Su quali basi selezionare quelle da aiutare e quelle no? Sulla base del loro percepito contributo alla ripresa della crescita. Non è più questione di prendere tempo provvedendo liquidità alle imprese in difficoltà, ma bisogna focalizzarsi su “questioni strutturali e sulla solvibilità” e sulla “salute di lungo periodo del settore delle imprese”. Questo significa che occorre cambiare approccio: “da misure generali dobbiamo spostarci su misure con obiettivi precisi che permettono di stabilire una nuova allocazione delle risorse”.

Questa dovrà essere effettuata privilegiando le risorse più “produttive”, cioè quelle che permettono di aumentare competitività e ridurre lo spettro dell’insolvenza. E per il Gruppo dei 30 “è critico in questa fase che la politica pubblica si orienti verso una forte ripresa economica”. E come si garantisce la ripresa economica? Lasciar fare agli esperti, cioè “prendendo vantaggio delle capacità del settore privato laddove esistono, al fine di sfruttare le scarse risorse pubbliche e fare utilizzo delle competenze del settore privato per valutare la fattibilità delle imprese”. Selezionare chi sta dentro e sta fuori, scegliere dove andare, dove investire risorse ed energie sociali, cosa fare, è il passo principale di costruzione del nostro mondo, della nostra realtà. Selezionare è operare una distinzione, è creare il mondo nel quale si vive e si coopera, è distinguere chi sta dentro e chi sta fuori, ciò che noi stabiliamo cosa è bene in dati contesti e ciò che è male. Secondo il Gruppo dei 30 questa selezione non la deve fare la moltitudine attraverso un dibattito pubblico e strumenti (vecchi o nuovi) di rappresentanza politica, in un contesto di una molteplicità di crisi sociali, violenze, diseguaglianze, indegnità e collasso ecologico. La deve fare lo stesso algoritmo sociale che ci ha portato a devastanti crisi sociali, al collasso ecologico e al contesto per l’esplosione pandemica: il mercato.

Diamo dunque in mano al mercato la scelta strategia di dove investire sul nostro futuro, come se non ne avessimo avuto abbastanza. Questa sarà la politica di Mario Draghi. E sebbene sia “legittimo” che molti paesi vogliano rispondere con politiche strategiche “come l’ecologizzazione dell’economia economia o la digitalizzazione”, è anche importante “un attento bilanciamento del desiderio di dirigere il processo di cambiamento contro la necessità di evitare di imporre vincoli eccessivi alle imprese in difficoltà o un’allocazione un’allocazione troppo ristretta del sostegno in troppo pochi settori o imprese specifiche”. In altre parole, se fanno profitti, anche se sono produzioni dalla bassa utilità sociale o ad alto impatto ambientale, lasciateli vivere e prosperare. E nella misura in cui ci sarà cogestione, ci sarà contrattazione sociale, si faranno sedere insieme rappresentanti sindacali e industriali, associazionismo socio-ambientale e politici, tutto ciò servirà non a definire scelte strategiche (quelle lo fa il mercato sulla base di considerazioni non sociali e ambientali, ma puramente economiche di crescita del PIL e dei profitti), ma a cercare di garantire una pace sociale affinché si lasci lavorare il mercato per operare quelle scelte strategiche.

No, in questo approccio non c’è risonanza con i desideri e le speranze del comune. Si selezionerà a quale imprese dare soldi e quali no, secondo criteri di prospettive di crescita e competitività e non di utilità sociale e ambientale. Una vecchia logica che i poteri forti del capitale hanno la faccia tosta di ripresentare. Le imprese che saranno giudicate insolventi, saranno mandate sotto, con gravi conseguenze occupazionali. Le imprese che riceveranno finanziamenti sulla base della loro futura competitività, saranno incoraggiate a innovare e ad aumentare la produttività, il che vuol dire che l’occupazione indotta, se non cala, non crescerà neanche in maniera significativa. Eccoci dunque che ci troveremo con gli stessi problemi di oggi ma ingigantiti ulteriormente: crisi occupazionale e di welfare, meccanismo economico di polarizzazione del reddito (competizione), e crisi ambientale dovuta alla natura estrattiva della competizione economica.

In questo contesto, la battaglia per un reddito di base universale è centrale. Ma anche una battaglia su cosa significhi veramente democrazia e libertà, perché affidare scelte fondamentali per la vita e la riproduzione sociale al mercato non è proprio parte di una concezione virtuosa né della democrazia né della libertà.

da qui

 

La distruzione creativa - Marco Bersani

Figure mitologiche antichissime, i draghi da sempre incutono timore, sia che simboleggino la saggezza e la nobiltà come nelle culture orientali, sia che rappresentino i divoratori del mondo come nelle culture occidentali.

Non sorprende dunque che anche il contemporaneo Mario Draghi faccia riemergere un timore ancestrale, paradossalmente espresso dalla schiera dei suoi adulatori: come spiegare altrimenti le costanti sottolineature del lato umano della persona “che ha avuto un attimo di commozione al momento dell’incarico” o “che al liceo passava i compiti ai compagni”?

Lo stesso meccanismo si riproduce intorno al dilemma su che farà Draghi da capo del governo.  Non dovrebbe essere difficile immaginarlo, dato il curriculum del “nostro” e una lineare carriera al servizio dell’espansione dei mercati finanziari nella società; invece, anche qui, assistiamo alla spasmodica ricerca del dettaglio di discontinuità, tra chi sottolinea la laurea di gioventù con Federico Caffè e chi, improvvisandosi archeologo, rintraccia la riga del tal articolo, da cui traspare un’attenzione al destino dei poveri.

Per capire cosa ci aspetta, può essere utile rifarsi all’ultimo rapporto -dicembre 2020- del “Gruppo dei Trenta”, organizzazione privata formata da importanti economisti e finanzieri internazionali, tra  i quali Mario Draghi.

Il rapporto parte dall’aumento del debito delle imprese, reso esponenziale dagli effetti della pandemia, e dalle conseguenti difficoltà del sistema bancario, che si ritrova stracolmo di crediti deteriorati.

Che fare dunque, secondo l’autorevole pensatoio? Il compito del pubblico dev’essere il sostegno al sistema finanziario, attraverso la creazione di istituti ad hoc (bad bank), sui quali convogliare i crediti inesigibili delle banche, in modo che queste possano sostenere la ripresa dell’economia.

Ripresa che non dovrà essere indiscriminata, bensì affidata alla “distruzione creativa” del capitalismo, in base alla quale solo le imprese redditizie dovranno essere sostenute, abbandonando le altre al loro destino.

A chi sarà affidato il compito di giudicarne la redditività? Al mercato, ça va sans dire. E che ne sarà delle centinaia di migliaia di persone che perderanno il lavoro? A loro il rapporto dedica una riga (per la gioia degli archeologici adulatori) per proporre interventi generici di riqualificazione.

Proviamo in poche righe a immaginare un altro scenario, che parta dalla crisi epocale provocata dal cambiamento climatico e dalla diseguaglianza sociale: l’intero sistema produttivo andrebbe rivoluzionato per mettere agricoltura, industria e terziario al servizio della cura del pianeta, della società e delle persone.

Anche questo scenario comporterebbe una distruzione creativa, (chiusura di attività nocive e apertura di attività ecologicamente e socialmente orientate) ma di segno diametralmente opposto: sarebbero le collettività e non il mercato a decidere ‘cosa, come, dove e perché’ produrre, mentre il sistema bancario e finanziario, socializzato, sarebbe messo al servizio dell’interesse generale e la garanzia di un reddito di base per tutte le persone permetterebbe una transizione veloce e condivisa.

Solo fantasticherie? La cifra del governo Draghi rappresenta un salto di qualità dei poteri finanziari con l’obiettivo di imporre tre direzioni di marcia: drenare tutte le risorse pubbliche a favore delle imprese competitive sui mercati internazionali, creare le premesse per il ripristino prima possibile della gabbia del debito e delle politiche di austerità, approfondire l’espropriazione di democrazia.

Se il realismo è un caldo invito a impugnare il violino e accomodarsi sul ponte del Titanic, è questo il momento di immaginare e di agire per la vita e la sua dignità.

 

*articolo pubblicato su il manifesto per la rubrica Nuova Finanza Pubblica

 

da qui

 

 

L’impresa può tutto - Paolo Cacciari

 

Quando sento dire – e lo sento dire sempre più spesso -: “L’impresa non può guardare solo all’indice dei profitti, ma deve essere corporate responsability e avere a cuore non solo gli interessi degli azionisti e dei manager, ma di tutti i suoi stakeholders (dipendenti, fornitori, clienti, abitanti del territorio circostante presenti e futuri), al fine di generare valore sociale, servizi, saperi, cultura…”; insomma, l’impresa deve essere friendly, capace di prendersi cura direttamente del benessere delle persone, – lo confesso – mi inquieto un poco. Cosa significa? Che le imprese (aziende, società di capitali e altre forme giuridiche delle attività economiche che hanno lo scopo di produrre o scambiare beni e servizi – secondo il Codice Civile), sole o associate, sono in grado di dare risposte a tutto ciò di cui necessita la collettività? Ovvero, che ogni attività umana deve trasformarsi in impresa? Cosa, del resto, già ampiamente successa in molti settori: ad esempio gli ospedali sono diventati “aziende ospedaliere” e le Università hanno un Consiglio di amministrazione dove siedono gli “investitori” privati. Tant’è che è in uso dire: “Azienda Italia” per indicare l’intero Paese.

La conclamata “coesione sociale” – il nuovo brand che sembra abbia scelto Draghi per il suo governo -, più che tra cittadine e cittadini portatori/rici di diritti e doveri di solidarietà, è immaginata tra possessori di particolari interessi “posti in gioco” sul mercato (stake), per l’appunto. Se non sei di una impresa, o se non ti sei “fatto impresa” non fai parte dello sforzo produttivo nazionale, non sei utile e quindi meritevole di pubblica considerazione. Nessuna emersione del lavoro riproduttivo e di cura domestico, nessuna compartecipazione alla redditività sociale, nessun reddito di esistenza, nessuno spazio per forme di autogestione e autogoverno economico delle comunità locali, ma – se va bene – avviamento al lavoro nelle imprese ben capitalizzate.

La retorica del “nuovo tipo di capitalismo” resettato (Reset Capitalism), o reinventato (Reinventing), lanciata al World Economic Forum di Davos dal suo guru, Klaus Schwab: “Mai più profitti senza etica”, è molto accattivante: immagina un capitalismo ecologico, inclusivo, persino democratico. Ci fa intendere che potremmo fare a meno dei pesanti e opprimenti apparati pubblici e dei costosi servizi collettivi, tanto ci pensano le imprese ad assicurare (è la parola giusta che evoca previdenza e welfare privati, aziendali – appunto!) a tutti e a tutte una esistenza migliore. L’impresa e il suo ambiente vitale, il mercato, sono le istituzioni portanti dell’economia e di conseguenza delle relazioni sociali. Le altre istituzioni, pubbliche e comunitarie, se proprio vogliono esistere, seguano l’intendenza a supporto.

Come ha scritto Mario Draghi recentemente, lo stato è legittimato ad intervenire in campo economico solo in presenza di conclamati «fallimenti del mercato» (Rapporto sulle politiche post-COVID redatto dal think tank G30 fondato dalla Rockefeller Foundation). Ma c’è qualche cosa che non torna. Quando leggo che la Grande Trasformazione green e resiliente del sistema economico non può fare a meno dell’apporto attivo delle imprese (e per questo le cancellerie e le banche centrali di tutto il pianeta le agevolano con lauti finanziamenti e generose defiscalizzazioni) mi sembra una cosa ovvia, ma fuorviante, perché nasconde il fatto che è stato proprio il sistema delle imprese nel libero (deregolato) mercato globalizzato a provocare i guasti ambientali e sociali in cui siamo precipitati. La crisi climatica è solo una delle catastrofi in corso. Un’altra è quella dell’immenso debito creato dalle banche che strozza gli stati, le imprese e le famiglie (vedi, di Paolo Perulli, Il debito sovrano. La fase estrema del capitalismo, La nave di Teseo, 2020). Così quando vedo i nuovi miliardari delle Big Data fare a gara, con le loro fondazioni filantropiche, per “restituire alla società ciò che la società ha dato” loro (vedi di Nicoletta Dentico, Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo, EMI, 2020), mi viene in mente un santo ritenuto tra i precursori dell’etica capitalista, Sant’Agostino: “Dona quello che hai per meritare di ricevere quello che ti manca”.

Infine, quando vedo il capo della lobbying dell’alta finanza sommare la carica di capo di governo (senza nemmeno avere bisogno del conferimento onorifico di un seggio senatoriale) allora capisco che davvero le imprese possono tutto.

da qui

 

 

 

“Draghi al governo? Non un keynesiano ma un distruttore creativo”

 

Massimo Franchi intervista Emiliano Brancaccio

 

“Le risorse del Recovery Plan sono molto modeste rispetto all’enormità di questa crisi. Draghi rischia di rivelarsi non troppo diverso dai governi “tecnici” che l’hanno preceduto”

Professor Emiliano Brancaccio, lei è sempre stato molto critico con Mario Draghi. Non è sorpreso da un consenso così ampio per il suo governo anche a sinistra?

Questa nuova avventura di Draghi nel ruolo di premier viene presentata in base a una narrativa “tecno-keynesiana”: cioè l’idea che questa volta è diverso, che il tecnico è chiamato non a tagliare – come successo storicamente – ma a distribuire ingenti risorse. Questo contribuisce al consenso generalizzato. Ma su questa idea che Draghi incarni un’ottica di tipo keynesiano io ho molti dubbi.

 

Lei contesta che il fatto che le risorse ci siano o che Draghi le distribuirà nella maniera migliore?

Io dico che il Recovery plan ha risorse modeste rispetto ad una crisi doppiamente più grave rispetto al 2011. Se infatti prendiamo i 209 miliardi che devono arrivare all’Italia, abbiamo 127 miliardi di prestiti che – in una ragionevole previsione sullo spread – non portano oltre un risparmio di 4 miliardi l’anno.

Per quanto riguarda gli 82 miliardi a fondo perduto il problema è la copertura del bilancio comune europeo che al momento è molto al di là da venire – c’è solo l’idea di una tassa sulla plastica – e quindi toccherà agli stessi stati membri coprire come di consueto in base al proprio Pil: ciò significa che l’Italia non pagherà meno di 40 miliardi. Infine, va considerato che l’Italia anche nei prossimi anni sarà «contributore netto» dell’Ue per 20 miliardi. Dunque restano 22 miliardi netti, cioè meno di 4 miliardi netti all’anno. Insomma, tra risparmi sugli interessi e risorse a fondo perduto, saranno meno di 10 miliardi netti l’anno. Se si considera che l’Italia ha visto distruggere 160 miliardi di Pil nel 2020, è chiaro che si tratta di risorse molto modeste. Per questo dico che il governo Draghi rischia di rivelarsi non troppo diverso dai vecchi governi “tecnici” dell’austerity.

 

Il consenso, anche dei sindacati, è basato sull’impegno al dialogo sociale. Però è vero che nessuno sa cosa pensa Mario Draghi ad esempio dello stop ai licenziamenti che scade a fine marzo…

Forse però qualcosa sappiamo. In questi giorni si fa molto riferimento al Draghi allievo di Federico Caffe. Certo, alla Bce è stato keynesiamo – anche se non so se Alexi Tsipras sarebbe d’accordo – ma è sempre stato un assertore delle virtù selettive del mercato. E questo è confermato dall’ultimo documento ufficiale che ha redatto a metà dicembre da capo del comitato esecutivo del “gruppo dei 30”. In quel documento non evoca le magnifiche sorti della politica keynesiana. Tutt’altro: dice esplicitamente che le “imprese zombie” devono essere liquidate e bisogna favorire il passaggio dei lavoratori alle imprese virtuose – quindi flessibilità del lavoro. Io la chiamo una visione da «distruttore creativo» perché il passaggio dei lavoratori in un momento di crisi è piuttosto fantasiosa e nella totale assenza di una pianificazione del cambiamento non sarà indolore. Insomma, Draghi sembra uno schumpeteriano – colui che definì «la distruzione creatrice» – in salsa liberista.

 

Questo farebbe il paio con l’idea di mantenere il Reddito di cittadinanza, magari puntando sulle mitiche politiche attive per ricollocarli.

In questa logica dell’affidarsi al meccanismi selettivi del mercato, il Reddito di cittadinanza – nella forma specifica di sussidio – ci sta bene perché crea un cuscinetto temporaneo. I pericoli grossi stanno altrove: temo sarà ostile al blocco dei licenziamenti così come temo che possa promuovere una riduzione della cassa integrazione, ridimensionata verso un sussidio di disoccupazione coerente con un liberismo temperato.

 

Stessa cosa per le pensioni? Quota 100 non ha funzionato ma a fine 2021 – grazie a Salvini – si torna alla Fornero con lo scalone.

Sulle pensioni gli interessi prevalenti spingono tuttora per ripristinare la previdenza complementare e portare i lavoratori sul mercato finanziario. Così come verso un aumento dell’età di pensionamento. L’unica verità è che bisognerebbe ripristinare una forma di fiscalizzazione degli oneri sociali: le pensioni future saranno così modeste che servirà un intervento fiscale oltre i contributi.

 

Maria Cecilia Guerra sul Manifesto ha sostenuto che ha una logica stare dentro il governo per condizionare le politiche che farà.

Io credo che questo tipo di “entrismo” sia sbagliato. I “tecnici” non fanno altro che accelerare la tendenza storica al depotenziamento delle istituzioni parlamentari e della esecutivizzazione del processo politico, concentrando nelle mani del governo il potere decisionale. Dubito fortemente che un’adesione, pur critica, possa condizionarne la linea.

 

Però è vero che gli esecutivi tecnici non sono mai durati molto: Ciampi 8 mesi, Monti 1 anno e mezzo. Gli si stacca la spina quando si capisce che fa cose sbagliate.

A maggior ragione meglio restare fuori. Anche perché quei governi sono durati poco ma hanno comportato cambiamenti di politica economica colossali, che ancora paghiamo.

 

Se le cose stanno così, quale prospettiva può avere la sinistra? Conflitto? Sciopero generale?

Per quanto duro sia questo periodo storico, bisogna rilanciare la lotta sociale. Non è possibile che gli unici in grado di mobilitarsi siano i rappresentanti degli interessi reazionari e piccolo borghesi. Serve che la classe subalterna si eserciti nuovamente nella lotta per il progresso sociale e civile.

da qui

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