Un grande scrittore a colloquio con Filippo Grandi, l’italiano da 5 anni alla guida dell’Unhcr. «Io sto con Dante e contro Celestino V. Bisogna esserci e trattare anche con i banditi, pur di salvare più
Il lago sembra un fiordo norvegese. I fianchi delle montagne striate di
neve strapiombano sull’acqua piatta. Attraversando un’Italia deserta e imbiancata,
su treni vuoti, in stazioni vuote, sono arrivato da Filippo Grandi, Alto
Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Non vive in Italia ormai da
decenni, e ci ritorna nella casa di famiglia a Bellagio. Tra gli altri posti ha
lavorato in Siria, Iraq, Sudan, Congo, Afghanistan, e ha diretto l’agenzia Onu
per i Palestinesi.
È un milanese di 63 anni, sornione, acuto, eloquente, delicato nei modi
eppure di polso; fiero delle sue convinzioni e pronto a prendersi rischi; posso
dire di averlo visto in azione tenere a bada ogni tipo di collaboratore o di
avversario, senza mai perdere la flemma, adattandosi all’interlocutore,
confortando le persone scoraggiate e moderando quelle esasperate. Quasi sempre
al centro di emergenze e operazioni complicatissime. Accanto al fuoco acceso
comincio a tempestarlo di domande.
Perché hai cominciato a fare questo lavoro?
«Venivo da una tradizione familiare filantropica, cattolica, da una parte,
dall’altra avevo un desiderio, quasi una smania di viaggiare, di conoscere altri
Paesi, il che era molto tipico sia dell’età che avevo, sia degli anni in cui
sono cresciuto. Non avevo un disegno chiaro, e nemmeno quando sono partito la
prima volta, per la Thailandia, all’epoca in cui molta gente fuggiva dalla
Cambogia dove l’esercito vietnamita aveva sgominato i Khmer rossi, mai potevo
immaginare che quella sarebbe stata la mia vita
Oltre alla voglia di darsi da fare, nel lavoro umanitario contano le
professionalità, cioè essere medici, infermieri, ingegneri, esperti in
telecomunicazioni e logistica, avvocati, e così via. Tu invece dici “non ero
specialista di niente.”
«E non lo sono nemmeno adesso! Ma questo mi ha permesso, alla fine, di
occuparmi di un po’ di tutto, o meglio, di imparare a coordinare il lavoro di
moltissime persone con competenze diverse. Mettere insieme, ecco l’unica cosa
che so fare. Piuttosto bene».
“Only connect” era il precetto letterario del romanziere E. M. Forster…
«Lo è anche di chi si trova a occupare un ruolo come il mio. Ah, dimenticavo di
dire di un’altra passione formativa, quella per le cartine geografiche. Mio
nonno, ingegnere, era capace di disegnare meravigliosamente il contorno di
qualsiasi Paese, io gli chiedevo “disegnami l’Italia” e lui la faceva a
memoria. Poi mi spiegava che i confini non erano stati sempre questi, e me li
ridisegnava a seconda delle varie epoche… »L’Alto
Commissario ha lavorato in Siria, Iraq, Sudan, Congo, Afghanistan. Un milanese
di 63 anni, delicato e di polso
Come in un atlante storico.
«E infatti la Geografia diventava subito Storia. Allora non immaginavo che 35
anni della mia vita l’avrei passata sui confini, o occupandomi di confini».
Lo sapevi che l’insegnamento della Geografia è stato pressoché abolito
nella scuola italiana?
«Sì, lo sapevo. Ed è un fatto tristissimo».
Il 14 dicembre scorso l’Unhcr, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per
i rifugiati, ha compiuto settant’anni.
«E pensa che era stato creato per durare tre anni! Oggi si occupa di 80 milioni
di persone nel mondo. Rifugiati, apolidi, sfollati interni al loro Paesi
E tu dopo il primo mandato di cinque anni sei stato appena riconfermato
Commissario.
«Ho chiesto di restare in carica solo due anni e mezzo, non altri cinque. Gli
amici mi hanno detto, “Hai fatto bene, sarai stanco…”. No, a dire il vero non
sono affatto stanco: ma dieci anni filati sono troppi, l’organizzazione deve
rinnovarsi ».
Un bilancio del tuo mandato dal 2016 a oggi?
«Io sono l’undicesimo Commissario. Ognuno dei miei predecessori si è trovato a
fronteggiare crisi storiche, per dire, l’Ungheria nel 1956, poi l’Algeria, che
è stata la prima emergenza in Africa di cui l’Unhcr si è occupata, quindi la
più grande di tutte, l’indipendenza del Bangladesh, nel 1971, che ha provocato
dieci milioni di rifugiati! E poi le altre vicende note a tutti, la Bosnia, il
Ruanda, eccetera. Io sono diventato Commissario proprio nel momento in cui si
creava la cosiddetta “emergenza europea”, la cui caratteristica è una
fortissima politicizzazione e l’identificazione, nei Paesi più ricchi, del
rifugiato come un pericolo, una minaccia da respingere in terra come in mare».
«Stiamo parlando di un caso numericamente non paragonabile ad altri molto
più ingenti ma comunque grave, perché per la prima volta ha messo seriamente in
discussione fino a negarli i principi stessi su cui è fondato il diritto
d’asilo: e questo proprio nel continente dove è stato concepito. Dal punto di
vista politico e morale, insomma, è stato un periodo molto difficile, e non ne
siamo fuori, anche se qualcosa lascia sperare in meglio».«I rifugiati vengono respinti al confine dei paesi
più ricchi. È lì il vero sbarramento, è lì che parte la demonizzazione e viene
dichiarata e sbandierata l’emergenza»
Il cambio di guardia negli Stati Uniti, vuoi dire?
«Perché no? Comunque sia, il problema che si ripropone è da anni lo stesso,
anche se appare un paradosso: i rifugiati vengono accolti senza troppi ostacoli
nei Paesi poveri e invece respinti al confine dei paesi più ricchi. È lì il
vero sbarramento, è lì che parte la demonizzazione e viene dichiarata e
sbandierata l’emergenza. Di conseguenza, il mio compito principale in questi
anni è stato quello di tentare di smontare questa falsificazione: una battaglia
diversa dalle solite, perché non è più soltanto contro la sete, la fame o il
freddo, ma contro la manipolazione, che è sempre condotta per scopi
elettorali».
Con quali governi europei ti sei trovato meglio?
«Allora, appena tre giorni dopo il mio insediamento mi chiamò il ministro degli
Esteri tedesco, Steinmeier, che ora è Presidente. Una telefonata molto calorosa
e al tempo stesso preoccupata: eravamo al culmine del grande esodo dalla Siria
e la cancelliera Merkel aveva pronunciato la famosa frase “Wir schaffen das”,
cioè, “noi possiamo farlo”, “ci pensiamo noi”, aprendo le porte della Germania
a un numero enorme di rifugiati siriani, cosa che sembrava poi dovesse pagare
caro, e invece, guarda un po’, dopo cinque anni è ancora lì! Ho ammirato la sua
filosofia, cioè, che non solo fosse giusta l’accoglienza, ma che fosse
possibile. Noi possiamo farlo!» .«I
governi con i quali mi sono trovato meglio? Mi ricordo la telefonata di Angela
Merkel ai tempi della crisi dei profughi siriani, era informata di tutto, ne
sapeva più di me»
Be’ se una cosa buona la puoi fare, allora la devi fare. Questa sarebbe la
mia filosofia.
«E un paio di settimane dopo mi ha telefonato lei, Angela Merkel. Era informata
su tutto, persino più di me, e nel dettaglio. Aveva i numeri, sapeva i paesi
d’origine, conosceva i problemi. Mi ha molto impressionato. E poi tra gli altri
governi che ci sono stati vicini, vorrei portare l’esempio del Niger, un Paese
invece molto povero, eppure un grandissimo modello di accoglienza».
«Quando eravamo strangolati in Libia e cercavamo di tirar fuori più gente
possibile dai centri di detenzione, il Niger ha accettato di fornirci canali di
evacuazione che funzionano ancora».«Venivo
da una tradizione filantropica. E avevo la smania di viaggiare. Poi c’era mio
nonno: lui disegnava i confini dei Paesi a memoria e io su quei confini sono
finito»
E Paesi, o piuttosto, governi, con cui avete avuto più guai?
«Be’, tra gli altri in Europa, soprattutto l’Ungheria. Ma non si tratta qui di
fare buoni e cattivi, e poi le cose possono cambiare. Un problema grosso dovuto
alla politicizzazione di cui ti parlavo, è l’esternalizzazione dell’asilo, cioè
obbligare i rifugiati a fare la richiesta non nel Paese di destinazione ma in
quello di transito».
«I primi a proporla sono stati gli australiani, e poi gli americani alla
frontiera col Messico e ora alcuni Paesi europei insistono, ma per fortuna
l’Unione Europea per ora si è rifiutata di accettare questa pratica. Immagina
tu se una richiesta d’asilo dovesse essere fatta in Libia!».
A me stupisce, anzi mi fa proprio incazzare questo continuo richiamo ai
“valori cristiani” da parte di chi li calpesta ogni giorno in ogni sua parola e
ogni sua azione. Dicono di voler difendere l’identità europea dalla minaccia
islamica…
«Eh già, di quali valori si parla, in effetti? Non certo la tolleranza o la
solidarietà. Comunque, io, pur essendo cristiano, preferisco seguire la
raccomandazione di Emma Bonino, che dice: per favore, non tiriamo in ballo i
valori, perché lì il terreno è scivoloso, limitiamoci a parlare invece di leggi
e di norme».
il diritto d’asilo è nella Costituzione italiana e
nella legislazione europea»
«Allora, il diritto d’asilo è nella Costituzione italiana e nella
legislazione europea, dove la sua formulazione è molto netta e tosta. Le leggi
stanno lì, sono scritte, mica si possono aggirare».
Ci sono nella storia recenti alcuni casi esemplari a dimostrare che i
rifugiati, quasi sempre, non vedono l’ora di tornare a casa loro.
«Certo, pensiamo ai curdi iracheni nel ‘91, ai kossovari nel ‘99… che sono
rientrati nel loro Paese a centinaia di migliaia, appena hanno potuto».Il mito dell’invasione «è il tipico immaginario
delle nazioni ricche. Se si prendono gli 80 milioni tra rifugiati e sfollati
nel mondo, almeno nove su dieci sono ospitati da Paesi poveri o non hanno
affatto varcato le frontiere»
Questo dovrebbe sfatare il mito dell’invasione, degli intrusi che mirano a
piazzarsi in casa nostra per sempre…
«È il tipico immaginario delle nazioni ricche. Se si prendono gli 80 milioni
tra rifugiati e sfollati nel mondo, almeno nove su dieci sono ospitati da Paesi
poveri o non hanno affatto varcato le frontiere. Il fenomeno della gente in
fuga riguarda quasi sempre i Paesi più poveri, ma viene raccontato dai Paesi
ricchi: e questo falsa la prospettiva. In realtà è difficilissimo lasciare il
Paese dove sei nato, e molto doloroso spezzare la propria vita».
«Porto a esempio una delle mie prime missioni da Commissario, al tempo in
cui a Damasco c’erano ancora i bombardamenti: la maggioranza dei siriani
fuggiva dal proprio quartiere in quello accanto. Si spostavano di qualche
chilometro, dormivano in alloggi di fortuna, ma non era in fondo meno duro il
loro esilio, destinato magari a durare anni. Io gli chiedevo: “perché non siete
andati più lontano?” visto che da lì si sentivano cadere le bombe, e loro mi
rispondevano “perché vogliamo tornare di corsa, appena sarà possibile.” Molte
delle guerre attuali hanno in realtà la forma della guerra civile».
Ricordo il ritorno degli afghani nel 2002. Fu una cosa incredibile.
«Sì, fino a ventimila rimpatriati al giorno. E parliamo di persone che erano
state via anche per dieci o vent’anni, soprattutto in Pakistan e in Iran. Alla
fine dell’anno erano quasi due milioni gli afghani rientrati
Ma esiste ancora una differenza tra chi fugge da una guerra e chi invece
dalla fame o dalla siccità?
«Noi dobbiamo mantenere questo criterio, ma il più delle volte le due cose
coincidono: nei Paesi dove ci sono fame e carestia c’è spesso anche la guerra,
e viceversa. In tutto il Sahel, per esempio, il cambiamento climatico si somma
all’azione delle bande di terroristi. La spinta delle popolazioni a muoversi
per salvarsi la vita si deve all’intreccio di questi fattori»...
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