venerdì 26 febbraio 2021

Rifugiati: «Sono i Paesi poveri, non quelli ricchi, ad aiutare i poveri» - Edoardo Albinati

Un grande scrittore a colloquio con Filippo Grandi, l’italiano da 5 anni alla guida dell’Unhcr. «Io sto con Dante e contro Celestino V. Bisogna esserci e trattare anche con i banditi, pur di salvare più

Il lago sembra un fiordo norvegese. I fianchi delle montagne striate di neve strapiombano sull’acqua piatta. Attraversando un’Italia deserta e imbiancata, su treni vuoti, in stazioni vuote, sono arrivato da Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Non vive in Italia ormai da decenni, e ci ritorna nella casa di famiglia a Bellagio. Tra gli altri posti ha lavorato in Siria, Iraq, Sudan, Congo, Afghanistan, e ha diretto l’agenzia Onu per i Palestinesi.

È un milanese di 63 anni, sornione, acuto, eloquente, delicato nei modi eppure di polso; fiero delle sue convinzioni e pronto a prendersi rischi; posso dire di averlo visto in azione tenere a bada ogni tipo di collaboratore o di avversario, senza mai perdere la flemma, adattandosi all’interlocutore, confortando le persone scoraggiate e moderando quelle esasperate. Quasi sempre al centro di emergenze e operazioni complicatissime. Accanto al fuoco acceso comincio a tempestarlo di domande.

Perché hai cominciato a fare questo lavoro?
«Venivo da una tradizione familiare filantropica, cattolica, da una parte, dall’altra avevo un desiderio, quasi una smania di viaggiare, di conoscere altri Paesi, il che era molto tipico sia dell’età che avevo, sia degli anni in cui sono cresciuto. Non avevo un disegno chiaro, e nemmeno quando sono partito la prima volta, per la Thailandia, all’epoca in cui molta gente fuggiva dalla Cambogia dove l’esercito vietnamita aveva sgominato i Khmer rossi, mai potevo immaginare che quella sarebbe stata la mia vita

Oltre alla voglia di darsi da fare, nel lavoro umanitario contano le professionalità, cioè essere medici, infermieri, ingegneri, esperti in telecomunicazioni e logistica, avvocati, e così via. Tu invece dici “non ero specialista di niente.”
«E non lo sono nemmeno adesso! Ma questo mi ha permesso, alla fine, di occuparmi di un po’ di tutto, o meglio, di imparare a coordinare il lavoro di moltissime persone con competenze diverse. Mettere insieme, ecco l’unica cosa che so fare. Piuttosto bene».

“Only connect” era il precetto letterario del romanziere E. M. Forster…
«Lo è anche di chi si trova a occupare un ruolo come il mio. Ah, dimenticavo di dire di un’altra passione formativa, quella per le cartine geografiche. Mio nonno, ingegnere, era capace di disegnare meravigliosamente il contorno di qualsiasi Paese, io gli chiedevo “disegnami l’Italia” e lui la faceva a memoria. Poi mi spiegava che i confini non erano stati sempre questi, e me li ridisegnava a seconda delle varie epoche… »L’Alto Commissario ha lavorato in Siria, Iraq, Sudan, Congo, Afghanistan. Un milanese di 63 anni, delicato e di polso

Come in un atlante storico.
«E infatti la Geografia diventava subito Storia. Allora non immaginavo che 35 anni della mia vita l’avrei passata sui confini, o occupandomi di confini».

Lo sapevi che l’insegnamento della Geografia è stato pressoché abolito nella scuola italiana?
«Sì, lo sapevo. Ed è un fatto tristissimo».

Il 14 dicembre scorso l’Unhcr, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, ha compiuto settant’anni.
«E pensa che era stato creato per durare tre anni! Oggi si occupa di 80 milioni di persone nel mondo. Rifugiati, apolidi, sfollati interni al loro Paesi

E tu dopo il primo mandato di cinque anni sei stato appena riconfermato Commissario.
«Ho chiesto di restare in carica solo due anni e mezzo, non altri cinque. Gli amici mi hanno detto, “Hai fatto bene, sarai stanco…”. No, a dire il vero non sono affatto stanco: ma dieci anni filati sono troppi, l’organizzazione deve rinnovarsi ».

Un bilancio del tuo mandato dal 2016 a oggi?
«Io sono l’undicesimo Commissario. Ognuno dei miei predecessori si è trovato a fronteggiare crisi storiche, per dire, l’Ungheria nel 1956, poi l’Algeria, che è stata la prima emergenza in Africa di cui l’Unhcr si è occupata, quindi la più grande di tutte, l’indipendenza del Bangladesh, nel 1971, che ha provocato dieci milioni di rifugiati! E poi le altre vicende note a tutti, la Bosnia, il Ruanda, eccetera. Io sono diventato Commissario proprio nel momento in cui si creava la cosiddetta “emergenza europea”, la cui caratteristica è una fortissima politicizzazione e l’identificazione, nei Paesi più ricchi, del rifugiato come un pericolo, una minaccia da respingere in terra come in mare».

«Stiamo parlando di un caso numericamente non paragonabile ad altri molto più ingenti ma comunque grave, perché per la prima volta ha messo seriamente in discussione fino a negarli i principi stessi su cui è fondato il diritto d’asilo: e questo proprio nel continente dove è stato concepito. Dal punto di vista politico e morale, insomma, è stato un periodo molto difficile, e non ne siamo fuori, anche se qualcosa lascia sperare in meglio».«I rifugiati vengono respinti al confine dei paesi più ricchi. È lì il vero sbarramento, è lì che parte la demonizzazione e viene dichiarata e sbandierata l’emergenza»

Il cambio di guardia negli Stati Uniti, vuoi dire?
«Perché no? Comunque sia, il problema che si ripropone è da anni lo stesso, anche se appare un paradosso: i rifugiati vengono accolti senza troppi ostacoli nei Paesi poveri e invece respinti al confine dei paesi più ricchi. È lì il vero sbarramento, è lì che parte la demonizzazione e viene dichiarata e sbandierata l’emergenza. Di conseguenza, il mio compito principale in questi anni è stato quello di tentare di smontare questa falsificazione: una battaglia diversa dalle solite, perché non è più soltanto contro la sete, la fame o il freddo, ma contro la manipolazione, che è sempre condotta per scopi elettorali». 

Con quali governi europei ti sei trovato meglio?
«Allora, appena tre giorni dopo il mio insediamento mi chiamò il ministro degli Esteri tedesco, Steinmeier, che ora è Presidente. Una telefonata molto calorosa e al tempo stesso preoccupata: eravamo al culmine del grande esodo dalla Siria e la cancelliera Merkel aveva pronunciato la famosa frase “Wir schaffen das”, cioè, “noi possiamo farlo”, “ci pensiamo noi”, aprendo le porte della Germania a un numero enorme di rifugiati siriani, cosa che sembrava poi dovesse pagare caro, e invece, guarda un po’, dopo cinque anni è ancora lì! Ho ammirato la sua filosofia, cioè, che non solo fosse giusta l’accoglienza, ma che fosse possibile. Noi possiamo farlo!» .«I governi con i quali mi sono trovato meglio? Mi ricordo la telefonata di Angela Merkel ai tempi della crisi dei profughi siriani, era informata di tutto, ne sapeva più di me»

Be’ se una cosa buona la puoi fare, allora la devi fare. Questa sarebbe la mia filosofia.
«E un paio di settimane dopo mi ha telefonato lei, Angela Merkel. Era informata su tutto, persino più di me, e nel dettaglio. Aveva i numeri, sapeva i paesi d’origine, conosceva i problemi. Mi ha molto impressionato. E poi tra gli altri governi che ci sono stati vicini, vorrei portare l’esempio del Niger, un Paese invece molto povero, eppure un grandissimo modello di accoglienza».

«Quando eravamo strangolati in Libia e cercavamo di tirar fuori più gente possibile dai centri di detenzione, il Niger ha accettato di fornirci canali di evacuazione che funzionano ancora».«Venivo da una tradizione filantropica. E avevo la smania di viaggiare. Poi c’era mio nonno: lui disegnava i confini dei Paesi a memoria e io su quei confini sono finito»

E Paesi, o piuttosto, governi, con cui avete avuto più guai?
«Be’, tra gli altri in Europa, soprattutto l’Ungheria. Ma non si tratta qui di fare buoni e cattivi, e poi le cose possono cambiare. Un problema grosso dovuto alla politicizzazione di cui ti parlavo, è l’esternalizzazione dell’asilo, cioè obbligare i rifugiati a fare la richiesta non nel Paese di destinazione ma in quello di transito».

«I primi a proporla sono stati gli australiani, e poi gli americani alla frontiera col Messico e ora alcuni Paesi europei insistono, ma per fortuna l’Unione Europea per ora si è rifiutata di accettare questa pratica. Immagina tu se una richiesta d’asilo dovesse essere fatta in Libia!». 

A me stupisce, anzi mi fa proprio incazzare questo continuo richiamo ai “valori cristiani” da parte di chi li calpesta ogni giorno in ogni sua parola e ogni sua azione. Dicono di voler difendere l’identità europea dalla minaccia islamica…
«Eh già, di quali valori si parla, in effetti? Non certo la tolleranza o la solidarietà. Comunque, io, pur essendo cristiano, preferisco seguire la raccomandazione di Emma Bonino, che dice: per favore, non tiriamo in ballo i valori, perché lì il terreno è scivoloso, limitiamoci a parlare invece di leggi e di norme».

il diritto d’asilo è nella Costituzione italiana e nella legislazione europea»

«Allora, il diritto d’asilo è nella Costituzione italiana e nella legislazione europea, dove la sua formulazione è molto netta e tosta. Le leggi stanno lì, sono scritte, mica si possono aggirare».

Ci sono nella storia recenti alcuni casi esemplari a dimostrare che i rifugiati, quasi sempre, non vedono l’ora di tornare a casa loro.
«Certo, pensiamo ai curdi iracheni nel ‘91, ai kossovari nel ‘99… che sono rientrati nel loro Paese a centinaia di migliaia, appena hanno potuto».Il mito dell’invasione «è il tipico immaginario delle nazioni ricche. Se si prendono gli 80 milioni tra rifugiati e sfollati nel mondo, almeno nove su dieci sono ospitati da Paesi poveri o non hanno affatto varcato le frontiere»

Questo dovrebbe sfatare il mito dell’invasione, degli intrusi che mirano a piazzarsi in casa nostra per sempre…
«È il tipico immaginario delle nazioni ricche. Se si prendono gli 80 milioni tra rifugiati e sfollati nel mondo, almeno nove su dieci sono ospitati da Paesi poveri o non hanno affatto varcato le frontiere. Il fenomeno della gente in fuga riguarda quasi sempre i Paesi più poveri, ma viene raccontato dai Paesi ricchi: e questo falsa la prospettiva. In realtà è difficilissimo lasciare il Paese dove sei nato, e molto doloroso spezzare la propria vita».

«Porto a esempio una delle mie prime missioni da Commissario, al tempo in cui a Damasco c’erano ancora i bombardamenti: la maggioranza dei siriani fuggiva dal proprio quartiere in quello accanto. Si spostavano di qualche chilometro, dormivano in alloggi di fortuna, ma non era in fondo meno duro il loro esilio, destinato magari a durare anni. Io gli chiedevo: “perché non siete andati più lontano?” visto che da lì si sentivano cadere le bombe, e loro mi rispondevano “perché vogliamo tornare di corsa, appena sarà possibile.” Molte delle guerre attuali hanno in realtà la forma della guerra civile».

Ricordo il ritorno degli afghani nel 2002. Fu una cosa incredibile.
«Sì, fino a ventimila rimpatriati al giorno. E parliamo di persone che erano state via anche per dieci o vent’anni, soprattutto in Pakistan e in Iran. Alla fine dell’anno erano quasi due milioni gli afghani rientrati

Ma esiste ancora una differenza tra chi fugge da una guerra e chi invece dalla fame o dalla siccità?
«Noi dobbiamo mantenere questo criterio, ma il più delle volte le due cose coincidono: nei Paesi dove ci sono fame e carestia c’è spesso anche la guerra, e viceversa. In tutto il Sahel, per esempio, il cambiamento climatico si somma all’azione delle bande di terroristi. La spinta delle popolazioni a muoversi per salvarsi la vita si deve all’intreccio di questi fattori»...


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