“Draghi al servizio di
Bruxelles, ogni democratico dovrebbe dire di no”
Alessandro
Gilioli intervista Yanis Varoufakis
Ministro delle Finanze greco proprio durante la crisi finanziaria che portò
Atene a un passo dalla bancarotta, Yanis Varoufakis commenta con il direttore
Alessandro Gilioli l’ipotesi di affidare il nuovo Governo a Mario Draghi.
* * * *
Lei ha conosciuto molto bene Draghi quando era ministro delle finanze in
Grecia. Ci può dire che impressione le ha fatto dal punto di vista umano, ma
soprattutto dal punto di vista della sua visione politica?
Umanamente Draghi è come tutti gli altri a Bruxelles e Francoforte, almeno
per come lo ricordo all’Eurogruppo. Politicamente è al servizio dell’ordine
finanziario. Tecnicamente è molto capace, e ha mostrato grandi capacità di
capire cosa va bene e cosa no nella logica del servizio all’ordine finanziario
e all’establishment. In questo senso è il premier ideale per l’Italia, se
quello che voi veramente volete è implementare le politiche di Bruxelles e
Berlino, e di fingere che il Recovery Fund è veramente la salvezza dell’Italia. Mentre
non è altro che un pacchetto di debiti.
Quindi lei ritiene che abbiano ragione quelli che dicono che in Italia non
abbiamo la Troika, perché ce la siamo fatta da soli. È Draghi stesso la Troika
in casa?
Non sarebbe la prima volta, è già successo con Mario Monti, un altro uomo
intelligente il cui governo tecnico ha agito come voleva la Troika, altrimenti
sarebbe arrivata la Troika vera e propria. E’ così che che le cose funzionano
nell’Eurozona, specialmente nei paesi vicini alla bancarotta, quelli che non
sono sostenibili all’interno di questa unione monetaria, dove le decisioni
politiche vengono dettate dall’estero, dai centri del potere finanziario e con
il supporto entusiasta delle oligarchie locali, greche o italiane che siano,
contro la grande maggioranza delle persone, del popolo.
D’altra parte molte persone esaltano la competenza di Mario Draghi. Molti
dicono “è così qualificato, competente, prestigioso. Molto meglio del ceto
politico che finora abbiamo visto in Italia”.
Indubbiamente Draghi è intelligente e molto competente, molto bravo a
raggiungere i suoi obiettivi. la grande tragedia del popolo italiano è che i
suoi obiettivi sono nemici degli interessi della grande maggioranza degli
italiani.
Un’altra domanda che tutti si fanno è che cosa farà Draghi. Se è di destra
o di sinistra. Se toccherà le pensioni, se toccherà il welfare. Se darà soldi
alle aziende e come spenderà i soldi del Recovery Fund. Lei cosa ne pensa?
Draghi non sarà autonomo, come non lo era l’ex premier Monti. Dovrà
riferire a partiti che ormai sono degli zombie ma soprattutto a Bruxelles e
Berlino. Potrebbe anche avere una sembianza abbastanza keynesiana e
socialdemocratica, in pubblico magari incolperà perfino Bruxelles, Francoforte
e Berlino di non sostenerlo abbastanza, ma eseguirà tutti i loro imperativi.
Se lei fosse un membro del Parlamento italiano e si trovasse di fronte
all’alternativa tra Draghi e le elezioni, nelle quali probabilmente vincerebbe
l’estrema destra, lei cosa farebbe?
Come democratico, voterei sempre contro un tecnocrate come Mario Draghi, è
essenziale che noi difendiamo il diritto delle persone di scegliere chi le
governa. E oltre a questo devo dire che personalmente ricordo bene quando
Draghi è stato decisivo nella chiusura dei bancomat in Grecia, così da impedire
che il popolo greco decidesse liberamente nel referendum in cui si decideva la
posizione da tenere nei confronti di Bruxelles. Penso che ogni democratico in
Italia debba opporsi al suo governo.
Draghi e il fragoroso silenzio su Regeni - Alberto
Negri
Per il neo primo ministro la nostra politica estera,
fuori dell’europeismo e dall’atlantismo, si liquida con otto righe. Ignorata la
Libia, dimenticato l’Egitto. Forse passerà le patate bollenti a un Di Maio
estromesso dall’Europa
Visto da Draghi il mondo è vicino e lontano allo
stesso tempo. Molto vicino a Berlino, alla Bce di Francoforte e alla Merkel che
insieme alla Francia, sono l’ancoraggio, un po’ traballante un verità, di
questa Italia a due sole velocità, europeista e atlantista fino allo spasimo.
La Merkel tra l’altro a settembre lascia il posto di
cancelliere e non è detto che la costruzione europea regga bene, visto che lei,
come ben sa Draghi da capo della Bce e salvatore dell’euro, ne è stata il
condizionamento ma anche la colonna portante.
Il mondo visto dal «banchiere di tutti» è lontano
quando ci si allontana dall’asse Berlino-Parigi. Nel suo discorso al senato il
resto del mondo, dal Mediterraneo ai Balcani, ha meritato l’altro giorno
soltanto otto righe. Anzi sul caso Regeni (e su Zaki) che scuote da cinque anni
i governi e l’opinione pubblica è calato il silenzio più totale. Un bel
silenzio non fu mai scritto dicono i saggi ma nell’ufficio studi del presidente
del Consiglio deve essere successo qualche cosa: o non hanno letto i giornali
negli ultimi tempi, oppure l’hanno fatto apposta.
Insomma per Draghi la nostra politica estera, fuori
dell’europeismo e dall’atlantismo, si liquida con otto righe. Mica tanto in un
discorso durato un’ora.
È vero che non si può entrare troppo nello specifico
ma visto che si è dilungato a parlare persino degli istituti tecnici non si
vede perché si debba ignorare il caso dell’Egitto, di Giulio Regeni e di Zaki.
Il caso Regeni, con la Libia, costituisce il problema
irrisolto di tutti i governi negli ultimi cinque anni. Non solo: la procura di
Roma ha accertato la responsabilità in giudizio della polizia e dei servizi
egiziani che hanno torturato e ucciso un cittadino italiano mentre il Cairo ci
sta costantemente umiliando negando la sua collaborazione e prendendo in giro
sia l’Italia che la sua magistratura. Questo silenzio di Draghi è tanto più
rilevante in quanto lo stesso premier ha menzionato le violazioni della Russia
sui diritti umani.
Come diceva Andreotti, citando un Papa e un cardinale,
a pensare male si fa peccato ma spesso ci si indovina. Forse Draghi vuole
scaricare la patate bollente del caso Regeni e di Zaki, lo studente egiziano di
Bologna detenuto ingiustamente, al ministro degli Esteri Di Maio, che non
potendo toccare palla in Europa e probabilmente fortemente limitato dal nuovo
consigliere diplomatico di Draghi, l’esperto ambasciatore Mattiolo, verrà
mandato in giro per il Mediterraneo e i Balcani.
Certo che questo silenzio su un caso che ha scosso e
continua a scuotere l’opinione pubblica italiana qualche pensiero malevolo lo
solleva. Forse – ma è solo un’ipotesi – Draghi non vuole mettere in pericolo le
nostri forniture di armi (10 miliardi di euro di contratti) con il generale e
dittatore Al Sisi.
Le guerre probabilmente sono collocate per Draghi in
un mondo remoto lontano dagli ovattati corridoi delle banche che di solito
frequenta: qualcuno dovrà spiegargli che in violazione delle nostre stesse
leggi stiamo vendendo jet da addestramento della Leonardo a un Paese in guerra
come l’Azerbaijan che con la Turchia e il sostegno di Israele ha aggredito
l’Armenia. Draghi, gesuita di vaglia, cita il Papa ma si dimentica dei
cristiani. Strano.
L’impressione è che con il banchiere di tutti noi
siamo molto più che atlantisti, siamo schierati con gli Usa, naturalmente, la
potenza occupante, ma anche con il Patto di Abramo tra Israele e gli arabi del
Golfo che finanziano a piene mani l’Egitto e ci compra le armi. Non una grande
svolta. Il silenzio di Draghi su Regeni è già fragoroso.
(da il manifesto)
La selezione naturale - Massimo De Angelis
Una civiltà è la meta-cultura di un tempo e designa i modi di relazione
dominante al fine della riproduzione sociale. La pandemia è solo
l’ultima delle rivelazioni di come la pratica civilizzatrice del capitalismo
sia un modello di riproduzione sociale e ambientale violento, discriminatorio e
distruttivo. La designazione di Mario Draghi a presidente del consiglio non
sarà certamente l’occasione per cambiare modello. Al contrario, corona il
capitale finanziario a guida del capitale in generale, in una fase critica
attraversata da domande fondamentali e tensioni sociali profonde non solo per
il destino dell’accumulazione capitalistica ma anche della sua modalità
civilizzatrice.
Come ci ha fatto notare un recente articolo di Marco Bersani su il
manifesto, Mario Draghi è parte del Gruppo dei 30, un think tank internazionale composta
da grandi capitali finanziari e personalità come Yi Gang (governatore della
Banca Popolare della Cina), o Janet Yellen (di recente nomina a segretaria del
tesoro dal presidente Biden). Il Gruppo dei 30 ha stilato un rapporto su come
affrontare il dopo pandemia, presentato dallo
stesso Draghi in un video sul sito del gruppo. Quello che mi interessa
sottolineare di questo rapporto è la questione della solvibilità di imprese e
settori del dopo pandemia, e della necessaria selezione che si dovrà operare
per distribuire le risorse del Recovery Plan.
Nel Recovery Plan europeo — e la stessa logica si può applicare anche a
quello di Biden — non ci saranno soldi per tutti, occorrerà
scegliere una strategica. Non c’è dunque solo la questione della priorità
tematiche del Recovery (conversione ecologica, digitalizzazione etc.), ma anche
l’esigenza di stabilire criteri per selezionare quali imprese riceveranno
aiuti e quali invece saranno lasciate andare in fallimento. Sì, perché se fino
ad ora la crisi si è manifestata come crisi di liquidità, si sta entrando ora
nella prospettiva di crisi di solvibilità: la recessione economica
innescata dalla pandemia, ha portato il mondo delle imprese (piccole o grandi
che siano), a stratificarsi in livelli diversi di vulnerabilità finanziaria
attraverso l’accumulazione di debiti insostenibili. Su quali basi selezionare
quelle da aiutare e quelle no? Sulla base del loro percepito contributo alla
ripresa della crescita. Non è più questione di prendere tempo provvedendo
liquidità alle imprese in difficoltà, ma bisogna focalizzarsi su “questioni
strutturali e sulla solvibilità” e sulla “salute di lungo periodo del settore
delle imprese”. Questo significa che occorre cambiare approccio: “da misure
generali dobbiamo spostarci su misure con obiettivi precisi che permettono di
stabilire una nuova allocazione delle risorse”.
Questa dovrà essere effettuata privilegiando le risorse più “produttive”,
cioè quelle che permettono di aumentare competitività e ridurre lo spettro
dell’insolvenza. E per il Gruppo dei 30 “è critico in questa fase che la
politica pubblica si orienti verso una forte ripresa economica”. E come
si garantisce la ripresa economica? Lasciar fare agli esperti, cioè
“prendendo vantaggio delle capacità del settore privato laddove esistono, al
fine di sfruttare le scarse risorse pubbliche e fare utilizzo delle competenze
del settore privato per valutare la fattibilità delle imprese”. Selezionare chi
sta dentro e sta fuori, scegliere dove andare, dove investire risorse ed
energie sociali, cosa fare, è il passo principale di costruzione del nostro
mondo, della nostra realtà. Selezionare è operare una distinzione,
è creare il mondo nel quale si vive e si coopera, è distinguere chi sta dentro
e chi sta fuori, ciò che noi stabiliamo cosa è bene in dati contesti e ciò che
è male. Secondo il Gruppo dei 30 questa selezione non la deve fare la
moltitudine attraverso un dibattito pubblico e strumenti (vecchi o
nuovi) di rappresentanza politica, in un contesto di una molteplicità di crisi
sociali, violenze, diseguaglianze, indegnità e collasso ecologico. La
deve fare lo stesso algoritmo sociale che ci ha portato a devastanti crisi
sociali, al collasso ecologico e al contesto per l’esplosione pandemica: il
mercato.
Diamo dunque in mano al mercato la scelta strategia di dove investire sul
nostro futuro, come se non ne avessimo avuto abbastanza. Questa sarà la
politica di Mario Draghi. E sebbene sia “legittimo” che molti paesi vogliano
rispondere con politiche strategiche “come l’ecologizzazione dell’economia
economia o la digitalizzazione”, è anche importante “un attento bilanciamento
del desiderio di dirigere il processo di cambiamento contro la necessità di
evitare di imporre vincoli eccessivi alle imprese in difficoltà o
un’allocazione un’allocazione troppo ristretta del sostegno in troppo pochi
settori o imprese specifiche”. In altre parole, se fanno profitti,
anche se sono produzioni dalla bassa utilità sociale o ad alto impatto
ambientale, lasciateli vivere e prosperare. E nella misura in cui ci sarà
cogestione, ci sarà contrattazione sociale, si faranno sedere insieme
rappresentanti sindacali e industriali, associazionismo socio-ambientale e
politici, tutto ciò servirà non a definire scelte strategiche (quelle lo fa il
mercato sulla base di considerazioni non sociali e ambientali, ma puramente
economiche di crescita del PIL e dei profitti), ma a cercare di garantire una
pace sociale affinché si lasci lavorare il mercato per operare quelle scelte
strategiche.
No, in questo approccio non c’è risonanza con i desideri e le speranze del
comune. Si selezionerà a quale imprese dare soldi e quali no, secondo criteri di
prospettive di crescita e competitività e non di utilità sociale e ambientale.
Una vecchia logica che i poteri forti del capitale hanno la faccia tosta di
ripresentare. Le imprese che saranno giudicate insolventi, saranno mandate
sotto, con gravi conseguenze occupazionali. Le imprese che riceveranno
finanziamenti sulla base della loro futura competitività, saranno incoraggiate
a innovare e ad aumentare la produttività, il che vuol dire che l’occupazione
indotta, se non cala, non crescerà neanche in maniera significativa. Eccoci dunque
che ci troveremo con gli stessi problemi di oggi ma ingigantiti ulteriormente:
crisi occupazionale e di welfare, meccanismo economico di polarizzazione del
reddito (competizione), e crisi ambientale dovuta alla natura estrattiva della
competizione economica.
In questo contesto, la battaglia per un reddito di base universale è
centrale. Ma anche una battaglia su cosa significhi veramente democrazia e
libertà, perché affidare scelte fondamentali per la vita e la riproduzione sociale
al mercato non è proprio parte di una concezione virtuosa né della democrazia
né della libertà.
La distruzione creativa - Marco Bersani
Figure
mitologiche antichissime, i draghi da sempre incutono timore, sia che
simboleggino la saggezza e la nobiltà come nelle culture orientali, sia che
rappresentino i divoratori del mondo come nelle culture occidentali.
Non
sorprende dunque che anche il contemporaneo Mario Draghi faccia riemergere un
timore ancestrale, paradossalmente espresso dalla schiera dei suoi adulatori:
come spiegare altrimenti le costanti sottolineature del lato umano della
persona “che ha avuto un attimo di commozione al momento dell’incarico” o “che
al liceo passava i compiti ai compagni”?
Lo stesso
meccanismo si riproduce intorno al dilemma su che farà Draghi da capo del
governo. Non dovrebbe essere difficile immaginarlo, dato il curriculum
del “nostro” e una lineare carriera al servizio dell’espansione dei mercati
finanziari nella società; invece, anche qui, assistiamo alla spasmodica ricerca
del dettaglio di discontinuità, tra chi sottolinea la laurea di gioventù con
Federico Caffè e chi, improvvisandosi archeologo, rintraccia la riga del tal
articolo, da cui traspare un’attenzione al destino dei poveri.
Per capire
cosa ci aspetta, può essere utile rifarsi all’ultimo rapporto -dicembre
2020- del “Gruppo dei Trenta”, organizzazione privata formata da importanti
economisti e finanzieri internazionali, tra i quali Mario Draghi.
Il rapporto
parte dall’aumento del debito delle imprese, reso esponenziale dagli effetti
della pandemia, e dalle conseguenti difficoltà del sistema bancario, che si
ritrova stracolmo di crediti deteriorati.
Che fare
dunque, secondo l’autorevole pensatoio? Il compito del pubblico dev’essere il sostegno al
sistema finanziario, attraverso la creazione di istituti ad hoc (bad bank),
sui quali convogliare i crediti inesigibili delle banche, in modo che queste
possano sostenere la ripresa dell’economia.
Ripresa che
non dovrà essere indiscriminata, bensì affidata alla “distruzione creativa” del
capitalismo, in base alla quale solo le imprese redditizie dovranno essere
sostenute, abbandonando le altre al loro destino.
A chi sarà
affidato il compito di giudicarne la redditività? Al mercato, ça va
sans dire. E che ne sarà delle centinaia di migliaia di persone che
perderanno il lavoro? A loro il rapporto dedica una riga (per la gioia degli
archeologici adulatori) per proporre interventi generici di riqualificazione.
Proviamo in
poche righe a immaginare un altro scenario, che parta dalla crisi epocale
provocata dal cambiamento climatico e dalla diseguaglianza sociale: l’intero
sistema produttivo andrebbe rivoluzionato per mettere agricoltura, industria e
terziario al servizio della cura del pianeta, della società e delle persone.
Anche questo
scenario comporterebbe una distruzione creativa, (chiusura di attività nocive e
apertura di attività ecologicamente e socialmente orientate) ma di segno
diametralmente opposto: sarebbero le collettività e non il mercato a decidere ‘cosa,
come, dove e perché’ produrre, mentre il sistema bancario e
finanziario, socializzato, sarebbe messo al servizio dell’interesse generale e
la garanzia di un reddito di base per tutte le persone permetterebbe una transizione
veloce e condivisa.
Solo
fantasticherie? La cifra del governo Draghi rappresenta un salto di
qualità dei poteri finanziari con l’obiettivo di imporre tre direzioni di
marcia: drenare tutte le risorse pubbliche a favore delle imprese competitive
sui mercati internazionali, creare le premesse per il ripristino prima
possibile della gabbia del debito e delle politiche di austerità, approfondire
l’espropriazione di democrazia.
Se il
realismo è un caldo invito a impugnare il violino e accomodarsi sul ponte del
Titanic, è questo il momento di immaginare e di agire per la vita e la sua
dignità.
*articolo
pubblicato su il manifesto per la rubrica Nuova Finanza
Pubblica
L’impresa può tutto - Paolo Cacciari
Quando sento dire – e lo sento dire sempre più spesso -: “L’impresa non può
guardare solo all’indice dei profitti, ma deve essere corporate responsability e
avere a cuore non solo gli interessi degli azionisti e dei manager, ma di tutti
i suoi stakeholders (dipendenti, fornitori, clienti, abitanti del territorio
circostante presenti e futuri), al fine di generare valore sociale, servizi,
saperi, cultura…”; insomma, l’impresa deve essere friendly, capace
di prendersi cura direttamente del benessere delle persone, – lo confesso – mi
inquieto un poco. Cosa significa? Che le imprese (aziende, società di capitali
e altre forme giuridiche delle attività economiche che hanno lo scopo di
produrre o scambiare beni e servizi – secondo il Codice Civile), sole o
associate, sono in grado di dare risposte a tutto ciò di cui necessita la
collettività? Ovvero, che ogni attività umana deve trasformarsi in
impresa? Cosa, del resto, già ampiamente successa in molti settori: ad
esempio gli ospedali sono diventati “aziende ospedaliere” e le Università hanno
un Consiglio di amministrazione dove siedono gli “investitori” privati. Tant’è
che è in uso dire: “Azienda Italia” per indicare l’intero Paese.
La conclamata “coesione sociale” – il nuovo brand che sembra abbia scelto
Draghi per il suo governo -, più che tra cittadine e cittadini portatori/rici
di diritti e doveri di solidarietà, è immaginata tra possessori di particolari
interessi “posti in gioco” sul mercato (stake), per l’appunto. Se non sei di una
impresa, o se non ti sei “fatto impresa” non fai parte dello sforzo produttivo
nazionale, non sei utile e quindi meritevole di pubblica considerazione. Nessuna
emersione del lavoro riproduttivo e di cura domestico, nessuna
compartecipazione alla redditività sociale, nessun reddito di esistenza,
nessuno spazio per forme di autogestione e autogoverno economico delle comunità
locali, ma – se va bene – avviamento al lavoro nelle imprese ben
capitalizzate.
La retorica del “nuovo tipo di capitalismo” resettato (Reset Capitalism),
o reinventato (Reinventing), lanciata al World Economic Forum di Davos dal suo
guru, Klaus Schwab: “Mai più profitti senza etica”, è molto accattivante:
immagina un capitalismo ecologico, inclusivo, persino democratico. Ci fa
intendere che potremmo fare a meno dei pesanti e opprimenti apparati pubblici e
dei costosi servizi collettivi, tanto ci pensano le imprese ad assicurare (è la
parola giusta che evoca previdenza e welfare privati, aziendali – appunto!) a
tutti e a tutte una esistenza migliore. L’impresa e il suo ambiente
vitale, il mercato, sono le istituzioni portanti dell’economia e di conseguenza
delle relazioni sociali. Le altre istituzioni, pubbliche e comunitarie, se
proprio vogliono esistere, seguano l’intendenza a supporto.
Come ha scritto Mario Draghi recentemente, lo stato è legittimato ad
intervenire in campo economico solo in presenza di conclamati «fallimenti del
mercato» (Rapporto sulle politiche post-COVID redatto dal think tank G30
fondato dalla Rockefeller Foundation). Ma c’è qualche cosa che non torna.
Quando leggo che la Grande Trasformazione green e resiliente
del sistema economico non può fare a meno dell’apporto attivo delle imprese (e
per questo le cancellerie e le banche centrali di tutto il pianeta le agevolano
con lauti finanziamenti e generose defiscalizzazioni) mi sembra una cosa ovvia,
ma fuorviante, perché nasconde il fatto che è stato proprio il sistema
delle imprese nel libero (deregolato) mercato globalizzato a provocare i guasti
ambientali e sociali in cui siamo precipitati. La crisi climatica è solo
una delle catastrofi in corso. Un’altra è quella dell’immenso debito creato
dalle banche che strozza gli stati, le imprese e le famiglie (vedi, di Paolo
Perulli, Il debito sovrano. La fase estrema del capitalismo, La
nave di Teseo, 2020). Così quando vedo i nuovi miliardari delle Big Data fare a
gara, con le loro fondazioni filantropiche, per “restituire alla
società ciò che la società ha dato” loro (vedi di Nicoletta Dentico, Ricchi
e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo, EMI, 2020), mi viene in
mente un santo ritenuto tra i precursori dell’etica capitalista, Sant’Agostino:
“Dona quello che hai per meritare di ricevere quello che ti manca”.
Infine, quando vedo il capo della lobbying dell’alta finanza sommare la
carica di capo di governo (senza nemmeno avere bisogno del conferimento
onorifico di un seggio senatoriale) allora capisco che davvero le imprese possono
tutto.
“Draghi al
governo? Non un keynesiano ma un distruttore creativo”
Massimo Franchi intervista Emiliano Brancaccio
“Le risorse del Recovery Plan sono molto modeste rispetto all’enormità di
questa crisi. Draghi rischia di rivelarsi non troppo diverso dai governi
“tecnici” che l’hanno preceduto”
Professor Emiliano Brancaccio, lei è sempre stato molto critico con Mario
Draghi. Non è sorpreso da un consenso così ampio per il suo governo anche a
sinistra?
Questa nuova avventura di Draghi nel ruolo di premier viene presentata in
base a una narrativa “tecno-keynesiana”: cioè l’idea che questa volta è
diverso, che il tecnico è chiamato non a tagliare – come successo storicamente
– ma a distribuire ingenti risorse. Questo contribuisce al consenso
generalizzato. Ma su questa idea che Draghi incarni un’ottica di tipo
keynesiano io ho molti dubbi.
Lei contesta che il fatto che le risorse ci siano o che Draghi le
distribuirà nella maniera migliore?
Io dico che il Recovery plan ha risorse modeste rispetto ad una crisi
doppiamente più grave rispetto al 2011. Se infatti prendiamo i 209 miliardi che
devono arrivare all’Italia, abbiamo 127 miliardi di prestiti che – in una
ragionevole previsione sullo spread – non portano oltre un risparmio di 4
miliardi l’anno.
Per quanto riguarda gli 82 miliardi a fondo perduto il problema è la
copertura del bilancio comune europeo che al momento è molto al di là da venire
– c’è solo l’idea di una tassa sulla plastica – e quindi toccherà agli stessi
stati membri coprire come di consueto in base al proprio Pil: ciò significa che
l’Italia non pagherà meno di 40 miliardi. Infine, va considerato che l’Italia
anche nei prossimi anni sarà «contributore netto» dell’Ue per 20 miliardi.
Dunque restano 22 miliardi netti, cioè meno di 4 miliardi netti all’anno.
Insomma, tra risparmi sugli interessi e risorse a fondo perduto, saranno meno
di 10 miliardi netti l’anno. Se si considera che l’Italia ha visto distruggere
160 miliardi di Pil nel 2020, è chiaro che si tratta di risorse molto modeste.
Per questo dico che il governo Draghi rischia di rivelarsi non troppo diverso
dai vecchi governi “tecnici” dell’austerity.
Il consenso, anche dei sindacati, è basato sull’impegno al dialogo sociale.
Però è vero che nessuno sa cosa pensa Mario Draghi ad esempio dello stop ai
licenziamenti che scade a fine marzo…
Forse però qualcosa sappiamo. In questi giorni si fa molto riferimento al
Draghi allievo di Federico Caffe. Certo, alla Bce è stato keynesiamo – anche se
non so se Alexi Tsipras sarebbe d’accordo – ma è sempre stato un assertore
delle virtù selettive del mercato. E questo è confermato dall’ultimo documento
ufficiale che ha redatto a metà dicembre da capo del comitato esecutivo del
“gruppo dei 30”. In quel documento non evoca le magnifiche sorti della politica
keynesiana. Tutt’altro: dice esplicitamente che le “imprese zombie” devono
essere liquidate e bisogna favorire il passaggio dei lavoratori alle imprese
virtuose – quindi flessibilità del lavoro. Io la chiamo una visione da
«distruttore creativo» perché il passaggio dei lavoratori in un momento di
crisi è piuttosto fantasiosa e nella totale assenza di una pianificazione del
cambiamento non sarà indolore. Insomma, Draghi sembra uno schumpeteriano –
colui che definì «la distruzione creatrice» – in salsa liberista.
Questo farebbe il paio con l’idea di mantenere il Reddito di cittadinanza,
magari puntando sulle mitiche politiche attive per ricollocarli.
In questa logica dell’affidarsi al meccanismi selettivi del mercato, il
Reddito di cittadinanza – nella forma specifica di sussidio – ci sta bene
perché crea un cuscinetto temporaneo. I pericoli grossi stanno altrove: temo
sarà ostile al blocco dei licenziamenti così come temo che possa promuovere una
riduzione della cassa integrazione, ridimensionata verso un sussidio di
disoccupazione coerente con un liberismo temperato.
Stessa cosa per le pensioni? Quota 100 non ha funzionato ma a fine 2021 –
grazie a Salvini – si torna alla Fornero con lo scalone.
Sulle pensioni gli interessi prevalenti spingono tuttora per ripristinare
la previdenza complementare e portare i lavoratori sul mercato finanziario.
Così come verso un aumento dell’età di pensionamento. L’unica verità è che
bisognerebbe ripristinare una forma di fiscalizzazione degli oneri sociali: le
pensioni future saranno così modeste che servirà un intervento fiscale oltre i
contributi.
Maria Cecilia Guerra sul Manifesto ha sostenuto che ha una logica stare
dentro il governo per condizionare le politiche che farà.
Io credo che questo tipo di “entrismo” sia sbagliato. I “tecnici” non fanno
altro che accelerare la tendenza storica al depotenziamento delle istituzioni
parlamentari e della esecutivizzazione del processo politico, concentrando
nelle mani del governo il potere decisionale. Dubito fortemente che
un’adesione, pur critica, possa condizionarne la linea.
Però è vero che gli esecutivi tecnici non sono mai durati molto: Ciampi 8
mesi, Monti 1 anno e mezzo. Gli si stacca la spina quando si capisce che fa
cose sbagliate.
A maggior ragione meglio restare fuori. Anche perché quei governi sono
durati poco ma hanno comportato cambiamenti di politica economica colossali,
che ancora paghiamo.
Se le cose stanno così, quale prospettiva può avere la sinistra? Conflitto?
Sciopero generale?
Per quanto duro sia questo periodo storico, bisogna rilanciare la lotta
sociale. Non è possibile che gli unici in grado di mobilitarsi siano i
rappresentanti degli interessi reazionari e piccolo borghesi. Serve che la
classe subalterna si eserciti nuovamente nella lotta per il progresso sociale e
civile.
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