Digressioni. Un paio di vite fa mi trovavo in uno degli angoli più disgraziati del mondo, le baraccopoli che circondano Nairobi, a interrogare preti e santoni delle congregazioni religiose più strane. Ricordo la frase di uno di loro a spiegarmi quanto fosse importante la questione della malattia e della guarigione. Partiva da una domanda: siamo circondati dalle zanzare, tutte portano la malaria, tutti vengono punti più volte al giorno, e allora cosa fa sì che qualcuno si ammali, e qualcun altro no? La sua risposta portava su una china pericolosa: il rapporto con il mondo degli spiriti. Ma indicava anche, idea più interessante, il rapporto con la comunità che ti circonda. Nella buona sostanza diceva: non ti ammali se non sei solo. I riti di guarigione su cui si incernierano quelle sette sono partecipati da masse sterminate di persone, perché il fedele prova sollievo dopo una messa, con quella liturgia basata sull’appartenenza. E, insisteva il mio prete africano: il sollievo degli abbracci, delle cerimonie ristrette, del sapere che intorno a te c’è la comunità. Certo, le malattie che a suo dire trovano una cura sono quelle che noi, nel qui ora dell’Occidente ricco, definiremmo psicosomatiche: la dipendenza dalle droghe o dall’alcool, l’insonnia, i mali di testa immotivati, le cervicali e le erniette, l’infertilità, l’impotenza. E chissà la malaria.
Che il nostro sistema immunitario sia più forte se siamo
sereni sembra un dato acquisito ormai anche dalla scienza medica, senza la
necessità di rivolgersi a un dio, a più dei, al mondo degli spiriti o al culto
degli antenati. Lo stress, parolina magica occidentale, aiuta la formazione
delle placche di colesterolo nelle coronarie: me lo ha confermato il cardiologo
a Milano. E per tornare in Asia, a me resta davanti agli occhi l’infermierina
di Singapore che, congedandomi dopo un’angioplastica, snocciolatami la
prescrizione farmacologica, aggiunse seria: “You should avoid anxieties and
frustrations.” Cosa che puntualmente figurava nella lettera di dimissioni.
Pensai: le ansie sì, le posso abbandonare, ma per le frustrazioni come faccio:
devo elevarmi al di sopra di ogni mia terrena ambizione, come il Buddha? L’Asia
ha una sua risposta, per le placche di colesterolo?
Domande. La domanda sul perché qualcuno si è preso il
Covid e altri no corre libera anche in luoghi meno disgraziati di una
baraccopoli africana. Mia moglie è risultata quasi inspiegabilmente positiva al
sierologico – sì, ci ricordiamo un paio di giorni di perdita dell’olfatto, e
febbriciattola, a marzo – e io che le vivo attaccato da mesi sono negativo.
Dice un articolo tra i tanti sul giornale che la possibilità di infettare un
convivente non supererebbe il 44%: e allora perché io sto nell’altro 56%? A
riti di guarigione non ho partecipato mai, in questi mesi. Comunità ne ho
frequentata poca.
E dunque, ancora e sempre la domanda che mi ronza in
testa: ma cosa hanno fatto gli asiatici, i cinesi, per battere la zanzara Covid
così meglio di noi? Forse evitando le frustrazioni perché lì, sotto sotto,
circola ancora il pensiero del Buddha? I miei amici sinologi ripetono ancora:
Confucio, piuttosto. Il senso della collettività così forte a loro dire
nell’Asia dell’est e del sudest. E allora, se devo stare al mio prete africano
di baraccopoli, non solo disciplina e senso di responsabilità, ma protezione
del gruppo: non sentirsi soli. Anche in queste settimane la reazione alla terza
ondata in Corea del Sud e Giappone è per noi fantascienza.
Nella Corea di 50 milioni di persone 500 casi destano
allarme, qualche misura di contenimento viene implementata. In Italia, 60
milioni, 500 casi era settembre ed eravamo ancora immersi nel non ce n’è di
coviddi, declinato in varie forme sui nostri schermi. Mi è chiaro come i numeri
fossero in salita già tre settimane prima delle chiusure: ma si esitava, perché
la chiusura allora sarebbe stata accolta con una inferocita rivolta di masse,
presentatori televisivi e tastieranti impulsivi. La chiusura è stata ritardata
fino a quando le masse non apparirono spaventate a sufficienza da accogliere le
misure imposte. Qui, più che in altri paesi occidentali, la sfiducia verso il
governo (‘le élites!”) è a livelli di guardia da un decennio: ci si sente soli,
abbandonati? Adesso, però, ci si domanda di chi è la colpa di una seconda
ondata così forte – del governo, dice la vox populi – ed eccolo qua l’Occidente
con la sua cultura millenaria: non Confucio né il Buddha, ma cristianamente la
colpa: e dunque lo troviamo un capro espiatorio? Ce la risolviamo così anche
questa volta? Linciarne uno per assolverne cento, e tutti insieme, in gruppo,
schiumare di rabbia. Mentre vagano per la rete le immagini del metrò di Pechino
affollato – lì non ce n’è più di coviddi – scopro che nel Giappone della terza
ondata non sembra alle viste un lockdown.
Il Giappone chiuse sì scuole cinema e teatri per tempo, a
inizio marzo, ma non ha mai attuato lockdown totali, c’è anche un problema con
la costituzione. Piuttosto il governo rivolse un pressante invito a ridurre i
contatti al minimo, e si ritiene che i giapponesi questo abbiano
disciplinatamente fatto – è la politica che ha provato la Svezia, dalle nostre
parti, ma con risultati ben peggiori –. Certo in Giappone i casi censiti sono
molto pochi perché lì il tampone si fa solo a chi ha sintomi gravi: altro che
tracciamento, insomma – che invece la Svezia ha saputo fare –. Eclatante
Giappone: meno di duemila decessi in un paese che ha dodici volte gli abitanti
della Svezia, dove i decessi sono settemila. E allora? La zanzara Covid
colpisce così a capocchia? Sa dio, direi a quel mio prete africano se lo avessi
di fronte adesso. Preferirei però uno studio comparato, e chissà quando
arriverà. Perché se la differenza la fanno davvero i comportamenti individuali,
accidenti venga qualche maestro orientale a insegnarceli più in fretta
possibile, anche in vista di altri virus prossimi venturi. Se invece qualche
altra ipotesi può essere costruita, su quest’Asia invidiabile, proviamoci. Non
sono uno scienziato io, sono un solo un perplesso autore.
Vaghi ricordi di università mi rammentano che un’ipotesi
per dirsi scientifica deve essere falsificabile. Falsificatemi, vi prego,
l’autoriale ipotesi che la precedente circolazione della Sars e di altri
Coronavirus abbia allenato il sistema immunitario di un paio di miliardi di
persone, laggiù, perché questa ipotesi mi si è conficcata nella testa. So che
devo starci attento, l’abitudine a costruire spiegazioni affrettate solo perché
sanno surrogare paure e speranze è un po’ troppo diffusa: è il male di questi tempi,
avvelena ogni argomentare. Ma ipotesi bisogna farne, e risposte bisognerà
costruirne prima o poi.
(Corollario: la speranza che, una volta vaccinato e
immune il gregge al Sars-CoV-2, sia poi resistente ai virus prossimi venturi
non è male come speranza, vero? Insomma che passino altri cent’anni: come dopo
la Spagnola).
Nessun commento:
Posta un commento