mercoledì 14 aprile 2021

Non parlate di periferie. Ma venite a parlare con i trecento di piazza Selinunte – Oreste Pivetta

Quelli di piazza Selinunte. Forse anche fuori Milano è giunta l’eco di quanto è avvenuto in piazza Selinunte. Ne hanno scritto i giornali. Trecento ragazzi, per lo più figli di immigrati, si sono radunati (via social o semplicemente con il vecchio passaparola), nel pomeriggio di sabato, in piazza Selinunte, piazza della semiferia milanese, vicino allo stadio Meazza, cioè zona San Siro, per partecipare alla ripreso di un video, protagonista uno di loro, un rapper ventenne, nato in Marocco, cresciuto a poche centinaia di metri da lì, Amine Ezzaroui, in arte Neima Ezza. I ragazzi in tuta da ginnastica e borsello a tracolla (questa mi dicono essere la divisa) si sono messi a ballare. Esagerando, si sono messi a ballare sui cofani e sui tetti delle macchine parcheggiate. Avvertita, la polizia è intervenuta. Lancio di oggetti, sassi, sedie rotte. Insulti all’indirizzo degli “sbirri”. Assembramento, più che un assembramento un mucchio selvaggio. Norme anticovid al diavolo. Un po’ di tutto, riferiscono. La polizia ha sparato un lacrimogeno. I trecento si sono dispersi.

 

Piazza Selinunte come il muro di Trump

Piazza Selinunte è il muro di Trump: salendo verso l’esterno della città a destra è cresciuto nel dopoguerra il quartiere che fu dei ricchi e dei super ricchi (uno spettacolo la villa dell’Ernesto Pellegrini, il re delle mense, ex presidente dell’Inter, o quella progettata da Giò Ponti o le case a cilindro di Mangiarotti), a sinistra, oltre il confine fissato dalla linea tramviaria protetta da alberi e transenne, i quartieri popolari, edificati in epoca fascista a ridosso dell’ingresso in guerra secondo un progetto (pure di illustri architetti razionalisti) di comunità solidale, progetto divorato dalla speculazione che ha consumato metrature, spazi di servizio, come giardini, biblioteche, asili.

Gli edifici, parallelepipedi di rigorosa geometria, costruiti con materiali scadenti (per pagare le tangenti ai gerarchi in camicia nera), accolsero prima immigrati dalle aree povere del nord, poi immigrati dal meridione, infine immigrati soprattutto dai paesi del Nord Africa (il mercato di via Paravia è ormai un suk coloratissimo percorso da matrone coperte e rivestite dalla testa ai piedi): una popolazione operaia rimpiazzata attraverso le varie fasi della deindustrializzazione da una folla eterogenea (gente di un’ottantina di paesi), costretta ad “arrangiarsi”. Quasi dirimpetto rispetto a piazza Selinunte si fronteggiano le scuole: ancora a destra il ricco liceo francese, il nobilissimo Licée Stendhal, a sinistra la scuola araba. Sempre a sinistra altre scuole pubbliche italiane, per lo più disertate dai figli degli italiani.

Neima Ezza e i trecento

trecento di piazza Selinunte e Neima Ezza sono cresciuti ovviamente “a sinistra”, in quei casermoni attaccati uno all’altro, casermoni che si oscurano in vie strette (anche Pino Pinelli abitava lì, in via Preneste, ma erano altri tempi), con gli intonaci dell’esterno che si sbrecciano e mostrano i mattoni, in una condizione che Neima, in un bellissimo reportage che si intitola “Perif” (da vedere su youtube), racconta più o meno così: abitavamo in cinque in quaranta metri quadri, al quinto piano, una cucina e una camera da letto, mio padre, mia madre, due sorelle ed io, non c’era spazio per muoversi, non si poteva rientrare tardi la sera perché si sarebbero svegliati tutti e mio padre doveva alzarsi presto, faceva un lavoro duro, una mia sorellina s’era ammalata di una malattia che le ha tolto l’uso delle gambe e mia madre, se io ero a scuola, per uscire e rientrare doveva sempre portarsela in braccio lungo tutte quelle scale, tante volte per stare tranquillo dovevo sedermi sul pianerottolo.

 

Il video di Neima

In quel video, Neima ci presenta i suoi amici: la signora abbandonata che cresce tre figlie, la famiglia occupante che cerca un’altra casa da occupare, il diciottenne che è già passato per il carcere minorile e per San Vittore, probabilmente per qualche furto o per lo spaccio… E’ uno dei quartieri dello spaccio. La droga passa dalle cantine ai marciapiedi o dalle finestre del piano rialzato. Scampia non è (o non era) patrimonio solo di Napoli. Ci sarei cascato anch’io in quel giro, dice Neima, poi ho visto che fine hanno fatto i miei amici e mi sono tirato indietro. Abbandonati: o ti consegni alla delinquenza o ne esci per tua volontà. Il video inquadra i ragazzini che giocano a pallone in uno spiazzo di cemento.

Neima commenta: per noi tutto era più difficile, per loro è più facile. In mezzo ci passa una storia: nuova immigrazione, tentativi di integrazione, consolidamento dei nuclei familiari, un po’ di scuola… un po’ di benessere in più.
Neima non abita più lì. Vive adesso a Baggio, poco più a nord ovest, poco più periferia: ma non tradirei mai il mio quartiere, perché quel quartiere che può diventare impenetrabile, estraneo al resto della città, può anche significare appartenenza e identità, autodifesa e solidarietà tra chi sta ai margini, soprattutto quando una crisi economica infierisce come sempre su chi già sta peggio.
Neima forse ce l’ha fatta: a sentirlo colpisce per l’intelligenza e la sensibilità. I trecento di piazza Selinunte chissà: forse per loro, come sostiene il rapper, sarà più facile.

 

I timori dei più ricchi

I cittadini delle case di destra (i più ricchi) e quelli delle case più avanti (abbastanza ricchi) si allarmano: come sarà in futuro, temono le rivolte parigine, a destra e a sinistra (categorie della politica, per quanto si possa parlare ancora di politica) denunciano violenze, aggressioni, atti di vandalismo, auspicano qualche intervento di polizia in più (contro il commercio della droga ci vorrebbe davvero), dimenticando di fronte alla realtà di un piccola criminalità diffusa l’altra realtà di gente perbene, quindicimila residenti, lavoratori, muratori, bottegai, casalinghe, uomini e donne delle pulizie, ragazzi irrequieti, come tanti altri che amerebbero una vita da calciatore oppure, adesso, da rapper di successo, alla Mamoud.
A ottobre si voterà anche a Milano per le amministrative e nei discorsi dei candidati trionferà una parola: periferie. Il bilancio che può presentare l’amministrazione in carica del sindaco Sala può essere positivo: basterebbe una visita al Lorenteggio o dalle parti del bosco di Rogoredo, mercato della droga celebratissimo in tv, lungo il percorso della nuova linea della metropolitana. Ma il deficit della politica, oltre la buona volontà di qualche assessore, resta enorme.

Quando mai la politica ha cercato di presentarsi o almeno di affacciarsi in questi quartieri? Quando mai quelli di piazza Selinunte hanno cercato la “nostra” politica? Una volta accadeva, all’epoca dei contadini inurbati per dare braccia alla nuova industria. Dentro quelle case, al piano terra, si aprivano le sezioni del Pci. Sui muri perimetrali,accanto ai portoni, resistono le lapidi che ricordano partigiani ventenni, assassinati dai nazifascisti o deportati. Adesso il centrosinistra vince in centro, non più da queste parti.

 

Non chiamatela periferia

La sociologia può descrivere e spiegare molto. Mi pare però che in questo “disagio” (è un eufemismo che ricorre) vi sia anche una parte strettamente materiale, come ricordava nel video Neima Ezza: quaranta metri quadri, cinque piani senza ascensore, quando l’ascensore esiste spesso è rotto, muri sgretolati, umidità, accumuli di rottami, mettiamoci anche affitti mai pagati e occupazioni governate dalle mafie.

Degrado chiama degrado: gestione fallimentare da parte dell’azienda regionale per l’edilizia residenziale. Fosse per me, demolirei tutto: non si può aggiustare ciò che è nato male, povero, scientemente destinato alla rovina, ciò che è nato in miseria non si rialza dalla miseria, se si tratta non di anime, ma di mattoni e di cemento di infima qualità, per giunta per alloggi in totale contrasto con le minime esigenze vitali d’oggi…

Le città si possono rifare e anche le periferie, cominciando a cancellare la parola periferia e il comodo rassicurante uso di inventare nelle periferie le periferie su misura dei più poveri, degli ultimi arrivati, nuovi ghetti. Poi verranno scuole, lavoro, cultura, diritti, anche lo ius soli (come si fa a negarlo a quei trecento). Forse è solo un’illusione, ma un partito di sinistra dovrebbe provarci, prima di rassegnarsi all’idea che quei ragazzi appartengano definitivamente a un “mondo a parte”, prima di arrendersi alla ferocia classista di questo mondo.

da qui


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