Si può
ritenere che la gestione della crisi sia stata, a tratti, opaca? Per esempio,
nel colpo di scena (evidentemente non tale per tutti) per cui le Camere in
nessun caso sarebbero state sciolte? Si può dissentire, anche radicalmente, dal
Presidente della Repubblica, sostenendo che la scelta di Draghi sia non già un
balsamo, ma invece un serio vulnus, per la nostra democrazia? Si
può mettere in dubbio lo status messianico del Presidente del
consiglio incaricato, ricordando che la sua intera carriera e il suo operato
pendono dalla parte di chi ha reso il nostro mondo ciò che è (e cioè
mostruosamente ingiusto, e diseguale), e non dalla parte di chi ha provato a
migliorarlo? Si può auspicare, infine, che qualcuno, in Parlamento, abbia
sufficiente autonomia politica e morale per «disobbedire al presidente
Mattarella» (magari per non governare coi fascisti), questa inimmaginabile
condotta da reprobi?
In pochi
giorni, l’articolo 1 della Costituzione è stato riscritto così: «L’Italia è una
Repubblica paternalista, fondata sui migliori». E uso “paternalismo” in senso
proprio: nascendo quella parola per definire una «politica […] caratterizzata
da una bonaria e sollecita attenzione verso i bisogni dei sudditi, escludendoli
però completamente dal controllo delle attività dello Stato e da una qualsiasi
forma di partecipazione alla gestione della cosa pubblica» (così il Grande
dizionario della lingua italiana).
Il nuovo
mantra dell’antipolitica ha assunto toni monarchici, autoritari, repressivi. «È
finita la ricreazione! È entrato il preside: ora sono tutti muti, a capo
chino»; «finalmente sono stati commissariati, quegli incapaci del Parlamento!»;
«ha parlato il Presidente, nella sua saggezza, ora non vola una mosca»; «il
Presidente sarebbe “infastidito” dalle condizioni poste dai partiti», e via
dicendo. Il fasto del Palazzo del Quirinale ha eclissato le aule sorde e grigie
del Parlamento esercitando, ancora una volta, la sua malìa autocratica: i
fantasmi di papi e re hanno ripreso la scena, rimettendo al proprio posto il
popolo bue, e i suoi bovini rappresentanti. Imponendo il nome di Draghi senza
sottoporlo a consultazioni preventive (l’Eletto ne sarebbe uscito svilito);
annunciando che un «alto profilo» spazzava finalmente via i populisti
trogloditi; teorizzando un governo «che non debba identificarsi con alcuna
formula politica», il Presidente ha inferto una mazzata micidiale al
Parlamento: che vede divorato, sul colle più alto, un governo cui aveva appena
rinnovato la fiducia.
Ora, più
ancora di questa mossa con pochi (e discutibili) precedenti – ma comunque
dentro i confini formali della Carta – sconcerta il plauso con cui tutti
l’hanno accolta: te deum, ceri, inni, vitelli grassi sgozzati. Era
il funerale della democrazia parlamentare, così debole, impotente, screditata
da esser pugnalata a morte da un sicario saudita, e poi sepolta frettolosamente
da un Padre severo: eppure i morti ballavano, e bevevano. Quanto è profonda la
disillusione, anzi il disprezzo, verso la democrazia parlamentare, se tutti
gioiscono perché le decisioni circa il bene comune vengono ora prese da una
persona sola, con una regressione plurisecolare? Il godimento masochista di
un’intera democrazia che, vedendosi umiliata, grida: «dai, frustami ancora!».
I pochissimi
che, a sinistra, dichiarano anche in pubblico la loro avversità per il nascente
governo degli ottimati, lo fanno additando la presenza non già del Caimano
prossimo alla mafia, ma della Lega, punto di riferimento di neofascisti e
neonazisti, e legatissima in Europa alle estreme destre xenofobe. Ma questa
nefastissima inclusione non è un effetto collaterale imprevisto: è un esito
fortemente voluto, per due ragioni.
La prima è
il coinvolgimento del partito di Salvini in un’operazione chiaramente
atlantica: un’operazione che lo allontani da Putin e lo faccia entrare nella
cerchia occidentale che condivide onori e oneri del vampirismo
turbofinanziario. Un’iniziazione, un’affiliazione.
La seconda,
più velenosa e sottile, è la volontà di affermare l’unico vero dogma ideologico
del mondo in cui Draghi è protagonista: TINA, There Is No Alternative allo
stato delle cose. Non c’è alternativa alla monorotaia dell’ordine economico
occidentale: e dunque le differenze politiche (destra e sinistra, fascisti e
democratici, conservatori e progressisti…) sono solo cosmetiche, folkoristiche,
buone per i talk: tenere tutti insieme (da Leu alla Lega) sotto l’ombrello
paternalistico del Grande Banchiere intronizzato sul seggio dell’Esecutivo
significa abrogare le ragioni stesse della politica. Il bene della nazione, il
bene del popolo, il bene dell’Italia sono dati a priori: decisi, sul Colle più
alto, dal padre della Nazione, e affidati al Governo di Alto Profilo. Quel che
è non più nemmeno immaginabile è il conflitto: il conflitto sociale che diventa
conflitto politico, e che in Parlamento trova una mediazione cui il governo dà
attuazione. Tutto da dimenticare: niente conflitto, perché il Bene della
Nazione lo conosciamo già.
Peccato che
i ricchi non vogliano le stesse cose di cui hanno bisogno i poveri. Ma proprio
questo è il punto. Perché questo “governo del Presidente” (cioè “governo non
parlamentare se non proforma”) è aristocratico intimamente: programmaticamente.
Da Berlusconi ai giornali degli Elkann, tutti invocano il “governo dei
migliori”. Si glossa: dei competenti. Vano chiedere competenti su cosa (domanda
lecita, viste le prime uscite sulla scuola: da bar dello sport dei Parioli).
Vano ricordare che se l’Italia è messa com’è messa, è colpa non dei populisti
ma dell’élite più ignorante, corrotta, familista, incapace del pianeta. Vano
perché, come è chiaro fin dai tempi di Aristotele, si scrive aristocrazia, si
legge oligarchia: governo dei pochi. Cioè dei ricchi. È davvero il culmine
italiano dell’ordoliberismo: «uno Stato sotto sorveglianza del mercato, anziché
un mercato sotto la sorveglianza dello Stato» (Foucault). In un momento in cui
i tre uomini più ricchi d’Italia possiedono quanto i sei milioni di cittadini
più poveri, in un momento in cui il massimo pericolo per la democrazia è che i
ricchi sono sempre più ricchi e i poveri più poveri, si affida il governo della
Repubblica all’uomo Goldman Sachs. Uomo nel senso di maschio, innanzitutto:
perché il paternalismo è, per definizione, maschilista. E l’uomo di potere deve
essere accompagnato, due passi indietro, da una «moglie di gran classe che non
parla neppure se interrogata» (Aspesi). Maschio solo al comando: farà tanto
meglio, in quanto non dovrà trattare con gli spregevoli partiti per i nomi dei
suoi ministri.
È chiaro che
stiamo imboccando l’oligarchia come via d’uscita dalla crisi della democrazia
parlamentare? Con tanto di cronache a getto continuo dal buen retiro umbro
della famiglia reale: che fa una vita così normale, signora mia! Stiamo cadendo
da una (orribile) padella a una (fatale) brace. Una brace che ben conosciamo:
«è da vedere se questo modo di pensare, molto diffuso, non sia un residuo della
trascendenza cattolica, e dei vecchi regimi paternalistici», si chiedeva
Antonio Gramsci.
«Costruire
la democrazia equivale a distruggere le oligarchie – ha scritto Gustavo
Zagrebelsky – con la precisa consapevolezza che a un’oligarchia distrutta
subito seguirà la formazione di un’altra, composta da coloro che hanno
distrutto la prima». In questo caso – è il dramma – l’oligarchia è quella di
prima, che torna: mai distrutta. Quella che ha portato il Paese al disastro, il
Pianeta sull’orlo dell’abisso. Mentre il costume e la retorica tornano a prima
del 1789, o, a tutto concedere, a un dispotismo illuminato in cui il
monarca-padre decideva per il “bene” di sudditi eternamente minori.
Siccome il
danno, l’involuzione, prima che istituzionali sono culturali, se ne esce, se se
ne esce, solo a dosi massicce di pensiero critico: pensiero contro,
insubordinato, eretico, non conforme. Una mobilitazione di pensiero nelle
scuole e nelle università, nei luoghi dove ancora si può cercare, attraverso
una «erudizione implacabile» (ancora Foucault) di non piegare le ginocchia di
fronte a padri saturnini. Occorre «il senso della rivolta», e la «capacità di
sfruttare appieno le rare opportunità di discorso concesse» (Said). E, con il
Tommasino di casa Cupiello, occorre saper rispondere, a chi chiede
ossessivamente «ti piace il presidente Draghi?»: «no. Non mi piace».
Post
scriptum
Dopo aver
ascoltato Draghi leggere la lista dei ministri è stata subito ben chiara una
cosa: nessuna tragedia politica, in Italia, è separabile dalla farsa. Il
«Governo di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula
politica» annunciato da Mattarella è una specie di pletorico governicchio
tardodemocristiano-berlusconiano costruito con la più bieca spartizione da
manuale Cencelli. Altro che articolo 92 della Costituzione: è il trionfo della
partitocrazia (15 politici contro 8 “tecnici”), mentre il Parlamento viene
umiliato. Un vero capolavoro istituzionale.
Nani, ballerine, servi di partito, scienziati-manager in quota saudita.
Brunetta alla Pubblica Amministrazione da solo vale il viaggio. All’inferno.
Poche donne (tra cui la Gelmini, la Carfagna, la Stefani…santoddio…), quasi
tutte senza portafoglio, e addette a faccende secondarie. Le uniche in primo
piano, di area ciellina: con salde convinzioni circa il rispetto della famiglia
tradizionale. Di Maio ancora agli Esteri, Speranza alla Salute. L’eterno
Franceschini, incollato letteralmente alla poltrona, che ottiene il titolo
lugubre di Ministro della Cultura: voluto da Mussolini nel 1937, abolito nel
1944.
Figuriamoci se fosse stato il Governo dei peggiori. Renzi, Mattarella e Draghi
ci hanno regalato un governo di destra. Davvero non so con quale stomaco LeU e
i Cinque Stelle potranno votare la fiducia a questo Bar di Guerre Stellari. Ma,
come ci ricorda Giorgetti allo Sviluppo, non c’è nulla ridere: il disastro è
appena cominciato.
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