Dopo ore di discussione “muro contro muro”, si
era fermi al punto di partenza e nessuno avrebbe potuto dire su quale posizione
si sarebbe formata una maggioranza nel turbolento Consiglio di classe.
Tuttavia, era a loro, a quei docenti, che toccava decidere, ai componenti del
disorientato “organo di democrazia dal basso”, come lo definiva con
impareggiabile ipocrisia Enzina Delino, la
dirigente scolastica che aveva dipinto sul viso il disprezzo per gli organi collegiali della scuola.
L’atmosfera s’era fatta così elettrica, che in un
sussulto di orgoglio “matematica e scienze”,
al secolo Maria Teresa Scacco, con la voce
ferma dei momenti di passione, s’era rivolta alla preside, guardandola
negli occhi e più o meno volontariamente, con tono allusivo e brutale, le aveva
detto quello che pensava:
– Siamo qui da ore e diventa sempre più evidente: l’andamento dei lavori del Consiglio incarna alla perfezione il
frutto malato d’un matrimonio incestuoso. Lei lo sa bene, preside. Un
nanerottolo deforme…
Chi la conosceva sapeva che, raddrizzati gli occhiali
tondi, scivolati di sghimbescio sul bel naso francese, avrebbe proseguito,
spiegando che responsabile dell’oscena nascita era il “miserabile connubio tra
una destra sempre più codina e fascioleghista e la sinistra
centrista e neoliberista di Veltroni e Dalema, i dioscuri del dopo Berlino”.
Tempo per proseguire però non ne ebbe. Il cenno al
mostriciattolo tarato aveva fatalmente toccato la Delino che, tozza e
sgraziata, dall’alto dei suoi incredibili tacchi a spillo, sfiorava sì e no il
metro e quaranta. Per sopramisura, Pia Vassallo, la
castigata docente di religione, che
odiava di un odio viscerale la Scacco, rinforzò il vento della burrasca con un
gelido “cafona comunista”, zufolato ad arte per sembrare un
soffio e forte invece quanto ci voleva per giungere chiaro alle orecchie di
tutti.
In quanto alla Delino, sciolte le briglie alla bile,
scosse la criniera dei capelli ricci neri e cotonati, fulminò la Scacco con uno
sguardo luciferino e replicò in un falsetto isterico e minaccioso:
– Ci risparmi i suoi inconcludenti comizi,
signora Sacco e badi bene: non chiuderemo il verbale senza
una conclusione legale e definitiva! Basta con le impuntature ideologiche. Se
non troverete un accordo entro stasera, aggiorno il Consiglio a domattina. E se
il tempo domani non dovesse bastarvi, stia certa, qualcuno darà spiegazioni a
un ispettore!
Scacco ebbe un fremito. Per un attimo il labbro
inferiore prese a tremarle, tuttavia, benché pallida come un cencio, ricacciò
il pianto in gola e fu lapidaria:
– Magari un ispettore vicino al sindacato di cui lei è
dirigente. Uno che sia contemporaneamente parte e controparte!
Per Delino quelle parole furono un violento ceffone,
tuttavia non replicò. In un clima di estrema tensione, la discussione ripartì,
ma il piccolo consesso, fino a quel momento diviso in “moderati”, “reazionari” e “progressisti”, aveva ormai inconsciamente trovato
l’accordo su alcuni punti decisivi che non erano all’ordine del giorno: evitare
uno scontro con la dirigente, “sbrigare la pratica”
e tornarsene a casa.
La scelta di disertare era pragmatica: il coraggio di
pochi, non poteva trasformare in combattenti i vili e gli opportunisti. Scacco
capì e si adeguò. Scontri in passato ce n’erano stati, ma l’aveva spuntata
sempre la dirigente e ognuno, infine, s’era fatto la convinzione che la partita
era persa in partenza. D’altra parte, era inutile negarlo: la tozza e deforme
durezza della Delino covava nel petto spropositato una prepotenza rara,
maligna, esperta e cavillosa, sostenuta da una struttura psicologica
parafascista e da un’attitudine al comando di tipo militaresco.
Abile nel dividere il corpo docente, solleticando le
meschine ambizioni dei servi sciocchi, minacciosa e persino spietata con i
pavidi, che ai primi segnali di guerra si tiravano indietro, Enzina Delino
isolava chi dava battaglia e grazie alle recenti, dissennate riforme
aziendaliste, che ne avevano sensibilmente aumentato il potere di dirigente, possedeva gli strumenti per
colpire.
Finché avevano dovuto fare i conti con quanto
sopravviveva dell’onda lunga del sessantotto.
Con la pressante, autentica domanda di cambiamento che
attraversava trasversalmente la società, la donna aveva tenuto a freno
il suo bonapartismo e la sua
intolleranza per le regole della democrazia e
nelle rare occasioni in cui aveva provato a imporsi era stata umiliata. Appresa
la lezione, decisa a non lasciarsi travolgere dal vento della contestazione,
Delino si era allora trincerata dietro l’obbligo di eseguire gli ordini che
venivano dall’alto; quando le era sembrato conveniente, li aveva anche criticati
per fingere un inesistente dissenso, ma s’era guardata bene dal farsi
coinvolgere nello scontro. Di fatto, senza darlo a vedere, aveva sostenuto così
ogni scelta ministeriale, anche la più scellerata.
Quando aveva sentito il vento cambiare, aveva preso a
sfogare la frustrazione accumulata negli anni in cui era stata costretta a
nascondere la sua vera natura e s’era messa a infierire sui più deboli,
esercitando una tirannia tanto più rabbiosa in basso, sul popolo dei supplenti
e sul personale non docente, quanto più era stata mortificata da chi in alto
contava.
Pur sembrando del tutto priva delle necessarie
qualità, il suo capolavoro, in quegli anni bui, l’aveva realizzato su un
terreno per così dire “diplomatico”. Volpina, lucida e se necessario servile,
aveva coltivato con umile e instancabile tenacia ogni utile amicizia; era stata
indifferentemente bianca, rossa o nera, come le suggerivano calcoli,
opportunità, occasioni, interlocutori e bisogni. Non c’erano uffici, funzionari
e politicanti, che non le avevano aperto la porta e non si erano convinti della
sua indiscutibile affidabilità. Da lei, chi chiedeva aveva. E in cambio di
nulla.
Naturalmente l’aspetto esteriore di preside
disponibile, accomodante, pratica, efficiente e – ciò che più conta – fedele e
riservata, era una costruzione artificiosa. Ben altro era la donna nel profondo
dell’animo buio, in cui nutriva un disprezzo bieco, viscerale e implacabile per
“i feroci giacobini”, i “matti sognatori” e i “capi
imbelli che lasciavano il campo agli uni e agli altri”.
Com’era noto solo a una ristretta cerchia di “amici fidati”, “giacobini” e “sognatori” per la Delino
erano, senza distinzione di colore politico, coloro che avevano a cuore la
coerenza ideale e l’interesse collettivo. Soffocato l’odio, tuttavia, se un “giacobino” le tornava utile, provava a conquistarlo con
gli aperti segnali d’ammirazione, i lampi sapienti di consenso degli occhi
cinerini e i civettuoli ondeggiamenti della chioma riccioluta, troppo
voluminosa per il suo tronco corto, per i fianchi grossi e le gambe tozze.
Enzina Delino era brutta davvero, ma quando un potente aveva voluto provare il
gusto dell’orrore, non aveva fatto storie.
Ricca di famiglia, non aveva voluto negarsi i piaceri
della carne e aveva acquistato un marito, come si compra qualcosa al mercato,
scegliendolo di suo gusto tra la genìa dei servi calcolatori in vendita per
quattrini. Sesso e basta, nessun fremito d’amore; l’istintiva repulsione per
una passione che sfiorasse l’anima, l’avrebbe resa certamente frigida, sicché
nulla le era mancato nella vita, meno di quei sentimenti che, con autentico
disprezzo, definiva “amori sentimentali e fantasticherie da romanzi
d’appendice”.
Quando la crisi della “prima repubblica”
aveva rimescolato le carte al tavolo del potere, non si era fatta sfuggire
l’occasione: s’era lanciata al volo sul carro dei nuovi padroni e questi
l’avevano ripagata. Entrata a pieno titolo nel sottobosco fangoso del potere
che si rinnovava, libera infine di essere così com’era, la Delino aveva conosciuto
l’impagabile soddisfazione della vendetta: sotto gli indecenti tacchi a spillo
delle sue scarpe di pelle leopardata, erano stati schiacciati in maniera feroce
tutti quelli che, non avendo colto il profondo cambiamento, s’erano messi di
traverso sulla sua strada. Mortificare “i feroci giacobini” e “i folli
sognatori”, ai quali s’era dovuta inchinare ai tempi del trionfo
della scuola di massa, era diventato uno degli obiettivi programmatici della
sua vita di dirigente.
Certo, il potere che aveva acquistato era piccolo,
poco più che il pallido riflesso d’un satellite lontano anni luce dalle stelle
vere e la malvagità che poteva esercitare aveva orizzonti ristretti, ma Enzina
era appagata; non aveva sperato di avere altro, se non il piacere della ritorsione.
Chi legge con chiarezza i segreti della “fortuna” – e lei era capace di farlo – sa che quando
l’ambizione ha senso della misura e tiene in giusto conto il rapporto reale tra
qualità personali e valore quantitativo dell’investimento, il rendimento è molto
produttivo e il successo non solo ripaga le attese, ma promette di allargare
l’orizzonte. Enzina Delino valeva poco o niente, ma lo sapeva bene e questa
consapevolezza era stata spesso decisiva al momento delle scelte cruciali.
Se, per tornare alla riunione dell’“organo di democrazia di base”, qualcuno quella sera
s’era messo in testa di decidere ciò credeva giusto, bene, avrebbe dovuto
vedersela con la rabbia feroce della Delino, che, per suo conto, non aveva
dubbi: era giunto il momento di mettere in chiaro una volta e per sempre cosa
volesse dire “gerarchia”.
E’ legge di natura: il silenzio pauroso dei deboli
diventa schiamazzo prepotente, se a sostenerlo ci sono le armi di un alleato
forte. Lucia Viso – una vita di sconfitte nella “maggioranza silenziosa”
– nemica giurata dei “decreti delegati” e di ogni
espressione di democrazia nella gestione del sistema formativo, aveva sentito
subito che quella sarebbe stata finalmente la sua giornata. Sconfiggere
l’antico avversario in quella maledetta scuola di periferia sarebbe stato come
girare la boa e sentire la campana dell’ultimo giro con largo anticipo sui
concorrenti. Per Viso era chiaro: si era giunti alla fine di una egemonia
culturale che per anni l’aveva umiliata. Basta richiami alla condizione sociale,
basta obiettivi minimi ridotti praticamente al nulla, basta pedagogismi,
buonismi e pietismi. Basta tutto. Basta soprattutto logoranti duelli con
teppisti, scansafatiche e scostumati eternamente protetti dalla sinistra. Stavolta seppe urlare. Era la prima volta che
lo faceva e ne provò un godimento fisico:
– Quell’impunito di Riverso va
fermato e non m’importa nulla delle
chiacchiere sulla sua situazione di partenza, sulla famiglia che c’è e non c’è.
Non m’importa nemmeno se ha mantenuto l’impegno di migliorare nel secondo
quadrimestre. E non venite a dirmi che in terra di camorra…
In un silenzio opprimente anche un alito di vento fa
sobbalzare e quelle poche parole scatenarono la bufera:
– Noi non abbiamo puntato
sull’autorità. La scommessa nostra è quella dell’autorevolezza.
Era stato Mario Tecce, il
professore d’italiano, a replicare. La discussione era nata proprio dalla sua
strenua difesa di Riverso ed era impensabile che stesse zitto; per chi lo
conosceva, tuttavia, il tono della voce rivelò una stanchezza mortale e una
lontananza improvvisa e innaturale. I capelli bianchi un po’ disordinati, gli
occhi profondi e azzurri diventati una lama dietro le lenti dalla montatura
dorata, il viso affilato, benché quadrato, le labbra nervose e serrate, tutto
rivelavano che qualcosa in lui non andava.
Scacco, che lo conosceva bene, lo guardò con angoscia
e sentì che nel petto gli bruciavano con la stessa intensità una passione non
ancora disposta a piegarsi e una fatica così dolorosa, da impedirgli di reggere
la prova. Capì e un tremendo senso di colpa sembrò schiacciarla. Nello scontro
durato tutto intero un anno tra il suo vecchio collega, compagno di tante
battaglie e la diabolica Delino, l’aveva lasciato troppo solo e la solitudine
aveva fatto bene il suo lavoro. Se un mezzo di contrasto avesse consentito una
radiografia dell’anima, il filo che di norma tiene insieme la vita e la volontà
di vivere sarebbe apparso irrimediabilmente vicino alla rottura.
Anche Viso percepì che il suo storico avversario era prossimo
alla resa e lo incalzò. Nella vittoria, nessuno è più feroce di un debole di
fronte al forte ch’è caduto.
– Tu e quelli come te ci avete
imposto per anni l’idea deformata d’una scuola perennemente “sessantottina” in
cui, oltre ogni lecita misura, pesavano più di tutto il rapporto tra risultati
e contesto. Tu, come un invasato giacobino che parla in nome del popolo che in
realtà non ama, hai posto in prima linea la disponibilità al dialogo, una
presenza diventata assidua e in qualche modo attiva…
– Che io sappia, però, non c’è
traccia di un tuo dissenso, replicò Tecce con flebile ironia, ma non
poté proseguire. Delino anticipò Viso, ma era come cantassero in coro:
– Il mondo per fortuna cambia, ed
è tempo che cambiamo anche noi, ora che la riforma ce ne offre finalmente
l’occasione. Il punto centrale della discussione, prof. Tecce, non gira più
intorno alle sue chiacchiere. Il punto non è il “segnale fortissimo,
rappresentato da una presa di distanza dagli esponenti del sistema”, su cui lei
insiste da ore, o la sua certezza, mai però dimostrata dai fatti, che il suo
amato studente non “spaccia” più. Il punto è che quel diavolo di Riverso
continua ad accusarci apertamente di non capire nulla di lui e di quelli come
lui. Stiamo parlando di un delinquente, di uno che è venuto a sfidarmi: “’o
saccio, ve faccio schifo, però pure voi facite schifo a me!”. L’ha
detto, non s’è scusato e non ha mai modificato la sua posizione.
Ancora una volta Sacco fu tagliente:
– Mi pare che abbia detto la verità. E qui sappiamo
bene che certe cose non le dice a tutti noi. Se si sente accettato, queste cose
non le dice e vi ricordo che mesi fa tutti ci eravamo trovati d’accordo
sul fatto che una bocciatura avrebbe provocato un abbandono.
Di conserva, con quanta forza gli restava, il
professore d’italiano si rivolse direttamente a Viso:
– Per onor di firma: non gli
abbiamo dato quello di cui ha veramente bisogno. Né a lui, né a tanti come lui.
Sono scelte che passano sopra la nostra e la loro testa, questo lo so. Pagano
gli ultimi. Scelte politiche, se per politica s’intende fondi tagliati, accorpamenti,
classi pollaio e favori al privato. E lo dico io, prima che qualcuno me lo
ricordi: questa non è la sede per discutere di certe cose.
Delino replicò a muso duro:
– Non consento a nessuno, a lei
meno che a tutti, professore, di valutare il lavoro di questa scuola e dei suoi
colleghi. Meglio farebbe a badare a se stesso!
Luca Grosso, l’ex maresciallo dei carabinieri,
passato per l’Isef e acquisito Dio sa come nei ranghi della
scuola, intuì che era giunto infine il suo momento e non si fece pregare. Per
un anno s’era vantato di discutere coi giovani. Ora gettava la maschera e
sbottava:
– Questo Riverso è solo un
piccolo pendaglio da forca. Nient’altro. Un futuro avanzo di galera.
Incoraggiata dal carabiniere, la religiosissima Pia Vassallo trovò finalmente
modo di essere se stessa, senza nascondersi dietro il paravento d’una gesuitica
bontà e nella furia lasciò che la camicetta molto accollata sul seno prosperoso
si sbottonasse.
– Cazzo, finalmente qualcuno che
lo dice: è un gaglioffo indecente e senza Dio.
Imbarazzata dagli sguardi insistenti del carabiniere,
si abbottonò la camicetta tra isterici rossori, ma si sentì subito a suo agio
perché uno dopo l’altro giunsero il sostegno dalle colleghe di musica e arte,
che intervennero sulle “qualità artistiche”
dello “studente indiavolato”:
– E’ vero, nella recita di fine
anno ha dato un buon contributo per la scenografia e le musiche, ma solo il
padreterno sa quello che c’è voluto per tenerlo a bada!
In una speranza disperata, il professore d’italiano
tentò una difesa estrema:
– Se ritorniamo sulle promozioni
già approvate, non ci vorrà molto a verificare che tanti sono messi peggio di
Riverso…
Un errore imperdonabile. La speranza di salvarne uno
produsse infatti la rovina di altri. Prima delle verifiche, l’ex appuntato
chiese e ottenne che si adottassero preventivamente criteri di valutazione
nuovi:
– Sul giudizio finale peseranno parolacce, rispostacce e anche i comportamenti
provocatori di due o tre puttanelle che, lo sappiamo tutti, finiranno sul
marciapiede.
Nessuno eccepì, nemmeno Tecce, che sembrava ormai
assente. Fu così che, con Riverso, persero l’anno due ragazzi e due ragazze che
prima della verifica erano stati promossi. Tutti naturalmente con un definitivo
e liberatorio cinque in condotta.
A settembre il professore d’italiano non prese
servizio. Una commissione medica l’aveva assegnato ad altre mansioni per un
gravissimo esaurimento nervoso e s’era trincerato nella biblioteca d’una scuola
elementare. In quanto a Riverso, come sarebbe andata se non fosse stato
bocciato nessuno saprà mai. Di certo c’è che alla ripresa non s’era presentato.
Per tutta l’estate aveva scorrazzato sul motorino e s’era rimesso a fare il “pusher” per la camorra. A fine settembre, qualcuno
gli aveva “insegnato per sempre l’educazione” e una mattina, ai
primi di ottobre l’avevano trovato poco lontano dalla scuola. Un solo colpo,
tirato alla nuca. A bruciapelo.
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