venerdì 5 febbraio 2021

“IO LA VEDO PIÙ DISTINTAMENTE…”. KAFKA CI INSEGNA CHE SCRIVERSI È L’AVAMPOSTO DELL’IMPREVISTO - Giorgio Anelli

A cosa può portare una lettera, voglio dire, quali sono le conseguenze dello scriversi? Franz Kafka, in un frammento che ricalco, ce ne offre un’idea ben chiara e illuminante: romantica ‒ affettuosa, se vogliamo ‒ robusta ed enigmatica. Lo scrittore boemo risponde da Merano a Milena, intorno al 12 maggio 1920, scrivendo, “…la Sua lettera mi toglie alcune incertezze, io La vedo più distintamente, i movimenti del corpo, delle mani, così veloci, così decisi, è quasi un incontro, tuttavia se poi voglio alzare gli occhi fino al Suo viso, nel corso della lettera ‒ che razza di storia! ‒ divampa il fuoco e io non vedo che fuoco”.

Scriversi dunque è un incontro, l’avamposto dell’imprevisto. Non ci si scrive che per annullare la solitudine. Meglio. Ci si scrive fino a vedersi. O a immaginarsi tali, vicini. Ma più ancora, si va incontro a chi ci è sconosciuto, fino a gioirne, fino ad arrischiare il tutto e per tutto. Così Kafka va oltre, intende dire ‘dell’altro’ a Milena, rischiando quasi di pronunciare (senza dirla) la parola amore. Eppure egli l’ha già scritta, è sottintesa, già avanza, fa come delle proposte, tasta il terreno, sonda le intenzioni dell’altra parte. E per un attimo sembra folle d’amore: “che razza di storia!”, scrive.

Sì, perché se vuole alzare i suoi occhi, il suo sguardo, fino al viso di Milena, proprio mentre prosegue a scriverle, tutto può accadere, persino che il foglio bianco s’incendi, s’accenda, e lui avvampi, bruci, ma non per spegnersi, semmai per ardere di un sentimento nuovo, finora sopito, che è l’eterna passione. Kafka non vede che lei, soltanto Milena, il suo ‘fuoco vivo’; così, proprio in tali termini, ne parla all’amico Max Brod.

 

Ma c’è dell’altro ancora. Il motivo del fuoco e della fiamma trae spunto primariamente da Dante e dallo Zohar, che è il libro dello splendore, il testo profetico ebraico, forse il libro più importante della tradizione cabalistica dove, tra i tanti simboli, spicca persino l’albero della vita, rappresentazione emblematica delle leggi dell’universo.

Tornando e ripiombando a quel fuoco che ha incendiato Kafka, va accennato anche il frammento XXX di Eraclito, che Kafka stesso aveva rielaborato nei diari: «Questo ordine del mondo, uguale in tutto, non l’ha creato Dio né un uomo, ma era sempre, è, e sarà, eterno fuoco vivo che periodicamente si accende e di nuovo si spegne».

Ci si scrive quindi per rivivere uno splendore, per sfiorare quell’abbaglio che ci fa sentire vicendevolmente ancora più vivi. Ci si scrive, piuttosto, per conoscersi in cammino, in un cammino indefinito perché infinito. Quasi ci si affronta, in un duello, per ribadire l’assoluto, fare avance come chi è rapito dal pirata dell’amore, che altro non è, alla fin fine, che un fuoco. Il quale non è inestinguibile, però è presente nel mondo, lo compenetra, fino a dargli ordine. Come a dire che non c’è alcun Dio o uomo a tirarne le fila ma, appunto, un misterioso eterno fuoco vivo. Che è forse quell’amore ricambiato o sconosciuto che sempre cerchiamo in qualcun altro, fino ad arrivare al punto di scrivergli di noi, perfetti estranei in un mondo di estranei. Ma infine il punto è questo. Ci si getta addosso al diverso, lo si cerca, gli si scrive, perché qualcosa dovrà pur accadere. Interessa, per altro, comunicare, comunicarsi, dirsi l’inesprimibile. E cos’è quello stupore che vogliamo provare, sentire addosso a noi, se non un incomunicabile, indescrivibile, indicibile fuoco che ci brucia tutt’intorno?

Kafka ha tentato ancora una volta di amare una donna. Ha azzardato ‒ provocandolo ‒ l’impossibile. Non ci è chiesto altro, scrivendo: che razza di storia!

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