Nel generale e radicale rimescolamento di comportamenti, abitudini, consumi culturali che sta accompagnando la pandemia, cosa accade al libro e alla lettura? Circolano dati molto rassicuranti che forse hanno il limite di paragonare le vendite delle ultime settimane a quelle di un anno fa, quando le librerie erano chiuse.
Ma anche a sfogliare il Libro bianco pubblicato dal
Centro per il libro e la lettura si scoprono reazioni non proprio ovvie:
sintetizzando una ricerca molto ampia e piena di sfumature, si può dire che la
propensione alla lettura ha resistito alla seduzione di altre forme di
narrazione che hanno invaso le nostre vite nell’anno pandemico. A essere un po’
più rigorosi, mentre a maggio 2020 i ricercatori incontravano italiani “con
poco tempo da dedicare alla lettura di libri in giornate passate a seguire le
mille notizie che ossessivamente tv, siti internet di informazione e social
network riversavano su cittadini comprensibilmente attoniti”, a ottobre i dati
sembrano diversi e “tutte le dimensioni della lettura crescono”.
La lettura è un potente sismografo individuale e collettivo. Si legge
perché si cerca qualcosa (un’informazione, un’esperienza, un’emozione), ma si
legge se si è in condizioni di farlo, dal punto di vista delle possibilità,
delle competenze e di qualcosa di più inafferrabile e decisivo: uno stato
d’animo, una particolare e delicata costellazione di desideri. La resistenza
dello spazio della lettura sembra dunque mostrare che il libro è ancora capace
di rappresentare una forma seducente di evasione, dimensione di cui abbiamo un
disperato bisogno nelle giornate schiacciate dall’angoscia della pandemia. Ma
forse anche che al libro e alla lettura affidiamo una delle poche possibilità
di far emergere le domande più profonde che una esperienza collettiva così
traumatica non può non suscitare.
Un bene di prima necessità
Questo parziale ottimismo va subito contestualizzato in un quadro da sempre più
negativo che riguarda i tassi generali di lettura in Italia, dove la
percentuale di persone dai sei anni in su che legge almeno un libro all’anno è
ferma intorno al 40 per cento, secondo l’Istat, e al 60-65 per cento nelle
stime dell’osservatorio dell’Associazione italiana editori. Anche assumendo il
dato più generoso, siamo praticamente in fondo a tutte le editorie europee
(Francia 92 per cento, Norvegia 90,2 per cento, Regno Unito 86 per cento,
Svezia 73,5 per cento, Germania 68,7 per cento, Spagna 68,5 per cento) con
l’aggravante di una differenza territoriale profonda e inscalfibile per cui in
Trentino, Friuli, Piemonte e Lombardia i lettori sono praticamente il doppio
che in Campania, Sicilia o Puglia.
Il Libro bianco già citato è pieno di dati e
osservazioni sulle condizioni economiche e materiali (povertà assoluta e
relativa) e su quelle culturali, a partire dal tragico e più volte sottolineato ultimo posto
europeo per livello di comprensione dei testi letterari, saggistici,
informativi: in Italia solo il 24,8 per cento sembra disporre pienamente di
questa capacità (secondo i dati Ocse-Pisa sono undici i punti percentuali che
ci separano dalla Norvegia, dieci da Germania e Francia).
Ma qui si entra nel campo di questioni antiche e strutturali che investono
essenzialmente le politiche educative e scolastiche. Altro campo che la
pandemia ha messo violentemente sotto pressione e che non può uscire immutato
dall’esperienza che stiamo vivendo.
In attesa di scelte più radicali, si può almeno segnalare il fatto che
tenere aperte le librerie durante il secondo lockdown ha
permesso un certo ristoro economico a quello che è l’elemento più fragile del
mondo del libro (come per altri settori, la pandemia ha segnato anche un ampio
trasferimento degli acquisti dai luoghi fisici al commercio elettronico), ma ha
rappresentato un dato simbolico altrettanto importante: considerare il libro un
bene di prima necessità.
Nella enorme transizione digitale che stiamo attraversando è questo il
piano più significativo: che spazio avranno il libro e la lettura ovvero quel
supporto antico cui abbiamo affidato la trasmissione della conoscenza e
quell’attività particolare che implica attenzione, concentrazione, tempo
(proprio i beni che sembrano più rari nel mondo presente). Richard Ovenden,
bibliotecario della Bodleian library di Oxford (una specie di tempio della
cultura bibliografica) ha raccolto in Bruciare libri (Solferino) la
storia millenaria della cultura sotto attacco.
È una tormentata successione di tavolette di argilla distrutte, di papiri
incendiati, di volumi censurati. Dalla tragica e ancora enigmatica distruzione
della biblioteca di Alessandria al rogo dei libri nella Germania nazista, ogni
epoca storica ha fronteggiato poteri che intendevano limitare o azzerare la
conoscenza per rendere più deboli i sudditi. Ma i nemici che davvero
distruggono la cultura e gli oggetti che la trasmettono sono l’indifferenza e
l’incuria. Una società che non ne riconosce il valore sarà prima o poi
destinata a perderli.
È un problema politico, dunque, del valore che ogni epoca e le sue
istituzioni danno alla conoscenza, alle forme, ai luoghi, alle professioni che
la arricchiscono e la trasmettono. Ma c’è anche una responsabilità comune,
quella sorta di continuo plebiscito quotidiano per cui scegliendo, comprando e
usando qualcosa ne segnaliamo l’importanza.
Se di fronte all’esplosione di forme narrative che attraverso diverse
piattaforme riempiono oggi la nostra quotidianità la lettura sarà davvero in
grado di mantenere un suo spazio, il segnale risulterebbe importante. Da un
punto di vista molto più ampio, che non riguarda solo il mondo del libro, ma il
nostro futuro di individui impossibili da ridurre a una sola dimensione e al
suo controllo.
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