Speciale Radio Popolare
Nell'aprile 2020 Dragan Petrović ha raccontato ai microfoni
di Radio Popolare Network la sua "Belgrado ai tempi di Covid 19" in
una trasmissione speciale, che si può riascoltare da questo link .
Dragan
Petrović ci ha lasciati
Un grande giornalista, ma prima ancora una grande persona.
All’inizio degli anni ‘90, non condividendo la politica nazionalista di
Milošević, assieme ad altri colleghi è stato obbligato a lasciare Radio
Beograd per cui lavorava. Per 30 anni corrispondente Ansa da Belgrado,
collaboratore di Radio Popolare. È morto sabato 30 gennaio
Alla notizia della sua morte, sabato 30 gennaio,
immediati e tanti i messaggi di cordoglio apparsi sulla pagina Facebook di
Dragan. Tra questi tanti anche dall’Italia, un paese con cui aveva importanti
legami. Oltre ad essere conosciuto pubblicamente per le sue corrispondenze per
Radio Popolare, è stato per 30 anni importante persona di riferimento
per decine e decine e di italiani che arrivavano a Belgrado: chi per fare
il proprio lavoro di giornalista, chi perché volontario di
organizzazioni e associazioni o perché giovani in viaggio nei paesi della
regione.
Nato a Belgrado il 28 luglio del 1951, dopo il
ginnasio si è laureato in Scienze politiche. Nel 1971 ha cominciato, ancora
studente, a collaborare con Radio Beograd nella rubrica dedicata alla politica
estera. Ha seguito grandi fatti storici, corrispondendo ad esempio da luoghi
come Bucarest durante la caduta di Ceaușescu. Ad inizio anni ‘90 aveva
dichiarato apertamente e pubblicamente la sua dissidenza rispetto alla politica
nazionalista dell’allora presidente della Serbia, Slobodan Milošević.
Per il suo lavoro a Radio Beograd ha ricevuto
diversi premi, tra i quali il premio Internazionale “Ondas” che per le
radioemittenti è considerato al pari di un Oscar.
Oltre che per l'agenzia ANSA, ha collaborato come
corrispondente dal 1995 con la RSI - Radio Svizzera Italiana.
Ha seguito tutti i conflitti che hanno portato
alla disgregazione della ex Jugoslavia e in Italia abbiamo potuto seguire le
sue quotidiane testimonianze da Belgrado, durante i bombardamenti della Nato
dell’estate del 1999.
Le tracce del suo eccezionale lavoro di
giornalista, come della sua umanità, rimarranno indelebili.
Addio Dragan, caro amico.
Un intenso testo in memoria di
Dragan Petrović, sul suo essere presente, sul suo schierarsi contro le
discriminazioni, la paura, la violenza - Azra
Nuhefendić
“Vedo che ti stanno
attaccando, significa che siamo dalla stessa parte”. Così Dragan Petrović, il
noto giornalista, mi scrisse dopo che avevo pubblicato in Italia i miei primi
articoli, seguiti da una valanga di polemiche. Fu la conferma di un percorso giornalistico
preso decenni prima e perfezionato negli anni in cui entrambi, Dragan Petrović
e io, lavoravamo nella stessa redazione belgradese dell’allora radio e
televisione pubblica RTB.
All’epoca il giornalismo esercitato a Belgrado era paragonabile
alle prestigiose redazioni di fama mondiale. Ne ebbi la prova quando, durante
gli anni della guerra, lavorai per alcune di queste redazioni.
Nella Jugoslavia socialista i pezzi giornalistici sulla politica
interna erano controllati e non si potevano esprimere opinioni diverse dalla
politica ufficiale del partito comunista. Talvolta, come nel caso di un noto
conduttore, un certo Kosta K., bastava poco per scivolare dalla “linea
ufficiale” e per, come dicevano, “riposare sul giaccio” per un po’ oppure per
il resto della carriera giornalistica. Ma anche quegli articoli, per lo stile e
la grammatica, erano artigianalmente ben fatti.
Un giornalista aveva più libertà se scriveva sulla cultura, sullo
sport o sulla politica internazionale. Per questo le redazioni per gli esteri,
ad esempio, erano tanto ambite. Vi si entrava difficilmente, solo quando un
“veterano” moriva o andava in pensione, e la competizione era grande. Dragan e
io ne facevamo parte.
Come giornalista, Dragan non rincorreva la carriera, non gli
interessava condurre il telegiornale, o fare il caporedattore, – tutti ruoli
che gli erano stati offerti ma che lui rifiutava – gli piaceva fare il
giornalista.
Nel giornalismo esistono due aspetti: il mestiere in sé e il
talento. Solo chi li padroneggia entrambi ha la stoffa del giornalista. Il
servizio radio televisivo pubblico RTB era pieno di giornalisti talentuosi,
veri maestri della professione. Dragan Petrović era uno di questi. E durante la
guerra in Jugoslavia Dragan mostrò di avere anche il coraggio e la coerenza
morale.
La sua tranquillità, una dote rara tra i giornalisti televisivi e
radiofonici, stressatissimi per le continue scadenze e i tempi brevi, era ben
nota e contagiosa. Me ne accorsi durante la cosiddetta rivoluzione romena, o
presunta tale, visto che poi si scoprì che non fu una rivolta popolare ma una
manovra ben organizzata e messa in pratica. Noi due eravamo là insieme come
inviati speciali.
Nel dicembre del 1989 raggiunsi la capitale Bucarest con un
treno diretto da Belgrado. Dopo un paio di giorni il mio entusiasmo professionale
diminuì: mi resi conto che il pericolo era ovunque, faceva molto freddo, le
camere dell’albergo erano senza riscaldamento, non c’era cibo a sufficienza.
Dentro di me cresceva la paura e il senso d’impotenza, ma quando un pomeriggio
sentii al telefono la voce di Dragan che mi chiamava, mi rallegrai
infinitamente. Era appena arrivato a Bucarest da Timisoara e mi stava cercando.
Più tardi, nella camera d’albergo fredda, non solo per la bassa
temperatura, ma perché estranea e ostile, mangiai il panino che mi aveva
portato, mescolato con le lacrime. Piangevo per la debolezza, per il freddo ma
anche per la felicità di avere “uno dei miei” accanto. Per il resto del
servizio lavorammo insieme alternandoci nel mandare i nostri articoli alla
redazione.
Dragan emanava ottimismo in ogni situazione. Non era una persona
presuntuosa, mi aiutava delicatamente con la sua esperienza professionale,
evitando il ruolo dell’autorità, e mi dava il coraggio che mi mancava.
La sua gentilezza era più efficace della forza o della rabbia
degli altri. Quando durante le proteste a Belgrado, nel 1991, contro il regime
dell’ex presidente Slobodan Milošević, la polizia coglieva l’occasione per fare
i conti anche con noi giornalisti, sferrandoci qualche bastonata sulla schiena,
Dragan, gentile com’era, riusciva a fermarli. Con i suoi occhi sorridenti
dietro gli occhiali spessi, che gli davano un aspetto innocuo e benevolo,
oppure con la voce calma di un predicatore, li frenava. Ne sono testimone.
Anche nella nostra stretta cerchia di giornalisti non si poteva
sempre dire tutto quello che si pensava. Dragan e io, avendo le scrivanie una
di fronte all’altra, spesso “commentavamo” qualche fatto facendo spallucce,
oppure lanciandoci una breve occhiata. Tra di noi ironizzavamo sui politici che
accusavano “gli odiati nemici” ogni qualvolta che qualcosa non andava bene.
Avevamo adottato questa espressione per prenderci in giro ed eravamo soliti
dirci “mio caro odiato nemico”.
Ma negli anni Novanta questa ironia, questo scherzo tra amici e colleghi,
in un certo qual modo si avverò. Durante la guerra in Bosnia da un giorno
all’altro, per tanti miei amici e colleghi belgradesi, diventai nemica. Una
turca. È così che in modo spregiativo chiamavano a Belgrado noi bosniaci
musulmani. Il regime serbo nazionalista ripulì tutte le redazioni belgradesi
dei giornalisti di opposizione e dei non-serbi.
Dragan e io ci trovammo tra i ripuliti e senza lavoro.
E quando fui abbandonata, letteralmente da un giorno all’altro dai
molti colleghi, amici, conoscenti e vicini, Dragan Petrović ci teneva a
rafforzare l’amicizia, a farmi vedere che “restavamo dalla stessa parte”.
Trovava sempre una scusa per invitarmi a casa sua: la nonna aveva mandato i
dolcetti, la moglie aveva fatto le sarme, il fratello Čeda aveva mandato i
formaggi da Parigi...
Quando a Belgrado non si sapeva ancora esattamente cosa stesse
succedendo in Bosnia, a causa delle informazioni opposte e il blocco mediatico
imposto dal regime nazionalista, erano arrivati a casa di Dragan due ingegneri
di Banja Luka, città della Bosnia nord-occidentale. Lavoravano nella fabbrica
militare “Rudi Čajavec” e grazie agli amici erano riusciti a scappare, a
oltrepassare varie barricate e controlli e a raggiungere Belgrado con
l’intenzione di proseguire verso l’Olanda. Dragan li ospitava a casa sua. Da
loro abbiamo sentito per la prima volta dell’orrore al quale era esposta la
popolazione non-serba in Bosnia Erzegovina e della pulizia etnica in corso.
Quando decisi che era il momento per me di lasciare Belgrado, fu
Dragan ad accompagnami all’aeroporto. “Andrà tutto bene” mi diceva, mentre io
temevo che una mano pesante si posasse sulle mie spalle e una voce estranea mi
dicesse: “Tu non puoi partire”. Nulla di ciò. Partii verso un mondo sconosciuto
e una vita incerta con l’abbraccio forte del “mio caro odiato nemico”.
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