martedì 16 febbraio 2021

L’Italia cinica che maltratta i morti - Lanfranco Caminiti

 

Si lavora tanto nei cimiteri – non si ha idea di quanto febbrile possa essere il lavoro – per i nuovi morti, per sistemare quella cappella che filtra acqua, e a cui l’umidità sta scrostando tutto l’intonaco, per fare spazio: dopo trent’anni, le tombe si possono riaprire, i morti raccogliere in un ossario più piccolo, e mettere assieme mogli e mariti, o padri e figli o parenti; c’è bisogno di loculi per i nuovi arrivati, e lo spazio vitale, se così si può dire, va ridotto al minimo.

Non si smette mai di morire. Una volta, al Cimitero monumentale di Messina vidi un cartello dell’Amministrazione comunale affisso a una cappella che doveva essere stata bella nei suoi tratti liberty ma che ora veniva giù a pezzi, letteralmente, perché priva di qualunque manutenzione chissà da quanto tempo: si avvisavano i familiari – laddove ce ne fossero ancora vivi o qualcuno fosse in grado di contattarli – che si sarebbe intervenuto di ufficio per rimuovere i sepolcri e spostarli in altro luogo, e per affidare quello spazio a un bando pubblico. Non era tanto il pericolo di un crollo quanto l’avidità di uno spazio: se quei morti non interessano più a nessuno, o se non c’è più nessuno in grado di badare a quei morti – che senso ha lasciare ai morti, e a morti dimenticati da tutti, quello spazio?

Chi frequenta i cimiteri queste cose le sa, il silenzio è interrotto dalla betoniera che impasta il cemento, o dai manovali che sistemano un’impalcatura di tubi innocenti o trapanano qualcosa. Non è l’irruzione della vita nella morte, ma della morte nella morte, della nuova morte nella morte di prima.

La cronaca di questi giorni racconta di tre addetti al cimitero di Tropea che sono stati arrestati dopo un’indagine della Guardia di Finanza e accusati di violazione di sepolcro, distruzione di cadavere, illecito smaltimento di rifiuti speciali cimiteriali e peculato, in sostanza di avere svuotato in maniera illecita vari loculi per fare posto ad altri defunti. «I tre, senza alcuna autorizzazione e in totale spregio di qualsiasi disposizione contenuta nel regolamento di polizia mortuaria comunale, hanno eseguito numerose estumulazioni illegali, al fine di conseguire, con ogni probabilità, illeciti profitti, assicurando ai congiunti di persone defunte l’utilizzo di loculi per la sepoltura, resi improvvisamente disponibili, eliminando, senza averne titolo, i poveri resti mortali rimasti di altre persone già sepolte da anni, approfittando della situazione di grave carenza di posti liberi che da molto tempo esiste presso il cimitero di Tropea. I tre soggetti, in un’area interna e riparata del cimitero, senza il minimo scrupolo, hanno proceduto, in molte occasioni, a estrarre i cadaveri di persone decedute da molti anni, a volte non ancora decomposti, distruggendoli e smaltendo illecitamente i resti mediante incenerimento sul posto o gettandoli nei contenitori riservati alla raccolta dei rifiuti urbani (da: «la Stampa»)».

È una cronaca raccapricciante, ovviamente da verificare in sede giudiziaria. Ma è una crudele rappresentazione di un principio semplice: il cimitero è uno spazio edificabile. Il cimitero è un business. I morti sono un business.

Non è una storia di adesso. I medici avevano bisogno di cadaveri per i loro studi, per capire sempre meglio l’anatomia del nostro corpo e il funzionamento degli organi – erano i becchini a procuraglieli, tanto sarebbero finiti in fosse comuni. Il dottor Frankenstein di Mary Shelley, per “creare” il suo mostro mette assieme vari pezzi di vari cadaveri. Nella sua Prefazione del 1831, Mary Shelley menzionò l’influenza del “galvanismo” sulla sua storia. Erano stati condotti tentativi di rianimazione di criminali impiccati, facendo uso del Murder Act del 1752 che aggiungeva la pena della dissezione all’impiccagione. Tutte le facoltà di Medicina e Chirurgia del mondo “addestrano” i giovani studenti universitari su pezzi di cadaveri. C’è sempre stato scempio dei morti, accanto al culto dei morti. Le cronache di sempre hanno raccontato di sepolture violate alla ricerca di oggetti di valore rimasti addosso al morto, un anello, una collana, una spilla, un bracciale.

Eppure, le immagini delle bare portate via dai camion militari mentre il contagio infuriava a Bergamo e non c’era più spazio per seppellirli, e si avviavano verso la cremazione, senza che i parenti avessero potuto salutarli, prendere commiato – ci straziarono il cuore. Avemmo paura – il contagio era fuori controllo, la morte faceva la sua messe a piene mani – ma anche tanta pietas, tanta compassione. Poi, i morti del contagio, le immagini dei morti del contagio sono scomparse. I morti sono diventati una cifra, un numero che viene snocciolato quotidianamente, accanto quelli dei contagiati, dei guariti, di quelli in terapia intensiva, e ora dei vaccinati. Un dato, oggi sono un tot più o meno di ieri, come l’indice di trasmissibilità che oggi ha una percentuale un po’ più o un po’ meno di ieri. La morte dei contagiati è diventata una esperienza personale, se hai un parente, un amico, un vicino. O si sa pubblicamente se muore qualcuno noto, uno scrittore, un sindacalista, un politico, un attore. Ma non è più un “fatto collettivo”, un fatto sociale – non c’è più la pietas che ci aveva straziato nelle immagini di Bergamo.

Ce n’è un risvolto in una consapevolezza che si è fatta progressivamente strada da un anno in qua – e che per la verità ci è stata detta fin da subito: muoiono gli anziani, l’età media è sopra gli ottant’anni. Certo, ci sono casi di contagiati più giovani, ma sono rari. Muoiono i vecchi – nelle Rsa e nelle case di riposo è stata un’ecatombe: dai dati Inps risulta che l’istituto ha cancellato nel 2020, per avvenuto decesso, il 16,1% in più di pensioni (+121.697) di quelle cancellate nel 2019.

Ma noi fremiamo: di andare al ristorante, di fare shopping, di viaggiare. I ragazzi, i giovani poi non ne parliamo: ma a vent’anni ti senti immortale.
A me sembra perciò, sia invalsa una sorta di insofferenza alla morte, di indifferenza ai morti. La morte è un fatto squisitamente privato – se nei sei colpito – ma non è più un “sentimento collettivo” di lutto. È paradossale che questo accada al tempo del contagio.

da qui

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