A cosa può portare una lettera,
voglio dire, quali sono le conseguenze dello scriversi? Franz Kafka, in un frammento che
ricalco, ce ne offre un’idea ben chiara e illuminante: romantica ‒ affettuosa, se vogliamo
‒ robusta ed enigmatica. Lo scrittore boemo risponde da Merano a Milena,
intorno al 12 maggio 1920, scrivendo, “…la Sua lettera mi toglie alcune
incertezze, io La vedo più distintamente, i movimenti del corpo, delle mani,
così veloci, così decisi, è quasi un incontro, tuttavia se poi voglio alzare
gli occhi fino al Suo viso, nel corso della lettera ‒ che razza di storia! ‒
divampa il fuoco e io non vedo che fuoco”.
Scriversi
dunque è un incontro, l’avamposto dell’imprevisto. Non ci si scrive che per
annullare la solitudine. Meglio. Ci si scrive fino a vedersi. O a immaginarsi tali, vicini.
Ma più ancora, si va incontro a chi ci è sconosciuto, fino a gioirne, fino ad
arrischiare il tutto e per tutto. Così Kafka va oltre, intende dire
‘dell’altro’ a Milena, rischiando quasi di pronunciare (senza dirla) la
parola amore. Eppure egli l’ha già scritta, è sottintesa, già
avanza, fa come delle proposte, tasta il terreno, sonda le intenzioni
dell’altra parte. E per un attimo sembra folle d’amore: “che razza di storia!”,
scrive.
Sì, perché
se vuole alzare i suoi occhi, il suo sguardo, fino al viso di Milena, proprio
mentre prosegue a scriverle, tutto può accadere, persino che il foglio bianco
s’incendi, s’accenda, e lui avvampi, bruci, ma non per spegnersi, semmai per
ardere di un sentimento nuovo, finora sopito, che è l’eterna passione. Kafka
non vede che lei, soltanto Milena, il suo ‘fuoco vivo’; così, proprio in tali
termini, ne parla all’amico Max Brod.
Ma c’è
dell’altro ancora. Il motivo del fuoco e della fiamma trae spunto primariamente
da Dante e dallo Zohar, che è il libro dello splendore, il testo
profetico ebraico, forse il libro più importante della tradizione cabalistica
dove, tra i tanti simboli, spicca persino l’albero della vita, rappresentazione
emblematica delle leggi dell’universo.
Tornando e
ripiombando a quel fuoco che ha incendiato Kafka, va accennato anche il
frammento XXX di Eraclito, che Kafka stesso aveva rielaborato nei diari: «Questo
ordine del mondo, uguale in tutto, non l’ha creato Dio né un uomo, ma era
sempre, è, e sarà, eterno fuoco vivo che periodicamente si accende e di nuovo
si spegne».
Ci si scrive
quindi per rivivere uno splendore, per sfiorare quell’abbaglio che ci fa
sentire vicendevolmente ancora più vivi. Ci si scrive, piuttosto, per
conoscersi in cammino, in un cammino indefinito perché infinito. Quasi ci si
affronta, in un duello, per ribadire l’assoluto, fare avance come
chi è rapito dal pirata dell’amore, che altro non è, alla fin fine, che un
fuoco. Il quale non è inestinguibile, però è presente nel mondo, lo compenetra,
fino a dargli ordine. Come a dire che non c’è alcun Dio o uomo a tirarne le
fila ma, appunto, un misterioso eterno fuoco vivo. Che è forse
quell’amore ricambiato o sconosciuto che sempre cerchiamo in qualcun altro,
fino ad arrivare al punto di scrivergli di noi, perfetti estranei in un mondo
di estranei. Ma infine il punto è questo. Ci si getta addosso al diverso, lo si
cerca, gli si scrive, perché qualcosa dovrà pur accadere. Interessa,
per altro, comunicare, comunicarsi, dirsi l’inesprimibile. E cos’è quello
stupore che vogliamo provare, sentire addosso a noi, se non un incomunicabile,
indescrivibile, indicibile fuoco che ci brucia tutt’intorno?
Kafka ha
tentato ancora una volta di amare una donna. Ha azzardato ‒ provocandolo ‒
l’impossibile. Non ci è chiesto altro, scrivendo: che razza di storia!
Fantastico!
RispondiEliminaKafka è immenso, ogni volta che lo rileggi ti dice cose nuove e profonde
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