L’omicidio-suicidio
di Castello di Godego, in provincia di Treviso, dove un padre ha ucciso il
figlio autistico di due anni e poi si è tolto la vita, ha colpito l’opinione
pubblica, ma lasciato indifferente la politica. Quando accadono queste tragedie
non ci si sofferma mai abbastanza a cercare di capire come prevenirle. Eppure
gli strumenti per accompagnare le famiglie in un percorso di accettazione ci
sarebbero, ma troppo spesso rimangono nascosti o si perdono nella burocrazia.
Ne parliamo con Andrea Antonelli, papà di Daniele, e con la dott.ssa Alessandra
Gasperini, psicologa e psicoterapeuta. “Quando si sfocia in queste
tragedie”, spiega Antonelli, “l’opinione pubblica parla di ‘papà provato dalle
difficoltà’. In realtà è provato dalla mancanza di sostegno“.
In
Italia 4,1 milioni di individui soffrono gravi limitazioni nella
vita quotidiana a causa di problemi di salute (dati Censis 2019).
Persone con disabilità, in una delle sue tante e singolari espressioni. Sono il
6,7% della popolazione, e troppo spesso le famiglie di questi individui vengono
abbandonate al loro destino, senza la possibilità di fare un percorso per
accettare la disabilità. Ho deciso di approfondire questa tematica dopo il
dramma di Godego, dove il 43enne Egidio Battaglia, papà di Massimiliano,
sfinito e provato dalla realtà ha deciso di compiere un gesto estremo – che non
riesco neanche ad immaginare mentre scrivo questo articolo –, quello di
togliere la vita al figlio e poi toglierla a sé stesso. L’ho fatto chiedendo
aiuto ad Alessandra Gasperini, psicologa e psicoterapeuta e
ad Andrea Antonelli, operatore educativo per l’autonomia (OEPA),
coach di basket e promotore del basket per ragazzi affetti da disabilità. Ma
soprattutto è papà di Daniele e da 24 anni vive la realtà
dell’autismo insieme a sua moglie Emanuela.
Conosco
personalmente Andrea da un po’ di tempo, e conosco e voglio molto bene a suo
figlio Daniele. A colpirmi è stato un suo post di sfogo su Facebook, dove
denunciava l’assenza di sostegno psicologico nei confronti delle
famiglie che apprendono di avere un figlio disabile.
“Quando si affronta una diagnosi di una malattia che prevede il coinvolgimento di tutto il sistema familiare – commenta la dottoressa Gasperini – è necessario che ci sia un intervento di supporto che non sia solamente verso il singolo, ma che chiami in causa tutti i membri dello stesso sistema di appartenenza. La diagnosi che coinvolge il singolo è una diagnosi che si estende e inevitabilmente coinvolge tutto il nucleo familiare. Deve essere pensato, in situazioni di questo tipo, un intervento che possa offrire delle risorse al soggetto affetto dal disturbo e ai suoi familiari. La situazione ideale sarebbe un supporto per il bambino, ma anche uno per i genitori e uno per l’interno nucleo familiare”.
Ho provato,
quindi, ad approfondire e raccontare come cambia la vita di un papà quando
apprende che il figlio ha un problema di disabilità, in questo caso legato
all’autismo. Ho provato a farmi raccontare tutti gli aspetti legati alla vita,
dall’accettazione alla reazione pratica. Cosa significa avere un figlio
autistico, come si ripensa e si riorganizza la vita, con un importante focus su
tutti quegli aspetti, assistenziali, sanitari ed economici, cui va incontro una
famiglia quando si vede costretta a riorganizzare il suo assetto.
“I fattori
che hanno una rilevanza determinante rispetto a questo tema sono molteplici”,
prosegue la dottoressa Gasperini. “Dalla tempestività e l’efficacia della
comunicazione della diagnosi, alla possibilità di offrire degli strumenti
facilmente utilizzabili. La tempestività della diagnosi del disturbo
dello spettro autistico dovrebbe avvenire entro i 36 mesi di vita del
bambino e avviene quando i genitori hanno già cominciato ad osservare una serie
di problematiche. L’iter che si segue è quello di fare degli accertamenti per
avere una diagnosi, questo provoca tantissimo stress ai genitori, che si
trovano ad affrontare una situazione di impotenza. È l’impotenza
che genera vissuti successivi. Si consideri che per avere una diagnosi
ufficiale ci vogliono all’incirca tre anni; il genitore passa da una
serie di osservazioni sul figlio che generano sentimenti di ansia,
preoccupazione e angoscia, a pensieri che generano il timore che si stia
perdendo tempo. Riuscire a diagnosticare il problema rapidamente solleva i
genitori da preoccupazioni che si radicano per anni. Quando si comunica a un
genitore la diagnosi di autismo, le reazioni in genere sono due: shock
o sollievo. Sollievo perché finalmente rispetto a un’osservazione di tante
cose che non vanno, uno specialista riesce a mettere ordine. L’accettazione
della diagnosi è più facile se chi la comunica lo fa comprendendo ed
empatizzando con i genitori”.
Ho iniziato
la mia conversazione con Andrea sulla base di questi concetti espressi dalla
dottoressa Gasperini.
Andrea, partiamo dal fatto di cronaca: a
Godego un padre ha ucciso il figlio disabile di due anni e si è tolto la vita.
Tu, molto attento e sensibile alla questione disabilità, sei intervenuto sui
social denunciando l’assenza delle istituzioni nei confronti delle famiglie con
disabili. Vuoi spiegarci il tuo pensiero?
Avendo un
figlio affetto da autismo, sono rimasto molto colpito da questa storia e la prima
reazione è stato scrivere un post di sfogo. La mia è rabbia, non
stupore. Daniele, mio figlio, ha 24 anni e io da 24 anni sento storie come
quella di Godego. Purtroppo ciclicamente si assiste ad una di
queste tragedie, non è un evento raro. Questo tipo di
eventi drammatici non riguardano solo i bambini, ma anche gli adulti
con genitori anziani. L’omicidio di ragazzi o adulti disabili è figlio di
un mancato sostegno psicologico per le famiglie che vengono
colpite da una diagnosi come quella dell’autismo. Nei primi anni di vita di un
bambino, se autistico, capita che una coppia di genitori decida di rivolgersi a
un neuropsichiatra per fare accertamenti e che, dopo visite approfondite,
questi comunichi che il bambino deve svolgere un percorso riabilitativo.
Ma nessuno
ti parla di una cosa importante: l’accettazione di questo problema,
che per le famiglie diventa rinunciare a un sogno che si era custodito durante
tutta la gravidanza e nei primi mesi di vita del bambino. È qui che si verifica
un primo grande ostacolo, ossia la mancanza di sostegno psicologico e
di una guida per aiutare i genitori a districarsi nella burocrazia,
per fare richieste di visite specialistiche, domande di invalidità e
soprattutto un percorso riabilitativo. Le ASL e i comuni non sono in grado di
garantire sufficiente assistenza. Quando si sfocia in queste tragedie,
l’opinione pubblica parla di “papà provato dalle difficoltà”, ma il papà è
stato soprattutto provato dalla mancanza di sostegno. Non siamo
tutti pronti davanti a una cosa del genere. Faccio spesso questo esempio:
quando ci sono catastrofi naturali viene inviata la protezione civile e
un’unità di psicologi sul luogo colpito per sostenere la popolazione in un
momento critico. Mi domando perché non è previsto un servizio di sostegno
psicologico alle famiglie appena ricevono questa diagnosi. Perché non esiste un
assistente sociale che guidi i genitori nel percorso? Ti lasciano in balia
delle onde, sei in mezzo a una tempesta e se non sai districarti,
inevitabilmente finisce in tragedia. Sul discorso dell’anzianità, ad esempio,
quando hai un figlio grande e devi fare i conti con l’età che avanza, chi ti
aiuta? Nessuno ti rassicura. Ciclicamente accadono queste tragedie, l’opinione
pubblica con una lavata di coscienza pone l’attenzione a questi aspetti, ma
nessuna istituzione ha mai realmente preso in considerazione il problema.
Interviene
la dott.ssa Gasperini. “È corretto richiedere supporto psicologico,
perché quando si immagina una gravidanza, si crea uno spazio dove entrambi i genitori
collocano delle fantasie relative al figlio ‘ideale’. Una comunicazione di
questo tipo, come racconta Andrea, genera nei genitori un sentimento
simile a quello del lutto, della perdita, perché quelle fantasie custodite
per mesi, non possono essere soddisfatte. Un essere umano, quando si prepara a
diventare genitore, comincia già a immaginare una serie di preoccupazioni
legate al figlio, che aumentano in modo esponenziale quando viene diagnosticato
il disturbo dello spettro autistico.”
Prima e dopo l’accettazione
Ci racconti una giornata tipo con tuo figlio
Daniele?
Fin qui ho
vissuto due “giornate tipo”: una pre-accettazione e una post-accettazione.
Quella pre-accettazione era tutta incentrata sul cercare di recuperare
il terreno perso e provare a favorire Daniele
nell’acquisizione delle funzioni di base, dall’autonomia nel mangiare
da solo a lavarsi i denti e vestirsi. Questi bambini non imparano per
imitazione come i normodotati, avendo un deficit grave dell’attenzione non
imparano per ripetizione. In alcuni casi non imparano proprio avendo difficoltà
di displasia motoria.
Durante la
prima fase della vita la giornata tipo era quella di svegliarsi, prepararlo per
la scuola, fargli fare colazione, lavarlo e vestirlo. Poi c’era il momento
della scuola, il pranzo e dopo pranzo si andava all’associazione di riferimento
per fare terapia. Percorrevamo chilometri su chilometri per fare terapia
psicologica o comportamentale, oltre alle visite mediche. Era tutto incentrato
sull’autismo. Le nostre uscite quotidiane erano rivolte a sostenere Daniele,
potrei definire quel periodo di vita come una vita autistica. Grosse
possibilità di socializzazione per noi non ce n’erano. Durante la scuola
materna e la scuola elementare il bambino non interagiva con i coetanei, quindi
non partecipavamo alle feste e avevamo difficoltà a socializzare. Mandato giù
questo boccone, abbiamo ripreso in mano la nostra vita. Io personalmente ho
ripreso ad allenare, prima i ragazzi disabili e poi anche i ragazzi
normodotati. Abbiamo sdoganato la disabilità di Daniele e
l’abbiamo condivisa con tutte le persone che abbiamo intorno, scoprendo un
mondo nuovo.
Daniele,
oggi, è accettato ovunque, non abbiamo quasi mai riscontrato problemi nel
portarlo in qualsiasi posto. È anche vero che noi siamo stati molto testardi; i
primi tempi Daniele non aveva piacere a frequentare posti, ma poi col tempo si
è adattato e arricchito, come si sono arricchite le persone che sono entrate in
contatto con lui. Persone che prima avevano timore dell’autismo e poi si sono
aperte. Anche su questo aspetto potremmo parlare di “un prima e un dopo”.
“A questo
proposito”, prosegue la psicoterapeuta, “oltre al supporto delle istituzioni –
quali sistema sanitario e scolastico – è fondamentale che la famiglia possa
contare anche sul supporto della propria rete sociale (amici e
familiari). In questo modo, ci si sente meno soli e soprattutto si sente di
poter contare su qualcuno e chiedere aiuto”.
Come è cambiata la tua vita da quando hai
scoperto la disabilità di Daniele?
La vita è
cambiata al 200%, non al 100%. Il sentore che ci fosse qualcosa che non andasse
lo avevamo. Abbiamo aspettato, ma quando c’è stata la diagnosi che ha
confermato i nostri dubbi, la nostra vita è completamente cambiata. Abbiamo
smesso di vivere una vita normale, era diventato impossibile anche andare a
fare la spesa, portarlo a comprare le scarpe o dal barbiere, andare al cinema
per vedere un film. Siamo stati male per parecchio tempo. Per
fortuna poi abbiamo trovato un’associazione che ci ha accompagnato per dieci
anni e ci ha insegnato ad interagire con Daniele. Siamo riusciti a trovare la
maniera per poter tornare a fare tutto. Abbiamo vissuto un periodo buio che è
durato almeno tre o quattro anni, periodo in cui alternavamo sempre la terapia
comportamentale e tutto ciò che concerneva la parte medica al percorso
psicologico di accettazione da parte della famiglia, aspetto che ci tengo a
sottolineare essere fondamentale. Dopo i primi anni di vita di Daniele, siamo
riusciti ad accettare il fatto di aver avuto un problema che si è rivelato in
seguito una crescita grandissima per tutti noi e abbiamo potuto
riappropriarci della nostra vita, in maniera diversa, ma più consapevole. Il
divertimento e quello che si può raccogliere frequentando dei posti per disabili,
ti consente di assaporarne di più il valore.
Sei molto attivo nelle scuole e nella pallacanestro.
Hai letteralmente stravolto la tua vita da quando è arrivato Daniele e oggi sei
a Roma uno dei promotori del basket per ragazzi affetti da
disabilità. Ci racconti questa tua doppia vita?
Sono nel
mondo del basket da quando ho memoria. Purtroppo anche la pallacanestro, quando
abbiamo scoperto il problema di Daniele, è finita in secondo piano. Un giorno
Emanuela mi ha fatto leggere un articolo che parlava di coach Marco
Calamai, allenatore che a Bologna praticava basket
con bambini autistici. Decisi di andare a Bologna per vedere con i miei
occhi cosa facesse Marco. Quindi mi feci coraggio e iniziai a replicare
il suo metodo a Roma. Le attività che fanno i bambini autistici a tavolino
prevedono delle ripetizioni di riconoscimento, di appaiamento e così via. Ho
immaginato che queste ripetizioni, facendole con la palla, potessero essere
utili per uno sviluppo migliore dell’attenzione e della concentrazione.
Unire divertimento e attività fisica è stata una novità che all’inizio mi ha
messo alla prova. Ma piano piano mi ha dato tantissime soddisfazioni, perché
sono riuscito a comprendere ancora meglio come funziona un soggetto autistico.
Ho capito che non è vero che non capiscono cosa gli accade intorno o
non comprendono ciò che gli viene detto. Lo decifrano semplicemente in
maniera diversa e non sono in grado di poter dare il giusto feedback
allo stimolo ricevuto. Ma se sono motivati e si accorgono che la persona che
hanno accanto crede in loro, raggiungono dei miglioramenti inaspettati. Anche
con il basket per autistici ho avuto grandissime soddisfazioni. Da quando ho
iniziato non l’ho mai abbandonato, pur modificandolo man mano che Daniele
cresceva. In questo momento, covid a parte, abbiamo un gruppo di uomini e donne
adulti con disabilità psichica e motoria. Anche quello fa parte dell’evoluzione
dell’accettazione, riuscire a trasformare qualcosa di negativo in qualcosa di
positivo.
Scuola e autismo
Rimanendo nell’ambito della formazione, i dati Istat
raccontano che nell’anno scolastico 2019-2020 è aumentato il numero di alunni
con disabilità che frequentano le scuole italiane (+13 mila, il 3,5% degli
iscritti). Sono quasi 300mila gli alunni con disabilità in Italia. In crescita
anche il numero di insegnanti per il sostegno, con un rapporto
alunno-insegnante migliore delle previsioni di legge, ma il 37% non ha una
formazione specifica. Che realtà si vive nelle scuole italiane, secondo la tua
esperienza?
A mio avviso
è una realtà positiva. Gli insegnanti di sostegno ci sono e sono validi, ma è
impossibile pensare di avere una preparazione specifica su ogni tipo di
disabilità. Una disabilità come l’autismo è difficile da trattare. Chi può
essere preparato ad una cosa del genere se non ha esperienza sul campo o
non ha studiato per risolvere questi problemi? Una cosa importante
che non può mancare tra gli insegnanti di sostegno e gli operatori OEPA è l’empatia, l’intelligenza
emotiva. Bisogna riuscire ad aprire una breccia e conquistarsi
la fiducia del bambino o del ragazzo, ancora più che sapere i
fondamenti del disturbo. Poi è necessario conoscere il tipo di lavoro da
svolgere, non utilizzare solo il metodo empirico ma fondarsi su un metodo
scientifico ed elaborato. La conditio sine qua non è
l’empatia, l’interesse e la vocazione per lavorare in questo campo. Nella
scuola gli strumenti ci sono già tutti, esistono il PEI (Progetto educativo
individualizzato) e il GLH (Gruppo di lavoro handicap) che collega tutte le
figure che interagiscono nella vita del bambino. Bisogna però farli funzionare
bene. Serve una sinergia tra la famiglia, la scuola e la struttura che
segue il bambino dal punto di vista riabilitativo. Se tutto questo
funziona, ogni cosa diventa più semplice. Le leggi, a mio avviso, ci sono.
Bisogna avere la volontà di farle funzionare. La scuola deve essere più pronta
ed accogliente per questi bambini, bisogna prevedere spazi comuni nei quali i
bambini imparino ad interagire con i loro compagni. La base c’è, il problema –
ribadisco – è far funzionare tutto quanto.
E poi c’è la figura dell’assistente educativo e
culturale (AEC) troppo poco conosciuta e spesso non sufficientemente
qualificata. A che punto è in Italia il processo di riconoscimento di questa
figura, che si occupa di sostenere e promuovere l’autonomia dell’alunno,
facilitarne il processo di integrazione e comunicazione in classe e rendergli
accessibili le attività scolastiche?
Io sono un
AEC, oggi definito OEPA (operatore educativo per l’autonomia). È stata sempre
una figura un po’ maltrattata all’interno della scuola. Non abbiamo mai avuto
un riconoscimento formale, soprattutto da parte degli insegnanti. Bisogna
sempre avere presente che è la maestra di sostegno quella che
elabora il PEI; o si ha la fortuna di collaborare con una maestra che ti rende
partecipe dei programmi che vuole attuare, o bisogna lavorare per conquistare
la fiducia di questa persona e poi lavorare a quattro mani. È una cosa
complicata, ma se si mettono passione, entusiasmo e competenza nelle cose (e
queste vengono riconosciute) il rapporto solitamente è molto fattivo e
collaborativo. Io mi ritengo molto soddisfatto del mio lavoro. Vado volentieri
a scuola e mi godo i progressi dei ragazzi che mi sono stati affidati.
I dati Istat nel biennio 2019-2020 raccontano anche di
una scarsa presenza di assistenti all’autonomia e alla comunicazione nel
Mezzogiorno, dove il rapporto alunno/assistente è di 1 a 5,5; oltre 1 a 11 in
Campania e in Molise. Il Ministero dell’Istruzione come dovrebbe intervenire
per garantire maggiore assistenza ai disabili nelle scuole di provincia?
Come ti ho
detto, per la scuola le leggi esistono. Bisogna farle funzionare. Io credo che
le leggi riguardo l’assistenza siano ottime. Il problema è destinare bene i
fondi, non tagliare sul sociale. La cosa che mi indigna di più è questa
mentalità secondo cui per recuperare soldi bisogna sempre tagliare sul sociale. Tante
volte ho sentito dire che il sociale è un settore in perdita perché non c’è
possibilità di auto finanziamenti. Penso che si sappia che i fondi nel sociale
sono a fondo perduto, ma vanno destinati bene e tutelati. Mi domando, chi è
genitore di un ragazzo autistico in provincia, al sud, che fa? Anche lì
bisognerebbe iniziare a pensare a come impiegare bene questi fondi.
Assistenza sanitaria e previdenza
Parlando di disabilità e assistenzialismo sanitario,
mi ha colpito molto un tuo post in cui denunciavi l’impossibilità di far fare
una panoramica delle arcate dentarie a Daniele, se non a pagamento.
Tocchi un tasto
dolente. A prescindere dall’avere un servizio di neuropsichiatria infantile in
cui manca totalmente l’assistenza psicologica alle famiglie, addirittura non
c’è la possibilità di far seguire pubblicamente e con poche spese i propri
figli! Bisogna ricorrere al privato perché il Servizio
Sanitario Nazionale dal punto di vista riabilitativo è imbarazzante. Non fosse
sufficiente, al compimento della maggiore età i nostri figli non possono più
rivolgersi al servizio territoriale di base – quello della neuropsichiatria
infantile per intenderci – perché non sono più bambini. Non hanno più punto
certo dove poter richiedere esami e fare visite di controllo. Questo è un
problema molto grave. Un banale raffreddore che si tramuta in una
bronchite, in un ospedale non sanno come gestirlo perché non sanno come gestire
tuo figlio. Non esistono strutture ricettive dove puoi chiedere
l’assistenza di uno specialista. Bisogna sempre rivivere questo peso di essere
guardato come un alieno. Se devi curare occhi, orecchie e denti, entriamo in un
discorso spinoso perché bisogna applicare una sedazione: è
impossibile convincere un ragazzo autistico a farsi visitare. Diventi una palla
da ping-pong perché nessuno ti accoglie e nessuno sembra in grado di poterti
aiutare. Mi arrabbio perché poi mi viene risposto che ‘è una cosa rara’ e non
sanno come gestirla. Vieni abbandonato a te stesso se non sai
importi. Devi essere pronto a fare rumore; spesso mi sono trovato in situazioni
in cui hanno dovuto chiamare i vigili urbani per farmi desistere.
I dati INAIL raccontano che i disabili titolari di una
rendita sono 565.924. Ci aiuti a capire criteri e modalità per ricevere un
sussidio economico in favore dei disabili?
A causa
di lungaggini, burocrazia e illeciti che vengono commessi per cercare
di non aiutare le famiglie e tenere nascosti i diritti dei ragazzi disabili ad
accedere ai rimborsi per le terapie sostenute, è difficile e diventa quasi
un lavoro. Bisogna quasi studiare per riuscire a districarsi in questo
ginepraio. A casa mia se ne occupa mia moglie e se non fosse per lei non
avremmo nulla. Ma lei passa tante ore al pc, si aggiorna, si informa e studia
per ottenere ciò che spetta a Daniele di diritto. L’iter burocratico è
tremendo, ti sfinisce. Vengono richiesti certificati e documentazione
infinita. In ogni comune o circoscrizione dovrebbe esserci uno sportello
d’ascolto con una persona specializzata che aiuti queste famiglie già provate e
sfiduciate a causa degli iter burocratici. Ci sono liste di attesa di famiglie
lunghissime per ottenere solo l’aggravamento della posizione dei bambini. Famiglie
che spendono un sacco di soldi per far seguire privatamente i bambini. Ci
sono cose che non si spiegano: perché, mi domando, bisogna risparmiare
sulla pelle dei bambini disabili e non sugli stipendi dei deputati?
L’assistenza domiciliare funziona? Qual è l’iter da
seguire per attivare servizi di questo tipo? Riscontri criticità?
L’assistenza
domiciliare è una conseguenza del riconoscimento dell’invalidità
civile e della legge 104, art. 3 comm. 3. Deve esserti riconosciuta
come diritto da parte del neuropsichiatra, poi bisogna andare al comune di
appartenenza, parlare con l’assistente sociale e sperare che ci siano ore
disponibili, che sono sempre troppe poche. Arriva un assistente in casa che
cerca di entrare in relazione con tuo figlio. La maggior parte delle volte
l’esito è positivo, ma questo non è un percorso riabilitativo. Con l’assistente
sociale i ragazzi fanno passeggiate, giochi, ma l’assistenza domiciliare è
piena di criticità. È sempre difficile ottenerla, perché le domande sono tante
e il personale scarseggia. Ogni anno il bilancio dei comuni viene tagliato e
quindi aumentano i restringimenti. Ci sono tante criticità, servono spalle
larghe e perseveranza per ottenere diritti. Non è semplice neanche fare domanda
di disabilità, ci sono tanti cavilli che possono cambiare la
possibilità di avere il diritto ad ottenere qualcosa. È molto complicato.
Su questo
punto ho chiesto un parere alla dottoressa Gasperini. “Credo”, chiosa Gasperini, “che
l’assistenza domiciliare, esattamente come racconta Andrea, ha un aspetto che
offre una prospettiva differente. Oltre ad offrire un aiuto diretto al bambino,
l’assistenza domiciliare offre anche un’assistenza alla famiglia, perché
consente ai genitori di crearsi uno spazio di libertà dalla
quotidianità. È importante investire sulla presenza e formazione
dell’assistente domiciliare, che deve essere una figura altamente qualificata.
Consentire ai genitori di avere tempo per sé stessi, è fonte di benessere per
l’intera famiglia”.
Il governo Draghi ha istituito il Ministero per le
Disabilità. Ti aspetti un cambiamento d’impatto nei prossimi mesi?
Ti dico la
verità: io rimango vigile, alla finestra. Al momento voglio dare un 3% di
parere favorevole al fatto che si riuscirà a fare qualcosa con questo
Ministero, ma per il 97% penso che sia fumo negli occhi. È come al solito propaganda,
qualcosa da sbandierare. Di fattivo non c’è nulla, il nulla più totale. Sono
convinto di questo. Ne parlano perché c’è un esercito di voti da prendere
cavalcando quest’onda, ma sono tutte promesse al vento che temo non verranno
soddisfatte.
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