Nell’italiano corrente prof è forma scorciata di professore, di professoressa e dei rispettivi plurali. L’accorciamento risuona frequentissimo nel parlato, in interazioni comunicative ormai quasi prive di limiti, quanto a registro, e ricorre anche con abbondanza nello scritto, come si vedrà. Le forme non scorciate ne subiscono un’estesa concorrenza.
Il prof di
cui si sta dicendo non è il prof giovanilistico e
contestatario registrato dai dizionari come “gergale” nel corso della seconda
metà del secolo scorso. Per dirla con un paragone up to date, se
fosse un virus, si potrebbe dire che pur appartenendo forse allo stesso ceppo
(ma c’è da dubitarne), non è lo stesso virus. È differenza di pedantesca
sottigliezza: la si destina ad altra sede e ad altro momento, caso mai.
Qui
interessa il prof presente, quello emerso con prepotenza nel
parlato quando il Novecento cominciava a declinare. Lo ha fatto come forma di
appello e sopra labbra ancora più fresche di gioventù di quelle del
predecessore novecentesco cui si è alluso: “Prof, posso uscire?”; “Prof, ieri
non ho potuto studiare”; “Che voto mi ha dato, prof?”. La funzione di appello
gli ha fatto da incubatrice e, come in una nicchia sintatticamente
protetta, prof vi ha potuto prosperare, stabilizzandosi come
forma. In altre parole, quanto a origine funzionale, il prof da
cui oggi si è epidemicamente invasi è un vocativo, al pari di altri correnti
accorciamenti.
Le procedure
che ne hanno determinato la sembianza non sono infatti peregrine o di scarso
rendimento, nello stato presente della lingua nazionale. Sono esemplari in
proposito i vezzeggiativi attualmente in voga nell’onomastica personale. Che
per prof un parallelo formale si trovi tra i vezzeggiativi è
lungi dall’essere accidentale. Per intendersi, si tratta dei casi di Fede,
per Federico/a, Ale, per Alessandro/a o
per Alessio/a, Vale, per Valentino/a, Simo,
per Simone/a e così via.
A partire
da professore o dal suo femminile, anche nel caso di prof,
con la riduzione della forma, c’è una radicale ritrazione dell’accento: una
sorta di baritonesi. Come atti linguistici, appello e invocazione si correlano
spesso a pronuncia emotiva e ricerca di espressività e, in proposito, una
ritrazione dell’accento è stata osservata in numerose lingue. La forma di prof cela
così tratti che, per chi è curioso della lingua, vanno ben al di là della sua
contingenza. Sono infatti di portata ben più ampia, tanto genealogicamente,
quanto tipologicamente.
In questo
processo, con la permanenza residuale di una seconda sillaba, i vezzeggiativi
restano parole piane: l’italiano ha una predilezione in proposito. Al massimo,
e anche questo è fenomeno per nulla peregrino, l’apertura della vocale della
seconda sillaba si riduce: accade con Robi, per Roberto/a,
con Franci, per Francesco/a. Ricadono nel
tipo papi, per papà, e mami, per mamma.
Casi famigliari, nel doppio valore che la qualificazione dispone. Di nuovo,
sono parole non accidentalmente presenti in una disamina del caso formale
di prof in cui tuttavia la riduzione forma si rivela ancora
più radicale, come avviene nei paralleli di lingue straniere. In prof,
scompare tutto ciò che seguirebbe la prima sillaba di professore o
del suo femminile.
Svanisce
così nella costituzione della parola anche quanto in italiano assicura
formalmente la mozione di genere. Niente maschile, niente femminile. Con la sua
forma, prof non mette nulla a disposizione per tale
specificazione. Una parola ideale, si penserà, oggi che circolano fantasiose,
se non cervellotiche proposte per ottenere artificialmente l’effetto che, senza
che nessuno lo prospettasse, si è prodotto in prof. Nella funzione
di appello, del resto, la specificazione di genere potrebbe avere scarsa ragione
d’essere, nel caso di prof, come nel caso dei vezzeggiativi. In
linea di principio, appellato o appellata sono presenti all’atto di parola che
ne fa l’invocazione: di che genere siano, è palese nel contesto.
Stabilizzatasi
nella sua nicchia, la forma prof non si è però limitata alla
funzione di vocativo. Ha debordato. Capita a forme siffatte. Tanto i
vezzeggiativi, quanto papi e mami hanno avuto
la stessa progressione funzionale: a forza di dire cose come “Sei la mia vita,
Fede”, si è passati a dire “Fede non abita più qui”. E da “Mami e papi, cosa mi
regalate per la mia festa?”, si è giunti a “Mami e papi litigano sempre”. Prof si
è esteso alla stessa maniera e ha cominciato a designare, come un nome
qualsiasi. È così entrato a pieno titolo nel gioco della sintassi e nel gioco
della sintassi, per un nome, una determinazione formale del genere è cogente,
in italiano. Il genere è categoria grammaticale radicata molto profondamente
nel sistema e viene a galla con molte manifestazioni.
Si prenda
per esempio Le belle ragazze erano arrivate stanche. Non ci si fa
caso, ma il genere è manifesto in cinque parole su sei, peraltro tutte
concordate, sotto questo rispetto. Il numero addirittura in tutte: ridondanze,
sprechi da nababbi. Altre lingue fanno cose comparabili, ma naturalmente non
tutte. Di queste differenze, non si può fare carico a un’ideologia
qualsivoglia. È invece chiaramente ideologica ogni libera e creativa
speculazione in proposito: libera e creativa, si ribadisce, quindi molto
migliore, persino commendevole, se al tempo stesso consapevole di trattare in
modo ideologico ciò che basilarmente non lo è.
Prof è allora parola ideale del
lessico di un’ipotetica lingua tipologicamente isolante, di una di quelle
lingue in cui la forma delle parole non cambia mai, per il mutare della loro
funzione in funzione di tratti combinatori. Prof non si trova
tuttavia a ricorrere concretamente in discorsi composti in una lingua isolante.
L’italiano non è una lingua isolante. Tirato fuori della sua nicchia appellativa,
il pregio formale di prof, la sua immutabile rigidezza, si rivela
un difetto. Prof non è in grado di soddisfare le esigenze
compositive dell’italiano. Per manifestarne il genere, come il numero, gli
viene dunque in soccorso l’articolo. Fuori dell’uso appellativo, per prof la
sua compagnia si impone: “dice la prof”; “il prof di matematica”; “l’adesione
allo sciopero è stata maggiore tra le prof che tra i prof”.
Ebbene, tra
giovani e adolescenti l’uso di prof è molto ben consolidato da
più di un paio di decenni, per designare chi insegna, oltre che come forma di
indirizzo. Una durata siffatta comporta che l’istruzione superiore italiana
conti già inevitabilmente docenti che, al tempo in cui erano discenti,
designavano così i loro docenti. Si tratta di una vera e propria generazione-prof,
nella quale non farà fatica a riconoscersi qualche lettore o lettrice di queste
righe. Da attuale bersaglio, chi appartiene a tale generazione accoglie i prof che
lanciano o usano nei suoi confronti i suoi discenti senza forse farci caso.
Soprattutto, senza manifestare né covare il “disappunto” che ancora venti anni
fa testimoniava, en passant e non solo a suo nome, Sabina
Canobbio, una studiosa attenta all’espressione giovanile e allora attiva
all’Università di Torino. Ne diceva in apertura di una ricognizione dei
riassestamenti del sistema dei saluti in italiano, sollecitata dal prepotente
emergere nel contesto universitario di quel Salve, prof! avviato
allora a divenire quanto è oggi: uno standard nazionale. Si sono appiattite le
differenze in proposito che, consapevole di esperire il fenomeno in un’area
linguisticamente propulsiva, Canobbio ipotizzava allora con ragione esistessero
tra aree diverse della nazione linguistica. La formula ha pertanto fatto da
opportuno titolo-emblema di un recente pamphlet della psicologa Alessandra
Farneti dedicato allo stato dell’università italiana, osservata con lo sguardo
bonario e nostalgico di chi ritiene che τετέλεσται o, se si preferisce, consummatum
est e che in proposito, ammesso il futuro abbia memoria, non resta che
lasciare qualche testimonianza.
A cavaliere
tra i due secoli Salve prof! giungeva in quegli anni
all’università dal focolaio della scuola superiore. Vi si trasferiva
silenziosamente con i suoi portatori e le loro attitudini. La scuola prevede
(o, forse, prevedeva) un contatto quotidiano tra discenti e docenti che
l’evoluzione delle profonde istanze culturali familistiche della nazione ha da
un certo momento in avanti assimilato, se non sostituito al domestico. Le
asimmetrie socio-funzionali della tradizione dell’insegnamento si sono fatte
incerte, i contorni delle figure che vi operano si sono sfumati. Lo stesso è
accaduto alla distinzione, nelle interazioni comunicative, tra la distanza
delle forme di cortesia (Lei, Loro) e la prossimità di
quelle dell’affetto (tu, voi).
A tale
indeterminazione ha corrisposto bene il salve che nel corso
degli ultimi decenni si è imposto in italiano come formula di saluto
universale, al modo perentorio di un indiscutibile andazzo. È il saluto
adeguato a una società liquida. Così Salve prof! è risultato
una combinazione progressivamente perfetta. Per parte della gioventù studiosa,
come la si qualificava una volta, è forse la sola forma di saluto di cui è
capace, in quanto studiosa. Buongiorno, professoressa o buonasera
professore sono trascorsi dalla competenza attiva alla passiva, per
costoro. Sanno ovviamente che si tratta di formule di saluto, per averle forse
ancora udite adoperare. Non ne padroneggiano però il valore e rinunciano a
servirsene per non esserne imbarazzati, consapevoli della incapacità a farlo
con appropriatezza. Ci si intenda, niente di cui menare scandalo. Le norme di
condotta cambiano. Il dettaglio illustra un modo con cui cambiano. Espressioni
che l’uso teneva in efficienza, vengono trasferite in cantina: una cantina
personale, psicolinguistica, quindi comunitaria, sociolinguistica. In cantina,
cominciano ad arrugginirsi; diventano ferri vecchi inservibili e dalla
destinazione che si fa misteriosa.
Giunta, come
si diceva, alla funzione docente, alla generazione-prof risulta
oggi naturale servirsi di prof anche per designazioni di
membri del proprio insieme. Ecco un esempio: “Al triennio il prof di Italiano
ha spiegato per 20 minuti Pascoli ai sei studenti di quinta che sono in
presenza”. A parlare, secondo il credibile resoconto della giornalista che
l’intervista, è il vice-preside di un “Istituto comprensivo” di una minuscola
isola siciliana (a dimostrazione che non ci sono più aree esenti dal fenomeno).
A margine:
da più di un quarto di secolo, si dice istituto comprensivo un
insieme costituito da scuole di gradi diversi presenti in un area territoriale
ritenuta coerente e messo su soprattutto per ragioni di economia
amministrativa. In uso ormai anche fuori dei contesti strettamente
burocratici, istituto comprensivo è denominazione
perfettamente atta a mostrare quali sviluppi abbia avuto la lingua nella
scuola, cioè in un’istituzione socioculturale cruciale per il suo stato. Istituto
comprensivo ha anche sostituito tradizionali, trasparenti epigrafi
come Scuola elementare, Scuola media sulle
facciate dei relativi edifici. Vale lì da memento sullo stato della lingua non
solo per chi penetra in quegli edifici, ma anche per il passante, eventualmente
ignaro: cosa si faccia in tali edifici e a cosa siano socialmente destinati non
è dichiarato, non si comprende e forse non si sa. Ed è un atto di verità, da
parte dell’istituzione, proporsi in proposito come lodevolmente reticente.
Quanto ai
progressi di prof, essi si misurano soprattutto osservando come al
suo uso si siano frattanto conformate altre classi di parlanti, fuori del
contesto strettamente scolastico. L’hanno fatto forse per prime le relazioni
adulte più strette della gioventù studiosa, nelle innumerabili occasioni di
interazione comunicativa. Prof è entrato in altre parole nel
lessico famigliare. Se un giovane componente del nucleo proferisce, si ponga,
“Il prof di matematica è una vera carogna”, è probabile che componenti meno
giovani del medesimo nucleo cominceranno a uscirsene con “Qual è il giorno di
ricevimento del tuo prof di matematica?”.
Di lì, prof deve
avere debordato. Quanto a funzione sociale, in effetti, coloro che in casa sono
“papi” o “mami” fuori sono altro. Come interfacce comunicative, hanno così
provveduto a disseminare prof comunitariamente nella rete
delle loro relazioni. Tra coloro che stanno leggendo queste righe, ci sarà di
certo chi può testimoniare, per larga esperienza tanto attiva, quanto passiva,
se lavora come docente, che in luogo di professore o di professoressa capita
ormai di dire e di udire prof in ogni dove.
Se si
escludono i contesti marcati di rigorosa ufficialità, nell’italiano
parlato, prof è oggi in modo non marcato chiunque insegni
dalla scuola media in poi. Ciò vale anche fuori dei momenti della sua vita in
cui capita svolga la sua attività professionale e delle interazioni
comunicative con o di coloro che ne usufruiscono. Prof è
insomma la piana designazione del suo mestiere. I dizionari che registrano la
forma la definiscono ancora “gergale” (se ne è fatto cenno), ma di
gergale prof non ha più nulla. Conserva una patina giovanile o
giovanilista e, in alcune situazioni comunicative, una sfumatura connotativa di
morbida affettuosità.
Un
facile Gedankenexperiment è sufficiente per rendersene conto.
Nel contesto di un’interazione rilassata, alla domanda di una nuova conoscenza:
“E, dimmi un po’, tu cosa fai nella vita?”, molte risposte sono possibili per
una donna destinataria del quesito e, come professione, docente. È tuttavia
oggi poco probabile che se ne esca con un “La professoressa”, “Faccio la
professoressa”, a meno che non voglia (rischiare di) parere scostante e
antipatica. Se dirà del suo mestiere (potrebbe decidere di tacerne), è quasi
certo proferisca “La prof”, “Faccio la prof”. Non farebbe diversamente un uomo,
dovendo scegliere tra prof e professore.
Una
situazione siffatta nel parlato ha prodotto un fall out nello
scritto, dove prof è ovvio sia arrivato secondariamente, per
le ragioni esposte sopra. L’accorciamento, il prof liscio, per
dire così, spesseggia anche nello scritto e rivaleggia col prof. chiuso
dal punto, cioè con l’antiquata abbreviazione del titolo. Forse ormai lo
supera, quanto a numero di ricorrenze. Oggi si dispone di strumenti potenti (ma
approssimativi), per averne un’idea. Se li si mette al lavoro, se ne trae
questa impressione. A procurarla non sono soltanto scritti che sono mimetici
dell’orale (discorsi diretti, per esempio, in narrazioni o resoconti di
ambientazione genericamente scolastica: se ne è già menzionato un caso), ma
anche testi privi di agganci con l’oralità.
La prosa
giornalistica è esemplare in proposito ed ecco qualche ricorrenza recente, a
casaccio: “Questo ha creato una serie di lungaggini che ha portato l’Emilia ad
avere solo 25 mila prof vaccinati”; “lo scuolabus guidato da Ousseynou Sy
carica 51 ragazzi della media Vailati di Crema, due prof e una bidella e si
dirige verso Linate”. “All'Albertelli occupato vincono gli studenti. Fino a
domani […] sono abolite le lezioni in didattica a distanza, come
precedentemente indicato dal preside. Lo hanno deciso i prof: ieri mattina su
75 in 56 hanno votato contro la decisione del dirigente scolastico”;
“«Vaccinarsi è importante per tornare alla normalità, con la Dad perdiamo i
ragazzi più introversi – dice la prof – nonostante tutte le strategie messe in
atto da noi insegnanti»”; “Nonostante l’ispezione approfondita dell’Ufficio
scolastico regionale avesse valutato come «grave» e assolutamente sbagliato
l’atteggiamento del prof”; “Negli anni ’80 il prof agli studenti di greco e di
latino del Beccaria proponeva delle ore supplementari”.
Professore resiste, in compagnia del suo
femminile e dei relativi plurali, nel corpo degli articoli, ma è scomparso dai
titoli, dove prof pare oggi la regola: “Al liceo Mamiani un
tribunale di prof per i ragazzi ribelli”; “Quei 600 prof d’Emilia presenti in
classe ma esodati dal vaccino”; “Al Tar boom di ricorsi per guerre tra prof e
concessioni balneari”; “Il prof del Poli con il doppio lavoro risarcisce allo
stato 350 mila euro”; “Il prof dalla Russia a Ragusa per sfuggire al carcere”;
“La prof Cavanna lascia 25 milioni in beneficenza”: esempio rivelatore. Il
punto in chiusura avrebbe dato a prof un distante valore
denotativo: in accompagnamento del cognome, si sarebbe trattato
dell’abbreviazione di un titolo. Senza punto, ecco apparire l’affettuosità
della connotazione, che è l’effetto cui mirava certamente il titolista.
In casi
siffatti, si penserà, è anzitutto la ricerca di brevità a imporre prof.
Del resto, qualcosa di simile si sarà già affacciato allo spirito di chi legge
anche a proposito dell’epifania di prof sulle labbra
adolescenziali e giovanili: sarebbe anche lì un’incontenibile tensione verso
concisione e sveltezza d’espressione ad avere innescato il processo che ha
lanciato prof verso i suoi attuali fasti.
Verisimile,
persino vero, se si vuole, ma solo da una prospettiva formale, come suggerisce
anche l’esempio illustrato poco sopra. Quanto a brevità, sarebbe stato diverso
se ci fosse stato un prof. al posto del prof? C’è
altro in gioco, in una commutazione siffatta, rispetto al mero espediente
orientato a uno scopo. Rendersene conto non è difficile. Brevi come prof sono,
si ponga, avv, ing, arch, dott o,
come oggi usa, per anglofilia, doc. Non sono forme comuni, si
dirà. Non è impossibile pensare tuttavia che esse siano adoperate in ambiti e
in contesti comunicativi specifici, con connotazioni di familiarità,
confidenza, affetto, eventualmente di celebrità e persino di letterarietà. Un
esempio? Di recente, doc è comparso nel titolo di una
fortunata serie televisiva di produzione nazionale. Non vi è comparso a
casaccio. Con un doc!, i diversi personaggi vi si rivolgono al
protagonista, un medico che, da primario del reparto, vi si trova degradato per
una complessa vicenda personale. Con doc lo designano poi nel
loro gergo, come sostituto del suo nome personale. L’effetto è di piena
verisimiglianza espressiva e comunicativa. Non è quindi irragionevole ritenere
che, oggi, doc possa essere usato, forse è già usato alla
stessa maniera in qualche reparto ospedaliero. Fuori dell’occasionale luce dei
riflettori, difficile escludere che lo siano altri accorciamenti comparabili.
Una forma può avere maggiore o minore successo: all’opera c’è lo stesso
modello.
Ebbene, a
nessun titolista in cerca di brevità passerebbe per la testa di proporre ai
suoi lettori, si ponga, un “Doc morto dopo il vaccino AstraZeneca”, ove dovesse
dare la notizia di un incidente del genere con un medico a fare da sfortunato
protagonista. Doc e il resto, da un lato, sono meri
accorciamenti, più o meno codificati in funzione della situazione e del
registro in cui ci si esprime, dall’altro, dove si trovano, sono rimasti
nell’area dell’onomastica personale.
È invece la
natura sintattica e lessicale di prof, combinata, eventualmente,
con la ricerca di brevità e di altri effetti, che nella mente di un titolista
produce facilmente “Prof morto dopo il vaccino AstraZeneca” (l’esempio è
naturalmente autentico). Come, per avere un utile e dirimente termine di
confronto, produce “Alluminio al posto dell’argenteria. Denunciata colf” o
“Decine di colf in piazza davanti la Prefettura «Schiave dei burocrati»”. E,
nel corpo di un recente articolo, “L’ex colf, di nazionalità moldava, si è
rivolta a un patronato di Roma per chiedere il pagamento della
liquidazione”. Colf ha oggi una vita linguistica meno florida,
forse, di prof e la sua genesi (socio)linguistica fu
certamente molto diversa da quella di prof, come sono diversi
i suoi valori nel discorso. Ma la comparazione dice che, come colf, prof è
ormai e senz’altro il nome comune con cui in italiano si designa il mestiere di
chi insegna.
Questa è la
lingua. Ne tragga chi sa le eventuali conseguenze. Ne faccia pretesto chi vuole
per le proprie speculazioni.
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