Questa è la storia di un uomo che nasce nel 1873 a Molfetta. Studi in seminario, poi primo incarico di insegnamento a Palermo. Per due anni è docente a Faenza, poi a Lodi e a Firenze. Nel 1901, a ventotto anni, diventa docente di storia all’università di Messina. E qui accade il terribile, il terribile che tanti riescono a schivare arrivando a consegnarsi alla morte senza che sia successo niente di particolare nella loro vita.
La mattina del 28 dicembre 1908 la terra trema per trentasette secondi tra
Messina e Reggio Calabria. Cadono le due città e i paesi vicini, cade anche la
terra dentro il mare. Muoiono più di centomila persone. Per alcuni giorni di
lui non si sa nulla, lo danno per morto. Arriva persino un telegramma di
condoglianze al suocero da parte di Mussolini. Ma lui è vivo e due mesi dopo
scrive a un amico "Io mi sono messo al lavoro, e vedo con gioia e con
terrore che mi interessa", e prosegue: "tutti
pensano che io ne sia uscito, mi credono forte, e non pensano che io sono un
poveretto".
Salvemini ha perso la moglie, Maria Minervini, figlia di un ingegnere
pugliese, e i suoi cinque figli, Filippo, Leonida, Corrado, Ugo ed Elena. Il
terremoto gli ha portato via pure la sorella e tanti amici e colleghi. Gaetano
si era sposato con Maria il 21 ottobre 1897: “presi moglie con venticinque
lire in tasca, e fui felice, pur dovendo vivere con 150 lire al mese”.
Nella piccola Italia c’è sempre stata una grande distanza tra il centro e
il margine. Ce lo segnala ogni volta la storia del ritardo nei soccorsi dopo il
terremoto. Il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, viene informato
dai primi dispacci nella tarda mattinata del 28 dicembre, ma sottovaluta le
proporzioni della catastrofe e le liquida come "l'ennesima
fastidiosa lamentela meridionale per il crollo di qualche comignolo!".
Salvemini sull’"Avanti!" così descrive il terremoto: “Ero in
letto allorquando sentii che tutto barcollava intorno a me, e un rumore
sinistro che giungeva dal di fuori. In camicia come ero, balzai dal letto, e
con uno slancio fui alla finestra per vedere cosa accadeva. Feci appena in
tempo a spalancarla che la casa precipitò come in un vortice, si inabissò, e tutto
disparve in un nebbione denso, traversato da rumori come di valanga e da urla
di gente che precipitando moriva. Tutto disparve tranne il muro maestro ove si
trovava la finestra alla cui m’ero avvinghiato con la frenesia della
disperazione. Sotto di me – si deve pensare che ero al quarto
piano – le macerie avevano fatto un cumulo tale che il mio
urto fu meno forte di quanto poteva aspettarmi. Mi feci male ma non mi
uccisi».
Le grandi tragedie ci mettono davanti a un bivio: andare avanti con più
furore o abbandonarsi al lento suicidio del rancore verso la vita che ci può
togliere tutto quello che ci è caro. Salvemini perse perfino gran parte dei
suoi scritti storiografici. Solo al mondo, ricomincia a testa alta la sua
attività di studioso e di attivista politico.
Nel 1910 ottiene la cattedra pisana di storia moderna. In quegli anni
toscani prova a superare in qualche modo lo strazio delle giornate passate a
frugare tra le macerie per disseppellire i corpi dei familiari, uno strazio che
puoi accantonare di giorno, riempiendolo di nuove faccende, ma che torna ogni
notte in sogno fino alla fine della tua esistenza.
Nel 1916 approda all’università di Firenze e nello stesso anno sposa
Fernande Dauriac. Questa donna ha due figli, Jean e Margherita, e con loro
Salvemini ritrova la paternità perduta, ma molti anni dopo avrà un grande e
doloroso dissidio con Jean in seguito alla sua scelta di sposare la causa del
nazismo, che lo renderà noto a tutti come il "Fuhrer della stampa
collaborazionista" in Francia.
Torniamo indietro, alla vita in salita e all’opposizione di Gaetano
Salvemini. Si batte contro Giolitti e poi contro il fascismo: viene arrestato
nel giugno del 1925. Usufruisce di un’amnistia e ad agosto si rifugia
clandestinamente in Francia dove si ritrova coi fratelli Rosselli con i quali
fonda il movimento Giustizia e libertà.
Dopo un trasferimento in Inghilterra, nel 1934 approda negli Stati Uniti,
va ad insegnare ad Harvard e qui gli tocca imparare l’inglese a cinquant’anni
per poter continuare il suo lavoro, per continuare la sua fuga da quella notte
a Messina, da quei suoi cinque figli a cui forse non dedicò molto tempo, preso
com’era dalla passione per i suoi studi e per le sue battaglie civili.
Torna in patria nel 1947 e riprende a combattere contro i dogmatismi
clericali e comunisti, ma è una posizione che ha poco spazio. Muore a Sorrento
il 6 settembre del 1957.
Nell’Italia ciarliera e impaurita del 2020 forse è utile ricordare la vita
fittissima di un uomo che ha saputo rispondere al dolore del caso con la
passione della libertà: per lui “libertà significa il diritto di essere
eretici, non conformisti di fronte alla cultura ufficiale.”
Una vita come la sua ci fa capire che siamo in uno spazio in cui si possono
fare tante cose. Lui le ha fatte in 84 anni, ma si possono fare anche nei 53 di
Pasolini o nei 35 di Mozart. Bisogna narrare la vita fitta che c’è stata un
tempo, era fitta per ognuno, anche per quelli che non sono diventati famosi, la
vita fitta di chi è emigrato o dei contadini rimasti nei loro paesi e che
facevano tre ore al giorno solo per andare a piedi a zappare un pugno di
terra.
Gaetano Salvemini spesso è citato per le sue idee politiche, ma andrebbe
ricordato soprattutto per come è riuscito a vivere altri 43 anni dopo aver perso
la sposa e i suoi cinque figli e sua sorella. La sua storia prima ancora che le
sue idee di storico dovrebbe essere conosciuta da chi si ferma a volte davanti
a ostacoli molto piccoli: siamo circondati da ammutinati per dolori che hanno
solo immaginato, sconfitti da guerre che non hanno neppure combattuto. È
volgare e mediocre una nazione che non sa dare fama durevole a persone come
Salvemini. Lui ha combattuto idee che oggi hanno trovato nuovi figuranti, ma in
fondo sono sempre le stesse, figlie di un paese poco interessato agli spiriti
liberi, ma solo alla manutenzione delle sue furbizie. Bisogna defurbizzare
l’Italia, diceva Gianni Celati, uno che è andato via dalla patria di Dante
perché non sopportava quello che siamo diventati.
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