Uno dei primi articoli che ho scritto dopo il mio arrivo in Belgio, nel 2009, nasceva dall’incontro con una donna eccezionale quanto il suo nome: Olinda Slongo. Prima di incontrarla avevo scoperto, visitando una mostra sull’immigrazione, il suo libro di memorie Et elle a voulu sa part, cette roche obscure (Éditions du Cérisier 1999). Nel 1947, incinta di otto mesi, Olinda aveva raggiunto in Belgio il marito Eugenio, partito per lavorare in miniera (un migrante economico, diremmo oggi). Eugenio si era ammalato poco dopo di tubercolosi e silicosi, e Olinda, con il suo lavoro nella fabbrica di armi Fn Herstal, era diventata l’unico sostegno della famiglia, permettendo ai due figli di continuare a studiare.
Quando andavo a trovarla a Herstal, in provincia di Liegi, nella casetta
operaia dove abitava dal 1956, Olinda mi parlava in un italiano d’altri tempi,
inframmezzato di parole francesi e modulato dalla sua cadenza settentrionale
(lei e il marito erano originari di Anzaven e Montebello, due frazioni di
Cesiomaggiore, nelle Prealpi bellunesi).
Olinda era una donna robusta e sorridente. Aveva una voce roca e pacata, il
gusto del racconto e della compagnia, e una forza di volontà granitica che
traspariva ancora, nonostante gli anni. Aveva deciso di scrivere le sue memorie
in francese per i tre nipoti, che erano belgi e non parlavano italiano. È morta
nel 2013, e uno dei miei grandi rimpianti è aver perso, in una di quelle
operazioni informatiche di cui mi sfugge il pieno controllo, le registrazioni
delle nostre lunghe chiacchierate.
Cittadini di seconda categoria
Olinda mi è tornata in mente ora che in Italia si ricomincia a discutere
di riforma della cittadinanza. Ogni volta che se ne parla (ovvero,
secondo Lucia Ghebreghiorges, ogni volta che a un politico fa comodo
tirare fuori “una carta d’identità in cui c’è scritto progressisti”), penso a
quanto in Belgio la storia della riforma della cittadinanza sia indissociabile
da quella dell’immigrazione italiana, indissociabile dalla vita di Olinda,
della sua famiglia e di innumerevoli famiglie coma la sua. Qui, fino a pochi
decenni fa, gli italiani erano considerati cittadini di seconda categoria, ed è
proprio per aprirsi a quei giovani figli e nipoti di immigrati (definiti in
un servizio televisivo del 1985 dei “mutanti” – non più italiani,
non ancora belgi) che negli anni ottanta si decise di semplificare le procedure
per l’acquisizione della cittadinanza.
Un primo esperimento il Belgio lo aveva fatto già all’inizio del novecento,
inserendo nel suo ordinamento giuridico lo ius soli temperato
accanto allo ius sanguinis. La legge, approvata
nel 1909, concedeva automaticamente la nazionalità belga, al compimento dei
ventidue anni, alle persone nate in Belgio da almeno un genitore nato a sua
volta in Belgio o residente nel paese da almeno dieci anni. La riforma non sopravvisse
alla prima guerra mondiale e al suo strascico di xenofobia e nazionalismo. Nel
1922 il parlamento mise fine a un sistema giudicato troppo liberale, ribadì la
centralità dello ius sanguinis e introdusse il
concetto di “idoneità” come condizione necessaria per ottenere la cittadinanza:
“Affinché lo straniero diventi belga, deve aver dato prova di assimilazione
alla nostra vita nazionale, di attaccamento al Belgio, ai suoi costumi e alle
sue istituzioni” (concetto tornato alla moda in tempi più recenti, e non solo
in Belgio).
L’emigrazione verso il Belgio degli italiani in cerca di lavoro cominciò
alla fine all’ottocento, aumentò tra le due guerre mondiali ed esplose nel
secondo dopoguerra, continuando anche dopo la catastrofe del 1956 nella miniera
di Marcinelle, in cui persero la vita 136 minatori italiani. Poi, negli anni
settanta, ci si rese conto di due cose. “Innanzitutto”, spiega Andrea Rea,
docente di sociologia all’Université libre de Bruxelles, “che gli immigrati non
sarebbero tornati nei loro paesi di origine ma sarebbero rimasti in Belgio con
le loro famiglie. E in secondo luogo che c’era un problema di integrazione”.
Una prima proposta di riforma della legge sulla cittadinanza fu presentata
nel 1971, ma ci vollero tredici anni prima che il nuovo Codice della
nazionalità venisse approvato, portando due grandi novità. La prima riguardava
lo ius sanguinis, che fino ad allora si applicava solo ai
figli di padri belgi (retaggio patriarcale che ancora resiste in venticinque stati del mondo). Con la riforma del 1984,
in Belgio anche le madri poterono trasmettere la cittadinanza attraverso
lo ius sanguinis. Fu poi adottato il cosiddetto
doppio ius soli: diventavano belgi i figli di genitori
stranieri se almeno uno dei due genitori era nato in Belgio e se i genitori
presentavano una dichiarazione. Grazie a queste due novità, nella notte tra il
31 dicembre 1984 e il 1 gennaio 1985 circa 75mila persone diventarono belghe
(il 10 per cento della popolazione straniera dell’epoca). Molte di loro erano
giovani figli o nipoti di immigrati italiani.
Frenare e promuovere
“Il Codice della nazionalità era il versante positivo di un pacchetto di
riforme sull’immigrazione promosso da un governo formato da liberali e
socialdemocratici”, spiega Rea. “L’idea era: freniamo la nuova immigrazione ma
promuoviamo l’integrazione degli immigrati ormai stabiliti in Belgio. La
riforma passò senza troppe resistenze perché fu accompagnata da altre due
novità che invece limitavano i flussi migratori. La prima fu l’avvio di una
politica di rimpatri per incoraggiare le persone a tornare nei loro paesi di
origine. Non fu molto efficace, dato che solo 250 persone accettarono di partire.
La seconda misura era che in alcune circoscrizioni con una forte presenza di
immigrati diventò possibile rifiutare l’iscrizione di un cittadino straniero”.
Il Codice della nazionalità, inoltre, non prevedeva nessuna apertura verso le
cosiddette seconde generazioni. Il Belgio aveva fatto dei passi avanti, ma non
erano sufficienti.
Nel maggio del 1991 scoppiarono “les émeutes de Forest”: i giovani di questo
quartiere popolare di Bruxelles si rivoltarono dopo un ennesimo controllo di
polizia finito male. “Erano stufi del razzismo, delle discriminazioni e dei
discorsi vuoti sull’integrazione”, afferma Rea, “anche perché i giovani di
origine marocchina e turca, figli di un’immigrazione più recente, non avevano
beneficiato della riforma del 1984”. Nel 1991 venne quindi approvata una nuova
legge, che oltre a rendere automatico il doppio ius soli (non
serviva più una dichiarazione dei genitori, la nazionalità era acquisita alla
nascita), introduceva lo ius soli temperato
anche per le seconde generazioni. “La riforma del 1991 cambiò profondamente le
circoscrizioni con una grande popolazione di origine straniera, che in alcuni
casi passò dal 57 per cento al 34 per cento”, osserva Rea.
Il Belgio ha portato avanti questo approccio inclusivo alla cittadinanza
approvando una legge, nel 2000, che semplificava le procedure per la
naturalizzazione. Da una decina d’anni, con l’affermarsi dei partiti
nazionalisti nelle Fiandre e della lotta al terrorismo, il vento è cambiato.
Oggi è più difficile accedere alla naturalizzazione e più facile essere privati
della cittadinanza belga se si infrange la legge. C’è anche qualche nostalgico
che sogna un ritorno allo ius sanguinis esclusivo.
Riguardo allo ius soli, come sottolinea Rea “è
una condizione necessaria ma non sufficiente per l’integrazione”. Anche se in
Belgio i giovani con una storia familiare di immigrazione non devono più
lottare per una riforma della cittadinanza, continuano a battersi contro
le discriminazioni e il razzismo strutturali, contro i controlli violenti da parte della polizia, contro
un sistema scolastico che produce disuguaglianza più che in molti
altri paesi europei.
L’Italia di oggi ricorda il Belgio di cinquant’anni fa. È un paese dove i
figli di immigrati ormai hanno figli, e le vite di entrambe le categorie, come
ha scritto il movimento Italiani senza cittadinanza nel suo appello al governo Draghi, “restano impantanate per legge”. E la legge,
impantanata nel passato, deve cambiare.
https://www.internazionale.it/opinione/francesca-spinelli/2021/04/08/lezione-belgio-ius-soli
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