Giovanni Utzeri era un uomo minuto, fragile. Il suo viso era affilato, duro come il cemento, scavato da tristi rughe di fatica. Aveva cercato fortuna e speranze nelle miniere di carbone del Belgio e poi era tornato nel suo Sarrabus a guadagnarsi la vita come giardiniere nei villini che, tra i macchioni di mirto e di corbezzolo, si affacciano sulla dolce rada di Feraxi. La sera del 2 marzo 1994 fu testimone di una tragedia che oscuri ambienti dello Stato cercano di nascondere da 25 anni: l’abbattimento di un elicottero A-109 della Guardia di Finanza, nome in codice “Volpe 132”. A bordo del velivolo c’erano il maresciallo Gianfranco Deriu, 42 anni di Cuglieri, e il brigadiere Fabrizio Sedda, 27 anni di Ottana. I loro corpi non sono mai stati ritrovati, come è scomparso misteriosamente nel nulla anche l’elicottero. Come se una mano invisibile avesse cancellato tutto.
Ma lui, Giovanni Utzeri, con la sua voce graffiata, ha sempre raccontato la sua verità scomoda, che forze occulte da molti anni cercano di nascondere. Come un disco rotto ha ripetuto la sua versione, senza mai cambiare una parola. Con coerenza, onestà e con grandissimo coraggio. «L’elicottero mi è passato sulla testa – raccontava – e si è fermato proprio sopra quella nave porta-container che era alla fonda da almeno due giorni. Dopo ho sentito che il motore prendeva giri, come se l’elicottero cercasse disperatamente di sollevarsi. E poi... Poi quella terribile esplosione». E, tenendosi la testa tra le mani e dondolandosi lentamente, diceva: «Boom! Me la sento ancora dentro la testa quell’esplosione. Povere anime, povere anime».
Ecco perché questa brutta storia di giustizia negata che sembra nascondere
segreti inconfessabili, merita di essere raccontata proprio partendo da lui. Da
questo anonimo giardiniere che, per primo, ha impedito che la morte di due
servitori dello Stato in divisa svanisse, perdendosi nella nebbia densa e opaca
di silenzi assordanti e di maldestri depistaggi. Un caso ormai conosciuto come
“l’Ustica sarda”.
La rivincita di Utzeri è arrivata nel febbraio del 2013, quando è approdata
davanti al Gip di Cagliari la perizia redatta dai segugi del Reparto
investigazioni speciali dei carabinieri e dal professor Donato Firrao del
Politecnico di Torino. Analizzando i pochi pezzi di metallo accartocciati,
recuperati nel mare davanti a Capo Ferrato due giorni dopo la tragedia, i
periti hanno trovato le tracce di un’esplosione. “Volpe 132”, dunque è stato
abbattuto. E la procura di Cagliari da allora non indaga più per “disastro
aviatorio”, ma per “duplice omicidio volontario”.
Ha trovato così finalmente una legittimazione probatoria la testimonianza di
Giovanni Utzeri. E con la sua, anche quelle di altri testimoni oculari: il
pensionato di Villacidro Gigi Marini, l’ex assessore comunale di San Vito Antonio
Cuccu e il pastore di Burcei Giuseppe Zuncheddu. Dichiarazioni che,
inspiegabilmente, erano state omesse nella relazione tecnico-formale
dell'inchiesta militare e poi fatte riemergere dal lavoro della procura e dalla
spinta di alcune inchieste giornalistiche.
Utzeri, Marini, Cuccu e Zuncheddu da punti di osservazione diversi hanno
raccontato di avere visto e sentito l'elicottero arrivare la sera del 2 marzo
1994 nella rada di Feraxi tra le 19.30 e le 19.45, dove era alla fonda da due
giorni una misteriosa nave porta-container. Poi, una vampata di luce nel cielo,
il fragore di un’esplosione e il rumore sordo delle eliche della nave
misteriosa che prendeva il largo con le luci di bordo spente. Dichiarazioni
certo credibili, perché riferite da persone diverse che (a parte Cuccu e
Marini) neanche si conoscevano tra loro. E soprattutto drammaticamente
coincidenti e sempre uguali nel tempo.
È così emerso in modo crudo lo “strappo” tra il racconto di queste persone
normali, casuali testimoni di un delitto, e la versione ufficiale che deraglia
verso un quadro incerto e nebuloso tra affermazioni contrastanti, omissioni di
testimonianze e l’inspiegabile ricorso al segreto di Stato, poi scardinato
dalla procura.
I quattro testimoni fissano due certezze: l’orario e il luogo della tragedia. E
cioè tra le 19.15 (ultima comunicazione registrata tra l’elicottero e la base
di Elmas) e le 20 nella rada di Feraxi, a nord di Capo Ferrato. Da qui ecco
nascere una catena inquietante di conseguenze. La prima è che il relitto
dell’elicottero non è nei fondali dove i testimoni dicono dovrebbe essere. E
l’unica spiegazione plausibile di questo mistero è che qualcuno l’abbia
spostato. Domanda conseguente: chi e perché? Ancora non c’è una risposta. È
comunque del tutto evidente che chi l’ha fatto era dotato di mezzi e di
organizzazione.
E infine, la nave. I quattro testimoni ne parlano dettagliatamente. Marini
racconta con precisione gli spostamenti in rada della porta-container dalla
mattina alla sera, indicando il punto preciso in cui si trovava al momento
dell’abbattimento di Volpe 132. Cuccu, esperto uomo di mare, addirittura la
riconosce subito e senza incertezze. Davanti a una fotografia della Lucina (il
cargo che fu teatro dell'orrenda strage del suo equipaggio nel luglio di quello
stesso anno nel porto di Djendjen, in Algeria) non ha dubbi: «Sì, la nave era
questa. Non ho dubbi perché la conoscevo molto bene: da anni veniva a Feraxi,
sempre nello stesso periodo dell’anno».
E che dire delle affermazioni delle autorità militari del poligono interforze
del Salto di Quirra? Sostengono di non aver visto la nave misteriosa. E
comunque, «se anche ci fosse stata, era sicuramente fuori dall'area controllata
del poligono a mare». Circostanza, questa, clamorosamente smentita dalle
verifiche fatte dalla polizia giudiziaria. È importante ricordare che tutti i
radar che controllano il mar Tirreno quella sera erano spenti o non
funzionanti. Quello di Monte Codi, nel poligono del Salto di Quirra, spense
stranamente i suoi “occhi elettronici” alle 19.14. Cioè un minuto prima
dell’interruzione delle comunicazioni radio tra “Volpe 132” e la sala
operativa. di Elmas. Un’incredibile coincidenza.
L’infinita catena di stranezze nella torbida vicenda dell’elicottero “Volpe
132” comincia il 9 giugno 1994, quando il sostituto procuratore della
Repubblica Guido Pani, che ha in mano l'inchiesta penale sulla scomparsa del
velivolo, chiede allo stato maggiore dell’Aeronautica militare una copia della
relazione della commissione d’inchiesta militare. Tredici giorni dopo, riceve
una nota firmata dal generale Luciano Battisti, con la quale viene informato
che il documento è classificato “riservato” e perciò non può essere trasmesso.
Come se non bastasse, il giorno dopo arriva sulla sua scrivania una
comunicazione dall'Ufficio centrale per la sicurezza della presidenza del
Consiglio dei ministri. Nel documento si dice che la relazione è considerata
“classificata” con la criptica sigla PCM-ANS 1/R. Sottoposta cioè alle norme
per la tutela del segreto di Stato.
È il primo segnale evidente che qualcuno sta cercando di “blindare” il caso
dell'elicottero Volpe 132. Il magistrato riesce però a forzare l’opposizione
governativa perché la legge 801 del 1977 aveva cancellato sia il segreto
politico che il segreto militare, assorbendoli nel segreto di Stato. E la
procedura seguita da Palazzo Chigi non era stata quella corretta. La sorpresa
arriva quando il magistrato legge la relazione: non c’è assolutamente niente.
Niente che possa giustificare la “classificazione” del documento, che si
conclude con una generica ipotesi di incidente o errore umano.
E poi la relazione “tecnico- formale” delle autorità militari è incredibilmente
incompleta, contraddittoria e ricca di vuoti che sembrano voragini. Non c’è
infatti neppure un accenno alle testimonianze di Utzeri e di Marini (Cuccu e
Zuncheddu parleranno dopo).
È contraddittoria perché, nella premessa, si parla di una “missione di
ricognizione costiera notturna per la repressione di traffici illeciti”, che
successivamente viene negata. Altra insanabile contraddizione: nella relazione
viene prima scritto che l’elicottero avrebbe dovuto operare in modo coordinato
con una motovedetta del corpo (la Colombina G63), mentre poi lo stesso
equipaggio (con dichiarazioni fotocopia) smentisce la circostanza.
L’unica certezza è che alle 19.15 viene registrato l’ultimo contatto radio tra
Volpe 132 e la centrale operativa. Il maresciallo Deriu comunica: «Ci dirigiamo
sugli obiettivi segnalati sul radar». Poi più nulla. Solo alle 19.52, dopo un
lunghissimo e inspiegabile silenzio, la sala operativa cerca di mettersi in
contatto con l’elicottero: «Volpe 132, Volpe 132». Non ci sarà nessuna
risposta. Forse in quel momento Deriu e Sedda sono già morti.
È in quella totale assenza di comunicazioni radio che si addensano pesantissimi
sospetti. «L’elicottero era in zona d’ombra» diranno poi le autorità militari.
Deriu e Sedda non potevano dunque sentire e non potevano essere sentiti. La
centrale operativa misteriosamente tace per quasi 40 minuti, non cerca il
contatto con l’elicottero, non fa neppure un tentativo mentre è in corso
un’operazione notturna. Strano se non addirittura inquietante.
Ma è la testimonianza del pastore di Burcei Giuseppe Zuncheddu a mettere
seriamente in dubbio la tesi della “zona d’ombra”. Perché lui dice di avere
visto Volpe 132 passare sopra il suo ovile sulle colline, dopo aver sorvolato
Punta Moitzus e Bruncu Comidai del massiccio dei Sette Fratelli, prima di
tuffarsi nel canalone di Campuomu. L’A-109 di Deriu e Sedda aveva quindi
raggiunto a una certa quota e perciò, almeno fino alle 19.30, non poteva essere
“nascosto” dalle montagne.
C’è poi un'altra storia ambigua che si intreccia con quella di Volpe 132. Ed è
un elemento di sospetto in più sui tentativi di occultamento della verità e di
depistaggio. A pochi giorni dalla scomparsa dell'elicottero di Deriu e Sedda,
sparisce dalla zona industriale di Oristano un altro elicottero. Si tratta,
guarda caso, di un A-109 identico a Volpe 132. Sarà ritrovato dalla polizia un
mese dopo in un capannone vicino a Quartu. Sembra su segnalazione di un
ufficiale del Sismi, il servizio segreto militare.
Manca parte dell'avionica che era stata smontata e che sarà poi ritrovata dopo
una segnalazione confidenziale. All’inizio la vicenda sembra un’insolita
disputa commerciale tra due società: la Siam Leasing e la Wind Air.
Quest’ultima avrebbe sottratto il velivolo al sequestro chiesto dalla prima
società, che le aveva ceduto l’elicottero in leasing. Il processo, per appropriazione
indebita, si chiude a Oristano prima ancora di aprirsi, a causa dell’inerzia
nell’azione legale civile da parte della Siam Leasing, società controllata
dalla Banca Nazionale dell’Agricoltura
La procura di Cagliari sospetta che qualcuno volesse cannibalizzare
quell’elicottero e usarne alcuni pezzi – probabilmente proprio l’avionica – per
depistare le indagini su Volpe 132. Cioè facendoli trovare molto più a sud dal
luogo dell’abbattimento. Wind Air aveva tutte le caratteristiche di una società
di copertura dei servizi segreti. Il suo rappresentante legale, Costantino Polo
è un fantasma. Forse addirittura non è mai esistito. Risulta nato in Corsica e
tutti i suoi domicili dichiarati in Italia risultano falsi. La società non ha
mai presentato un bilancio e sua sede romana, in via della Tribuna di
Campitelli al numero 23, è in un elegante stabile che, dai documenti
dell'Agenzia del Demanio, risulta appartenere al ministero dell'Interno, «in
uso per comprovate ed effettive finalità istituzionali; dettaglio motivazione:
Polizia di Stato».
E poi le microspie. Due cimici sofisticatissime vengono trovare
nell’appartamento romano del deputato di Forza Italia Pergiorgio Massidda che,
insieme al democratico Angelo Altea, aveva presentato la prima interrogazione
parlamentare sul caso Volpe 132. Una delle microspie era addirittura occultata
in una Bibbia.
Resta solo da dire che il cuore di questo mistero italiano dimenticato è la
nave Lucina, che la sera del 2 marzo 1994 era a Feraxi. Il suo nome è legato a
un destino di sangue. Nella notte tra il 5 e il 6 luglio di quel 1994 maledetto
i sette uomini dell'equipaggio vengono sgozzati nel sonno nel porto di
Djendjen, in Algeria. La tesi ufficiale, cioè quella di un massacro organizzato
dagli estremisti islamici, non ha mai convinto molto, perché quello era un
porto controllato dalle forze armate algerine. La verità sulla carneficina
resterà molto probabilmente sepolta per sempre.
È infatti sfuggita in un processo bruciatosi in appena due giorni ad Algeri e conclusosi
con una sentenza che a tutti è apparsa “politica”. Inutilmente la procura di
Trapani ha tentato di riaprire il caso. L’unica cosa certa è che sono sparite
600 tonnellate di carico. Ufficialmente grano, ma molto più probabilmente
altro. Armi e rifiuti radioattivi? Forse.
Un membro dell’equipaggio della Lucina scampò alla morte, perché non era
riuscito a imbarcarsi per un contrattempo. Si tratta di Gaetano Giacomina, di
Oristano, un agente della struttura supersegreta Gladio, che per anni era stato
infiltrato proprio in Algeria. Giacomina, nome in codice G-65, morirà in uno
strano incidente, nel 1998, nell'isola di Fogo, nell'arcipelago del Capo Verde.
Il suo corpo non è mai stato identificato.
Più che nascosto da un muro di gomma, il mistero della scomparsa
dell'elicottero “Volpe 132” sembra dunque essere precipitato in un buco nero.
Una stella collassata che, indifferente, inghiotte tutto: testimonianze, dubbi,
incongruenze, paure e speranze. Dietro tutto questo, si intuisce una strategia,
un oscuro disegno ancora tutto da chiarire: far scorrere il tempo, lasciando
che gli anni seppelliscano un ricordo e facciano dimenticare la ferita dolorosa
di una giustizia negata.
da qui
Il giallo del "Volpe 132" della Gdf precipitato nel '94: spari da una nave, di Marco Birolini, su Avvenire
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