Draghi: Il buio che stiamo attraversando - Marco Revelli
E’
impressionante il coro di giubilo che ha accolto la chiamata di Mario Draghi al
Colle, già la sera del 2 febbraio. Ma chi ha la voglia di guardare oltre le
prime pagine dei quotidiani – che come si sa dal giorno dopo servono solo a
incartare il pesce -, e di pensare un po’ più lungo delle proprie ciglia sa che
quella di martedì scorso è stata una giornata nera. Una data da segnare nigro
lapillo per almeno due buone ragioni, non contingenti né di
superficie. In primo luogo perché in quelle poche ore che passano tra il
prolungamento ormai stucchevole del tavolo nella Sala della Lupa e la resa di
Fico, è stato inferto un colpo mortale alla politica. Non a un governo, o a una
coalizione già di per se stessa boccheggiante, ma alla politica tout
court. E’ stato certificato il dissolvimento di tutti i suoi linguaggi,
divenuti via via privi di senso di fronte ai capovolgimenti e alle triple
verità, e insieme il fallimento di tutti i suoi protagonisti, di maggioranza e
di opposizione, incapaci di uscire dal labirinto nel quale un pirata politico
senza scrupoli come Matteo Renzi li aveva cacciati, annunciandone il
commissariamento da parte di un “uomo di Banca” quale Mario Draghi nella sua
sostanza è. Se è vero l’assunto che nello “stato d’eccezione” si rivela il vero
Sovrano, ebbene in questo drammatico stato d’eccezione in cui pandemia sanitaria
e follia politica ci hanno gettato, Sovrana si rivela, infine, la potenza del
Denaro, nella forma antropizzata dei suoi sacerdoti e gestori.
Ma c’è una
seconda ragione per considerare foriera di sciagure la giornata del 2 di
febbraio: ed è che quella sera si è aperto un vaso di Pandora. Si è messa in
moto una reazione a catena che forse già nell’immediato ma sicuramente nel
tempo medio è destinata a colpire al cuore (quasi) tutte le forze politiche che
compongono il già ampiamente lesionato sistema politico italiano. Tutte
fragili, attraversate da un reticolo di fratture, di contrasti personali, di
conflitti di piccoli gruppi e comitati d’affari, nessuna saldata da una qualche
cultura politica forte capace di prevalere sui personalismi, a cui il gioco al
massacro inaugurato dal demolitore di Rignano ha impresso un’accelerazione
folle, senza freno né direzione, innescando una potenziale esplosione
centrifuga di ognuna. Dei 5Stelle di certo, a cui l’onda di piena crescente
aveva portato un patrimonio elettorale enorme e un personale politico
raccogliticcio, destinato oggi a disperdersi con la fase calante. Ma anche il
Pd, il cui arcipelago di frazioni teneva insieme con lo sputo, pieno com’era
delle mine vaganti disseminate da Renzi al suo interno, ma in cui l’ultimo
azzardo del suo ex segretario non potrà che rinfocolare ripicche e rancori
vecchi e nuovi. E la Lega stessa non potrà reggere l’urto del cambio di
paradigma politico senza vedere le proprie linee di faglia allargarsi,
nell’impossibilità di tenere insieme un eventuale sostegno (diretto o
indiretto) all’uomo-simbolo dell’ “Europa della Finanza” con la militanza sul
fronte del sovranismo etnocentrico. Forse solo Fratelli d’Italia si potrà
salvare dal maelstrom restandone ai bordi. Può darsi che
nell’immediato si trovi una qualche formula capace di salvare la faccia ai
principali players: una riedizione della maggioranza giallo-rosa a
guida Draghi anziché Conte, magari con la benedizione dello stesso Conte; una
“maggioranza Ursula” con dentro anche il caimano rimesso miracolosamente al
mondo; un ibrido o un cyborg metà politico metà tecnico. Qualcosa insomma che
permetta alla legislatura di restare in piedi allontanando l’Armageddon delle
elezioni anticipate e il salto nel buio prima dell’elezione del Presidente
della Repubblica, e di offrire all’Europa una faccia rassicurante a cui
affidare i miliardi del Recovery fund e un simulacro di
equilibrio istituzionale per sedare le ansie di chi sa di essere sull’orlo di
un abisso… Ma la tendenza è e resta al generale dissolvimento di ogni possibile
quadro politico il che equivale, tecnicamente, a una “crisi di sistema” che
potrebbe rivelarsi una voragine nelle urne del 2023.
Sappiamo
benissimo che quella deriva dissolutiva era in corso da tempo, da almeno due
lustri: per lo meno da quando nel 2011 l’esplosione esponenziale dello spread aveva
determinato il default dell’ultimo governo Berlusconi e –
anche in quella circostanza – la fuga di tutte le forze politiche dalle proprie
responsabilità per nascondersi dietro lo scudo dei tecnici di Mario Monti (un
altro Mario!) a cui lasciar svolgere il lavoro sporco della macelleria sociale
che l’Europa “ci chiedeva”. Sappiamo anche che da quel tunnel il sistema dei
partiti italiano era uscito completamente trasformato, con l’emergere del
corpaccione penta-stellato, gonfiato da un esodo biblico degli elettori in fuga
fuori dai tradizionali contenitori di centrodestra e di centrosinistra. Esodo
continuato nel quinquennio successivo, fino al fatidico 2018, quando l’ircocervo
“populista” gialloverde calamitò quasi il 50% di un elettorato in piena
evaporizzazione, disposto a votare chiunque purché non fosse né ricordasse ciò
che aveva governato prima. Era – possiamo ben dirlo oggi, a distanza di qualche
anno – un composto spaventosamente instabile, un magma attraversato da pulsioni
e domande diverse con l’unico denominatore (minimo) di una disperata domanda di
discontinuità, che prima si agglutinò provvisoriamente sull’asse di
centro-destra con l’alleanza “contrattuale” con la Lega (ossimorico nel
costume, mettendo insieme l’autoritarismo egotico di Salvini e il libertarismo
trasgressivo di Grillo, e nei contenuti con gli uni fissati sulla flat
tax e gli altri con il reddito di cittadinanza). Poi – dopo il
suicidio del Papeete – virò sul giallo-rosa, e fu un miracolo di equilibrio e
di equilibrismo che lasciò sperare almeno di salvarci dal rischio di nuove
elezioni che avrebbero segnato una vittoria potenzialmente travolgente delle
destre e la possibilità che queste mettessero le mani su Presidenza della
Repubblica e revisione costituzionale. E soprattutto che permise di gestire in
modo ragionevole la Pandemia, risparmiandoci le follie alla Trump e Johnson. Ma
non esorcizzò la tendenza all’evaporazione e alla scomposizione di tutti gli
aggregati, anche perché quella difficile e precaria alleanza si era nutrita in
seno, come detentore della golden share, un partner velenoso e
intrinsecamente (caratterialmente) distruttivo come Matteo Renzi, che infatti,
come detto, aspettò il momento più delicato e difficile per aprire quel vaso
che, secondo il racconto mitologico, conteneva gli “spiriti maligni”
della gelosia, della malattia, della pazzia e del vizio. E per rilanciare
in grande stile il processo dissolutivo che, conoscendo l’uomo, si può ben
immaginare quanto gli piaccia, liberando spazio, tra le maceria, al dispiegarsi
di un Ego che i pur precari equilibri di un qualunque edificio politico
inevitabilmente obbligherebbero a limitarsi.
Così “in
alto”. Ma poi c’è “il basso”, quello che si chiama “il Paese”, che è allo
stremo: in questi giorni, dum Romae consulitur, per ogni ora che
passa si perdono 50 posti di lavoro. Per ogni giorno di stallo sono 1200
disoccupati in più. Dalla famosa conferenza stampa di Matteo Renzi in cui
annunciava il ritiro delle sue due ministre e apriva in modo corsaro una crisi
incomprensibile al giorno della resa di Fico sono trascorsi esattamente 20
giorni (compreso quello in cui il principale responsabile di quello stallo se
ne è andato a guadagnare i suoi 80.000 dollari con un atto di asservimento a
uno dei peggiori despoti del mondo), nel corso dei quali se ne sono andati
24.000 redditi da lavoro. Milioni di lavoratori, dipendenti e autonomi, sono
naufragati: 393.000 contratti a termine non sono stati rinnovati, 440.000 in
prevalenza giovani hanno perso il posto, altre centinaia di migliaia lo
perderanno se il blocco dei licenziamenti non verrà prolungato. Tutti aspettano
una boccata d’ossigeno, i benedetti “ristori”, per poter continuare a
respirare. A cominciare dalle quasi 350.000 imprese attive nel settore della
ristorazione e dei bar, che occupa più di un milione di persone e in cui si
prevede una moria di più del 60%; e tutto il settore artigiano, delle piccole e
piccolissime imprese che non hanno la voce potente di Confindustria per dettare
o condizionare l’agenda governativa e che annaspano nell’indifferenza pubblica.
Sono una grande parte di società che senza interventi immediati – “a pioggia”,
quelli che non piacciono a Carlo Bonomi e a tutti i tecnocrati mercatisti – non
tireranno più su le saracinesche abbassate. E tuttavia, bene che vada, se la
crisi di governo non si avvita ulteriormente, occorreranno settimane prima che
l’Esecutivo ritorni operativo. E se fosse, come è possibile, un governo “tecnico”,
sappiamo bene quale sia la sensibilità sociale dei tecnici… Anche se si
chiamano Mario Draghi (del cui alto profilo professionale non si può dubitare,
ma sulla cui disponibilità solidaristica è lecito interrogarsi).
E qui
veniamo alle sue molteplici “vite”. Ho detto che Draghi è un “uomo di banca”.
Ma sono stato impreciso. Avrei dovuto dire uomo di banca nell’epoca in cui le
banche – le Grandi Banche, quelle di dimensione globale – assumono
responsabilità dirette di governance universale. Poteri non forti
ma fortissimi, da cui dipendono vita e morte dei popoli (“sovrani” nell’epoca
post-democratica potremmo dirli). E il profilo di Draghi si dipana per buona
parte all’interno di quell’universo. Dopo la sua (precoce) prima vita
accademica, in cui allievo di Federico Caffè ha conosciuto e condiviso i
principii keynesiani, è passato, con una certa rapidità, al ruolo di grand
commis di Stato come Direttore del Ministero del Tesoro sotto tutti i
governi succedutisi dal 1991 in poi (da Andreotti ad Amato a Berlusconi a
D’Alema) distinguendosi in perfetto stile neoliberista nel ruolo di grande
privatizzatore di quasi tutto (Iri, Eni, Enel, Comit, Telecom, per un totale di
quasi 200.000 miliardi di lire). E’ a quel punto che emigra per un rapido
passaggio nell’universo globale di Goldman Sachs come Managing
Director per le strategie europee e membro del Comitato esecutivo del
gruppo per poi tornare, rigenerato, alla guida della Banca d’Italia (2005) e
nel 2011 a capo della BCE: appena in tempo per firmare insieme a Trichet la
“terribile” lettera al Governo italiano che apre la stagione delle lacrime e
sangue. Salva certo l’Euro con il fatidico whatever it takes nel
luglio del 2012 ma nello stesso anno tiene a battesimo il compact
fiscal e nel luglio del 2015 non si farà scrupolo di spingere
sott’acqua la Grecia di Alexis Tsipras togliendo la liquidità d’emergenza alla
sue banche e, l’anno dopo, di ispirare il Jobs Act renziano. La Pandemia gli
suggerisce un sostanzioso allentamento dell’austerità, ma non ne attenua la
vocazione privatistica e l’ostilità nei confronti della funzione
redistributrice dell’intervento pubblico.
Non stupisce
l’immediato riflesso di Confindustria che saluta il suo incarico chiedendo la
liquidazione del reddito di cittadinanza e di quota 100 oltre al ritorno alla
libertà di licenziare. Se venisse ascoltato, quell’appello, sarebbe foriero di
ulteriore minaccia nel già fosco scenario italiano perché oltre alla
dissoluzione della mediazione politica si rischierebbe un ulteriore
sprofondamento sociale. E un forse definitivo divorzio tra istituzioni e
popolo.
Per questo
resto pessimista. Di un pessimismo – come direbbe Piero Gobetti –
“vetero-testamentario”, ovvero “senza palingenesi”, con la sensazione di essere
da tempo avviati su un piano inclinato che assottiglia sempre più i margini di
sopravvivenza del nostro modello democratico, con la sgradevole sensazione che
quelle che ci sembrano, al momento, possibili soluzioni siano in realtà
potenziali dis-soluzioni. Ed in cui lo sfuggire a un pericolo comporti, in
qualche misura, la possibilità d’incontrarne un altro altrettanto grave se non
peggiore. Per questo capisco perfettamente la preoccupazione di Domenico Gallo
(Tempi di Draghi) su ciò che comporterebbe, oggi,
l’alternativa delle elezioni anticipate in caso di fallimento del tentativo di
Draghi: sono state il mio incubo in tutti questi mesi, per lo meno dall’agosto
dello scorso anno. Ma ce lo vediamo noi un governo di emergenza come quello che
si prospetta, con tutti i partner politici acciaccati e le rispettive leadeship ulteriormente
infragilite metter mano a quella riforma elettorale che non sono riusciti a
fare in sedici mesi per superare quell’obbrobrio tecnico e politico che è il
“Rosatellum” (parto di quel Rosato portatoci in regalo dal solito ineffabile
Renzi)? E riusciamo a immaginarci cosa ci porterà il voto nel ’23 (centenario
della famigerata Legge Acerbo) se si svolgerà con quella legge elettorale e con
un Parlamento ridotto di più del 30%? Chi di noi può, da oggi in poi, sentirsi
sicuro?
E, d’altra
parte, sul piano economico, so benissimo che il tesoro promesso dall’Europa è
meglio trovarlo che perderlo. E che nessuno ha le competenze tecniche (ma anche
politiche) di una figura come quella di Mario Draghi, a casa sua in ogni
cancelleria d’Europa e in ogni Consiglio d’amministrazione del mondo. Ma che
produrranno quelle competenze economiche, sul piano sociale? A chi andranno i
vantaggi di una sia pur più efficiente gestione delle risorse (a parte il
vantaggio “ultimo” di non finire tutti schiacciati sotto il default dell’intero
Paese)? Finora il paradigma prevalente ha favorito spudoratamente chi sta in
alto. E nemmeno la svolta post-austerity ai piani alti europei ha interrotto
quella tendenza. Il ritornello che ascoltiamo sempre, sul debito buono e quello
cattivo, sospettiamo, ma a ragion veduta, significhi che il primo (il “buono”)
sia quello che premia lo sviluppo delle imprese, il secondo (il “cattivo”)
quello che dovrebbe assistere la sopravvivenza delle persone e delle famiglie.
Mentre l’idea che sta dietro anche al riformismo (asociale) dei tecnocrati –
anche questo lo sappiamo – resta ancora e sempre quella del trickle
down, dello “sgocciolamento”, ovvero la favola bella secondo cui favorire
l’afflusso della ricchezza in alto prima o poi si risolverà in
un vantaggio anche per chi sta in basso per effetto, appunto,
della ricaduta a cascata delle briciole. Non sento né vedo segnali che mi
dicano che a quei livelli le cose siano cambiate sostanzialmente…
Eppure si è
parlato sempre più spesso, negli ultimi tempi, di “bomba sociale”. E
l’espressione non è fuori luogo. Le società hanno un punto critico oltre il
quale perdono il proprio principio di ordine (entrano in una condizione che i
sociologi chiamano di “anomia” in cui le regole stabilite perdono di senso). Si
potrebbe parlare di una “soglia”, al di sotto della quale non solo si perde
quella possibilità di “resilienza” di cui molto si parla (intendendo la
capacità di un corpo di ricuperare la condizione precedente dopo aver subito un
urto), ma la lotta per la sopravvivenza rischia di prevalere sul vivere civile.
E la pressione del bisogno può trasformarsi, alternativamente, o in depressione
e apatia o all’opposto in furia. Beh, ho l’impressione che quella “soglia” si
sia avvicinata pericolosamente, e forse che sia stata in ampia parte superata,
senza che nessuno tra quelli che si affaccendano intorno alle macchine del
potere e dell’amministrazione vi facciano gran caso. E neppure tra quelli che
in qualche modo contribuiscono a “fare opinione”.
Rispetto
dunque chi, nonostante tutto, spera. Io, personalmente, dispero.
Draghi, Renzi e la dittatura del mercato - Tomaso Montanari
La
sensazione è quella di scivolare su un piano inclinato: dal male (un male senza
alternative migliori) del governo Conte al peggio del possibile governo Draghi,
al pessimo di un governo Salvini-Meloni, che sembra ora ancor più inevitabile.
Matteo Renzi
c’è riuscito di nuovo. Prima con Letta, adesso con Conte: attraverso crisi
extraparlamentari strozzatesi nelle ovattate stanze del Quirinale, ha ucciso
due governi che avrebbe dovuto lealmente sostenere. Nel primo caso per fatto
personale (l’ascesa alla presidenza del Consiglio), in questo anche (per
riacquistare un qualche credito agli occhi dell’establishment internazionale).
E in entrambi con la stessa disinteressata dedizione agli interessi del Paese
che è apparsa nel mostruoso episodio saudita (https://volerelaluna.it/rimbalzi/2021/02/01/matteo-renzi-e-il-rinascimento-saudita/): che da solo sarebbe bastato a
porre fine a a qualunque carriera politica, in un paese civile.
Renzi,
dunque, trionfa: umiliando tutti (a partire dal Parlamento) e presentandosi a
fianco di Mattarella come il salvatore della patria. Un gioco di sponda che,
spiace dirlo, ingenera qualche dubbio anche sul ruolo del presidente della
Repubblica: specie per il singolare discorso con cui questi ha escluso
tassativamente la possibilità di andare ora ad elezioni. Un orientamento che
Renzi forse non ignorava, come invece, evidentemente, lo ignoravano i vertici
del Pd: i quali, inducendo Conte a dimettersi laddove non era affatto
necessario, ne hanno servito a Renzi la testa su un piatto d’argento.
Se Renzi è
il grande elettore di Draghi, cosa faranno gli altri? La Lega ha un duplice
interesse a permettere che questo governo nasca: prima astenendosi (e così
rivelandosi determinante, e apparendo affidabile a mercati e poteri
internazionali – «Salvini ha una grande opportunità – ha subito twittato il
direttore di Repubblica Maurizio Molinari – il sostegno a
Draghi gli consentirebbe di avere la legittimità europea che gli manca»), e poi
intercettando la protesta sociale che l’azione di Draghi provocherà. Il Pd è
nella situazione peggiore: il suo profilo moderato e “responsabile” gli rende
difficile sfilarsi, ma il rischio che Renzi se lo riprenda, svegliando le
quinte colonne dormienti, è ora concretissimo. Il Movimento 5 Stelle ha invece
la sua grande occasione per tornare a un ruolo antisistema, recuperando un po’
di quella presa che sembrava ormai irrimediabilmente perduta: se dice di no a
Draghi, potrebbe essere l’unica opposizione – insieme, forse, alla falange
della Meloni, frenata però dalla linea morbida di Forza Italia e Lega, e
comunque tentata dall’astensione. Se invece dovesse prevalere la sindrome di
Stoccolma, e i Cinque Stelle votassero per Draghi, il Movimento sarebbe davvero
finito: e anche questo colpisce nella scelta di di Mattarella, avvenuta senza
consultazioni sul nuovo nome. Perché imporre al Movimento non una Cartabia o
una Lamorgese, ma il grande custode del sistema bancario internazionale, quasi
pretendendo la definitiva abiura dei 5 Stelle dalla loro più profonda identità?
Perché, al
di là dell’effimera geometria parlamentare di cui sopra, il significato
profondo dell’avvento del messia Draghi è assai evidente: esce di scena il
tentativo di risposta (fallimentare, caotico) alla domanda di giustizia ed
eguaglianza suscitata dalla dittatura del mercato internazionale e dell’establishment ad
esso legato; e rientra in scena, attraverso un suo gran sacerdote, esattamente
quel mercato e quell’establishment. Passiamo da una cura inadeguata e
sbagliata, al ritorno in grande stile della malattia. Vista dal punto di vista
della grande maggioranza del Paese (chi vive del proprio lavoro, e chi lavoro
non ha), è una netta regressione.
A dirlo è la
storia dello stesso presidente del consiglio incaricato. Marco Revelli ha
ricordato, su questo sito (https://volerelaluna.it/controcanto/2020/03/29/draghi-lupi-faine-e-sciacalli/), il ruolo centrale avuto da Draghi
(come direttore generale del Tesoro per dieci anni cruciali dal 1991al 2001)
nella svendita del patrimonio pubblico italiano. Nella brutale sintesi di
Francesco Cossiga (una volta tanto lucido): «il liquidatore, dopo la famosa
crociera sul Britannia, dell’industria pubblica: la svendita dell’industria
pubblica italiana quando era direttore generale del Tesoro […]». Cossiga
aggiungeva che «non si può nominare presidente del Consiglio dei ministri chi è
stato socio della Goldman & Sachs, grande banca d’affari americana». Uno
scrupolo che evidentemente Sergio Mattarella non nutre.
Naturalmente,
tutto questo non significa che Draghi non capisca la delicatezza della situazione,
e non provi a governare in un’altra direzione. Come ha scritto il direttore
della rivista Il Mulino, Mario Ricciardi: «Ciò che Mario Draghi ha
fatto in passato, come civil servant e come banchiere
centrale, non consente di affermare con certezza in che direzione si orienterà
la sua azione in futuro. L’uomo ha mostrato, anche di recente, di essere un
pragmatista. La situazione, anche a livello internazionale, non è più quella
del 2008. Dogmi sono stati messi in discussione, nuove minacce si sono palesate,
che in Italia destano grande preoccupazione». Ma, aggiunge giustamente
Ricciardi, «sul piano strettamente politico questo comporta resistere alla
pressione, evidente in alcune tra le reazioni alla convocazione di Draghi al
Quirinale, di chi non vede l’ora di chiudere la stagione sfortunata
dell’alleanza tra Pd e M5s, vedendo nella caduta del governo Conte il segnale
di un ritorno alla normalità: la vittoria finale dei competenti sugli
incompetenti, il trionfo della meritocrazia sull’arroganza dei mediocri. […]
L’idea di un’aristocrazia che si autoproclama tale è una pericolosa illusione,
che non può che aumentare ulteriormente, e in modo pernicioso, il solco tra
istituzioni e società civile, tra classi dirigenti e cittadini. […]
Un’aristocrazia di cosmopoliti il cui principale interesse è la mobilità del
capitale finanziario non può andare lontano quando entra in conflitto con una
parte consistente della popolazione». Un’aristocrazia a cui credono di
appartenere, per esempio, i grandi magnati italiani padroni dei giornaloni che
ora spandono nuvole di incenso intorno a Draghi – e al sicario di Rignano.
Le prime
parole di Draghi da presidente incaricato hanno menzionato la «possibilità di
operare con uno sguardo attento alle future generazioni e alla coesione
sociale». “Coesione sociale” può voler dire cose molto diverse: il desiderio
della suddetta aristocrazia di strozzare il conflitto sociale, per non vedere
il sangue per strada quando scende dal superattico; o, al contrario, un
obiettivo di pace sociale da raggiungere attraverso la giustizia sociale. Ora,
il passaggio centrale del discorso di Draghi al meeting di Comunione e
Liberazione della scorsa estate invocava un unico dogma, anzi un “imperativo
assoluto”: «Il ritorno alla crescita, una crescita che rispetti l’ambiente e
che non umili la persona, è divenuto un imperativo assoluto: perché le
politiche economiche oggi perseguite siano sostenibili, per dare sicurezza di
reddito specialmente ai più poveri» (https://volerelaluna.it/controcanto/2020/08/22/le-favole-draghi-e-il-pd/). Se questa è la prospettiva, siamo
saldamente dentro la logica suicida di una crescita infinita e produttrice di
iniquità letali, appena mascherata da sostenibilità e compassione.
Intendiamoci, non che con Conte e la sua maggioranza fossimo su una linea
alternativa: ma così si torna all’ortodossia mortale del pensiero unico.
Manca, come
sempre, uno sguardo di sinistra: come certifica, tragicomicamente, l’apertura a
Draghi da parte delle frattaglie cucite in Liberi e Uguali. Quello sguardo dal
basso, icasticamente presente in un tweet di Mauro Vanetti: «Hai poco da
compiacerti della competenza del cuoco, se sei un ingrediente».
Già nel 1970
un pensatore profetico come Ivan Illich poteva scrivere che «la questione
centrale del nostro tempo rimane quella che i ricchi vanno diventando ancora
più ricchi, i poveri ancora più poveri». Il fatto che, cinquant’anni dopo,
l’Italia si affidi a un Mario Draghi, fa pensare che siamo ancora ben lontani
non dico dall’invertire la rotta, ma anche solo dal capire che quella è
davvero, e sempre di più, la questione centrale.
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