Ho seguito le settimane scorse alcune discussioni sul fatto se Hesse possedesse qualità letterarie tali da giustificare il suo continuo successo. Hesse a parte, ho l'impressione che in questa occasione si sia riproposto un equivoco duro a morire, e cioè che non solo ci sia un rapporto tra il valore artistico e il successo di un'opera, ma addirittura si tratti di un rapporto inverso. Questo modo di pensare si è ulteriormente sviluppato di fronte alla diffusione della cultura di massa (da metà Ottocento ai giorni nostri), dove il prodotto tende a strizzare l'occhio al pubblico e a vellicarne sovente le propensioni meno nobili. Ma per quanto riguarda le arti e le lettere, il modello dell'artista grande, ma incompreso e sfortunato in vita, è di stampo romantico ed è stato ampliato dalle avanguardie novecentesche, le quali si proponevano programmaticamente la sfida dei gusti correnti, e quindi il rifiuto da parte del pubblico era indice di riuscita. Il che era vero per Picasso, ma ha permesso a molti sventurati di credersi l'Anti-Artusi solo perché i loro manicaretti davano il voltastomaco.
Però in passato era altrettanto vincente il modello dell'artista vezzeggiato
dai potenti e idolatrato dal popolo. Dante aveva avuto degli insuccessi
politici, ma non letterari, prova ne sia che la leggenda lo vuole irritato col
fabbro che storpia i suoi versi, segno che già in vita era ammirato persino
dagli analfabeti. Artisti grandissimi hanno avuto immediato e vasto successo
(Virgilio, Giotto, Shakespeare, Manzoni e Tolstoj); altri altrettanto grandi
furono disprezzati, o amati solo da pochi eletti (Nerval o Joyce), e parimenti
hanno galvanizzato le folle opere di scarso valore artistico, come i romanzi di
Sue o Via col vento.
L'umanità si
arrovella da secoli per definire le condizioni del valore artistico, ma ha
dedicato poche riflessioni alle condizioni del successo, che non sono mai
casuali. Le più ovvie sono quelle per cui un'opera incarna in qualche modo
sentimenti e ideali in cui la società, o una parte di essa, desidera
riconoscersi: Corneille, Hesse appunto (almeno per una frangia giovanile),
Berchet o Manzoni, la Marsigliese, il Topolino del New Deal e il Virgilio del
secolo aureo. Non è una questione di valore, ma di adeguatezza rispetto a un
sistema di attese.
Altre volte
il successo è dovuto a una certa "cantabilità", e anche questa
qualità è indipendente dal valore artistico (ovvero costituisce condizione di
artisticità elementare che può apparire sia in un'opera grandissima che in un
prodotto artigianale). Verdi è cantabile, ed è cantabile Pippo non lo sa; le
storie di Nero Wolfe sono cantabili come i telefilm del tenente Colombo, ma
cantabilissimo è sempre apparso Petrarca. Invece uno dei più grandi gioielli
della letteratura di tutti i tempi, Sylvie di Nerval, sembra cantabile, mentre
ha in realtà una struttura armonica cosí complessa che si può solo rileggerlo,
non solfeggiarlo a memoria. Vivaldi è cantabile e Debussy no.
Ma tempo fa,
cercando di spiegare perché Casablanca fosse diventato oggetto di culto, ho
avanzato l'ipotesi che una condizione del successo e del culto sia la
"sgangheratezza" dell'opera. Casablanca è stato costruito a pezzi e a
bocconi mettendoci dentro tutti i cliché possibili, e ne è venuto fuori un
manuale di cinefilia. Proprio per questo può essere usato, per cosí dire, a
pezzi smontabili, ciascuno dei quali diventa citazione, archetipo. Ma oltre
alla sgangheratezza c'è anche la sgangherabilità. In un saggio memorabile Eliot
aveva azzardato che questa fosse anche la ragione del successo di Amleto, la
meno compiuta e costruita delle tragedie shakespeariane, fusione non
completamente riuscita tra diverse fonti, che diventa bello perché interessante
e non interessante perché bello. La Divina Commedia non è per nulla
sgangherata, ma risulta però sgangherabile al punto tale che i suoi fanatici
giocano persino a fare crittografie dantesche, usando versi singoli e sfusi.
L'immenso millenario successo della Bibbia è dovuto alla sua sgangherabilità, visto che (Dio mi perdoni) è stata scritta a più mani. Amleto rimane un'opera sublime, mentre il Rocky Horror Picture Show (diciamolo) è una immonda schifezza, eppure entrambi sono oggetti di culto, l'uno perché sgangherabile e l'altro perché cosí sgangherato da permettere ogni gioco d'interazione possibile. E poi rimane quell'altro enigmatico oggetto di culto (ma non popolare) che è il Finnegans Wake di Joyce: volutamente concepito proprio affinché potesse essere sgangherato all'infinito.
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