La pandemia ci sommerge con uno stillicidio quotidiano di morti. Ma della morte al singolare nessuno parla. Perché questo silenzio da parte della nostra società?
È incredibile la differenza che può fare il singolare
rispetto al plurale. Prendete il sostantivo “morte”. Al plurale la pandemia ci
sommerge con uno stillicidio quotidiano di “morti” in tutti e cinque i
continenti, ora dopo ora, telegiornale dopo sito internet. Le “morti” ci sono
riproposte da filmati martellanti, tombe di massa a Manaus (Brasile), convogli
lugubri dell’esercito a Bergamo (Italia), camion frigoriferi abbandonati nelle
vie di New York City (Usa). Ma “la morte” al singolare è avvolta dal silenzio,
è oscurata. Nessuno ne parla, nessuno la pensa. Su questo tema sono
straordinariamente ritrosi, quasi pudichi i vociferanti spacciatori di pensiero
da asporto che sugli altri argomenti sfornano ogni cinque minuti
conseguenze epocali (e saggi ponderosi).
Nessuno
riflette a come (a se) la pandemia ha alterato il rapporto della nostra società
con la morte. Tanto per cominciare, nessuno interroga il silenzio su di essa.
Ci comportiamo come se fosse scortese nominarla: un proverbio italiano ingiunge
di “non parlare di corda in casa dell’impiccato”, impone di evitare ogni
accenno a qualunque cosa ricordi una disgrazia a chi l’ha appena subita: come
se la morte fosse un argomento scabroso, da evitare in buona società (e su
questo torneremo tra un attimo). C’è una ragione meno confessabile, anch’essa
descritta da un termine italiano che non ha corrispondenza altrove. Questo
termine è “scaramanzia”, che i dizionari traducono nelle altre lingue come
“superstizione”, ma che è molto più specifico: è la credenza che il semplice
nominare un evento possa influire su di esso, possa favorirlo (se l’evento è
negativo, una disgrazia, un incidente, un decesso, un fallimento), o possa
ostacolarne la realizzazione (se l’evento è positivo: un successo, un amore,
l’esito di un esame). A un cacciatore non si augura perciò “buona caccia”,
perché questo potrebbe farlo tornare a carniere vuoto, ma gli si dice “in bocca
al lupo”, il contrario di quel che gli si auspica. L’idea insomma che a solo
nominare la morte, un po’ la si provochi. Quest’idea è più diffusa di quanto si
possa immaginare, anche fuori dall’Italia, e anche tra persone che dovrebbero
esserne immuni (sono state avviate parecchie ricerche sulle pratiche
superstizione delle persone colte e “razionali”).
Più in
profondità ancora, il silenzio rientra in un duplice processo di più lunga
durata: il primo riguarda i discorsi e gli studi sulla morte. Il secondo
concerne il rapporto con la morte delle società occidentali.
I decenni
successivi al secondo dopoguerra, diciamo dagli anni ’50 ai ’60 del secolo
scorso, videro una fioritura di contributi e di ricerche: un tema che era stato
appannaggio di letteratura, filosofia e religione, fu annesso alle scienze
umane, psicologia, antropologia, sociologia e storia: grosso modo i contributi
più rilevanti in antropologia e sociologia vennero dalla cultura anglosassone,
in storia da quella francofona. Poi però, dalla metà degli anni ’70 gli studi
si diradarono, o per lo meno persero influenza e rilevanza: certo che su un
argomento così centrale come la morte, di libri (film, documentari…) se
ne sono continuati a produrre tanti, ma nessuno che abbia lasciato il segno
sulla cultura generale come i testi delle generazioni precedenti.
The
Pornography of Death è il
titolo di un breve articolo di Geoffrey Gorer pubblicato da Encounter nell’ottobre
1955. Gorer notava come nei 50 anni precedenti la morte fosse diventata un
tabù:
Per la
maggior parte degli ultimi duecento anni copulazione e (almeno nei decenni
centrali vittoriani) nascita erano gli “immenzionabili” della triade di
fondamentali esperienze umane (…) attorno alle quali tanta fantasia privata e
pornografia semiclandestina si costruiva. Per la maggior parte di quel periodo
la morte non era affatto misteriosa, tranne nel senso che la morte è sempre un
mistero. I bambini erano incoraggiati a pensare alla morte, alle loro proprie
morti, agli edificanti o ammonitori letti di morte altrui. Nell’800, con la sua
alta mortalità, Ci poterono essere rari individui che non fossero stati
testimoni di persona di almeno di un morire, e che non avessero pagato rispetto
a ‘belle salme’; I funerali erano l’occasione del più grande sfoggio per la
classe lavoratrice, la classe media, gli aristocratici. Il cimitero era il
centro di ogni villaggio e luogo di riferimento in ogni città- Solo alla fine
dell’800 l’esecuzione dei criminali cessò di essere una festa pubblica, e un
pubblico ammonimento (…) Nel ‘900 però è passato inosservato uno slittamento
nella pruderie: mentre la copulazione è diventata sempre più menzionabile,
specie nelle società anglosassoni, la morte è divenuta sempre più indicibile,
come processo naturale.
Dovremmo
riflettere a fondo sull’inversione di ruoli tra la sessualità e la morte, come
oggetti dell’indicibilità (Gorer sviluppò la sua tesi in uno studio più
dettagliato apparso nel 1965: Death, Grief, and Mourning in
Contemporary Britain). Forse è all’aspetto pornografico che possiamo
attribuire il moltiplicarsi di serial televisivi di C.S.I, in cui il personaggio
principale è il tavolo delle autopsie, luogo di “sconcezze”. La patologia
forense come soggetto tv di soft-porn. E forse alla rimozione di questo
scandalo è dovuta quella che Jessica Mitford chiamò The American Way of
Death (1963), e cioè il maquillage del defunto, il diffondersi
dell’imbalsamazione (una conservazione non perpetua come quella degli antichi
egizi, ma temporanea per prolungare un po’ l’apparenza della vita): attualmente
l’industria funeraria Usa fattura circa 20 miliardi di dollari per 2.4 milioni
di funerali all’anno. Vale la pena ricordare il film The Loved
One (1965: in italiano Il caro estinto) di Tony
Richardson, tratto da un romanzo breve di Evelyn Waugh (e girato con la
consulenza di Mitford): allora il film mi parve bello, chissà che effetto
farebbe oggi.
Perciò la
nostra rimozione della morte (tanto più oggi, quando siamo subissati da morti
“immeritate”) non è un atteggiamento inedito, bensì la conclusione di una
tendenza radicata nella struttura industriale della nostra società. E qui
entrano in gioco i francesi, in particolare gli studi di Philippe Ariès. Un
titolo per tutti: Essais sur l’histoire de la mort en Occident: du
Moyen Âge à nos jours (1975). Ariès scandì varie fasi, da una morte
sociale, a una familiare a una ospedaliera. Nel medioevo se in una casa c’era
un moribondo, anche i passanti casuali andavano a salutarlo e a vederlo
rantolare, partecipi. La morte era un’esperienza comune. Poi protagonista della
morte divenne la famiglia (con tutti i rituali del lutto romantico ottocentesco).
Infine la morte, dopo essere stata sottratta alla società, fu tolta anche alla
famiglia e confinata negli ospedali che sono diventati il luogo deputato al
morire: quando arrivi in una città sconosciuta, capisci di essere nelle
vicinanze di un ospedale dal numero di agenzie funebri che vedi in strada.
“Il Medioevo
tutto intero, anche alla sua fine, viveva nella familiarità della morte e dei
morti. Dal XVI al XVIII secolo immagini erotiche della morte attestano la
rottura della familiarità millenaria dell’uomo e della morte. Come dice La
Rochefoucauld, l’uomo non può più guardare in faccia né il sole né la morte. A
partire dal XIX secolo le immagini della morte sono sempre più rare e
spariscono completamente nel corso del XX secolo, e il silenzio che si stende
ormai sulla morte significa che essa ha rotto le sue catene ed è diventata una
forza selvaggia e incomprensibile” (Ariès).
La rimozione
della morte è quindi un processo radicato nell’industrializzazione e nel
progresso tecnologico. Persino il diffondersi della cremazione rientra in
questa rimozione sociale, perché mentre la salma tumulata è un ricordo
inamovibile (per quanto sepolto in fondo alla coscienza dei superstiti), le
ceneri del cremato sono una scomparsa, sanciscono una rottura definitiva: è
stato dimostrato che i loculi contenenti ceneri vengono visitati molto meno dei
sepolcri di salme non cremate: la cremazione sancisce quindi il declino
definitivo del cimitero come luogo di culto e di visita, dopo il tramonto del
“lutto romantico” con le sue tombe monumentali e i suoi solenni cortei funebri
che scandivano la vita non solo dei paesi, ma delle città.
Da questo
punto di vista, la pandemia non ha cambiano il nostro rapporto con la morte, ha
solo estremizzato tendenze già presenti, in particolare la solitudine crescente
del morire. Ancora una volta si rivela falsa la perentoria asserzione “nulla
sarà mai come prima”. La pandemia non ha affatto alterato il tenace tentativo
da parte del Moderno di cancellare la morte, di farla scomparire dal nostro
orizzonte di vita, di relegarla a un altrove/altroquando inimmaginabile e
incomprensibile: una forma di panico assoluto, per dirla brutalmente (Lord
Kalvan di altroquando (1965) è il titolo di un bel romanzo di
fantascienza di H. Beam Piper).
Si obietterà
che una delle lamentele più frequenti dell’ultimo anno è che la pandemia ci ha
privato del lutto. Anche qui dovrebbe venirci in soccorso Ariès che ha mostrato
come il lutto non sia una categoria immutabile, ma sia una ben precisa
costruzione storica che ha visto il suo culmine alla fine del XIX secolo: in
realtà le varie manifestazioni del lutto, a cominciare dal rito della
ricorrente visita al cimitero e dalla diffusione dei monumenti funebri
cimiteriali, hanno preso forma solo nell’era del romanticismo, quando il
lutto per i morti soppianta lo scomparso culto dei morti:
per la prima volta negli ultimi due secoli la società umana ha fatto a meno di
quel culto dei morti che l’aveva contraddistinta dalle origini.
Solo
nell’800 il ceto medio espresse il lutto col colore nero dei vestiti femminili,
sia durante il funerale che in molti mesi successivi. “Ci si aspettava un
periodo di recesso dalla via sociale, con sempre le donne ad assumere il ruolo
guida. Negli Statiuniti molte ragazzine della classe media ricevevano
guardarobe da lutto per le loro bambole, con il rituale che veniva replicato
nel mondo del gioco” racconta W. M. Spellman nella sua A Brief History
of Death (2014). Insomma, prima della fine dell’800 mai un Freud
avrebbe potuto pretendere che “l’elaborazione del lutto” sia un processo
psicologico innato nell’umano.
Però quel
che la pandemia fa non è tanto portare all’estremo tendenze che si sviluppavano
da un secolo, quanto un ritorno al passato prossimo. Perché i processi del
moderno di cui parlavano Gorer, Mitford e Ariès hanno perso colpi negli ultimi
decenni: la morte negli ospedali ha conosciuto un picco, ma da qualche anno
sempre più famiglie preferiscono riportare a casa i propri morenti.
Sappiamo che
circa l’80 % degli americani preferirebbe morire a casa, ma che il 60 % muore negli ospedali, il 20% nelle case di riposo e solo
il 20 % in casa. Questa percentuale è però in crescita, perché diminuiscono i
decessi in ospedale e in pronto soccorso, nonostante sia cresciuto il numero delle ammissioni. La tendenza si inverte anche
perché siamo sempre più coscienti di quanto è futile l’accanimento terapeutico.
Anche
l’andamento del lutto è meno lineare di quanto sembri. Del lutto la figura più
parodistica, più arcaica, è quella delle prefiche, dei piangitori
professionali. Già il fatto di assoldare persone che piangessero al posto dei
congiunti (consorti, figli, parenti) dimostra il lato teatrale, di grande
recita (e quindi di sottintesa non verità) del lutto antico. Rimaniamo
disorientati perciò di fronte a una notizia che leggiamo sul New York
Times del 22 Marzo 1908 (edizione domenicale). Il titolo è
“Professional Mourners Strike” (I professionisti del lutto scioperano) e il
primo capoverso recita: “PARIGi, 14 Marzo. Quei curiosi, macabri personaggi…
lacrimatori di professione, si sono messi in sciopero perché ricevono solo 5 f.
per dodici ore di servizio, e un franco addizionale se chiamati d’urgenza”: un
mestiere ultra-arcaico si coniuga con uno strumento della lotta di classe del
moderno, con lo “sciopero”.
Ma le
prefiche sono entrate persino nell’ultima rivoluzione tecnologica, nel mondo di
internet:
Preoccupati
che poche persone si presentino al vostro funerale? Fatevi aiutare da
Rent-A-Mourner. L’ingegnosa compagnia dal nome ben scelto permette agli
interessati di pagare per professionisti del cordoglio per riempire una sala
funeraria ed essere sicuri che il defunto riceva un commiato adeguato ed
estremamente affollato.
Per circa
$68 a persona, questa ditta basata nel Regno unito invierà “professionisti
cortesi e ben vestiti” per assistere al vostro funerale, o vegliare, e
piangeranno, e in generale appariranno tristi rispetto al trapasso di chiunque
sia nella bara, per circa due ore. Rent-A-Mourner promette che I vostri dolenti
stipendiati saranno “discreti” e “professionali”, secondo il suo sito web.
Sfortunatamente,
quando ce ne sarebbe più bisogno, questo servizio non è più disponibile:
Rentamourner.co.uk ha infatti chiuso nel marzo 2019.
(articolo
ripreso da “Sidecar”, blog della New Left Review).
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