Molte compagne e compagni (di strada?) insistono nel qualificare le loro idee, prassi e lotte come “anticapitaliste” senza mai chiedersi veramente che cosa significhi. Per molti è sottinteso che al di là del capitalismo non può esserci che un esito obbligato: il comunismo o il socialismo; che il capitalismo non sia che un bozzolo entro cui cresce una larva pronta a trasformarsi in farfalla e a spiccare il volo quando il bozzolo verrà perforato. Non la pensava così Marx, che sosteneva sì, che il capitalismo alleva in seno il suo antagonista, ma rifiutava di delineare la società futura perché non aveva mai pensato che fosse già tutta presente in nuce in quelle “forze produttive” a cui il capitale impedirebbe di manifestare le proprie potenzialità. Che è invece una tesi, mai pienamente esplicitata, presente in molti scritti del neo-operaismo. La questione investe il rapporto tra le forme dei conflitti e delle iniziative che si scontrano con il dominio del capitale e i connotati di un “altro mondo possibile”.
Oggi al modello di comunismo come statalizzazione di tutti gli aspetti
della vita – passaggio obbligato verso la società senza classi - non si rifà
più nessuno: è fallito per sempre con l’esperimento sovietico. E nessuno pensa
più il socialismo come nazionalizzazione della grande industria e
programmazione dello “sviluppo”, a cui aprirebbe la strada la concentrazione
del potere economico. Ma, soprattutto a partire dal Sessantotto, e anche prima,
ci si è spesso accontentati di considerare il comunismo “il movimento reale che
abolisce lo stato di cose presente”, senza cercare nelle forme assunte dalle
lotte in corso la prefigurazione, se non di una società futura, per lo meno di
una direzione di marcia. Il rimando, spesso solo verbale, al comunismo o al
socialismo ha finito per nascondere un vuoto di pensiero sufficiente a spiegare
il fallimento delle sinistre a livello mondiale: discutere del futuro è tempo
perso o mera fantasticheria.
L’ecologia ci ha in parte liberato dalla gabbia di quell’esito scontato,
mettendo in discussione l’impianto produttivista, “sviluppista” e antiecologico
di un approccio comune – anche quando non esplicito - a gran parte delle forze
che si pongono in continuità con la storia del movimento operaio. Mano a mano
che si faceva evidente il rapporto tra le tante sofferenze umane – soprattutto
dell’umanità più sfruttata ed emarginata - e quelle del mondo della natura si
dissolveva anche il senso di un “anticapitalismo” incapace di coglierne la
centralità. Per alcuni, anzi molti, non c’è problema: l’ecologia deve solo
correggere un eterno presente a cui non c’è alternativa. Ma per l’ecologia
integrale – che fa coincidere lotta per la giustizia sociale e lotta per la
salvaguardia della Terra – quel rapporto ingiunge un rovesciamento radicale del
sistema che non cerca più solo in nuovi “rapporti di produzione” il rimedio
alle ferite inferte dal capitalismo alla vita e all’integrità degli ecosistemi.
Su quel rovesciamento è in corso un dibattito che questo giornale ha da
tempo promosso, ma che non sempre mette a fuoco il suo legame con la questione
dei beni comuni – tali solo se gestiti da una comunità aperta - come
alternativa alla proprietà, sia privata che statuale, delle risorse
fondamentali; ma anche con una rinnovata critica del lavoro come attività per
lo più nociva per chi la svolge e per ciò che produce e imposta con il ricatto
di disoccupazione e miseria; per mettere al centro l’obiettivo della cura, cioè
di attività liberamente scelte che includano, accanto alla produzione di beni
essenziali, tutte gli impegni legati alla riproduzione sia della vita che delle
relazioni su cui si fonda una comunità e il suo rapporto con un territorio.
E’ una prospettiva legata a pratiche quotidiane che non escludono né
antagonismo né conflitto aperto, ma con un perimetro più ampio di elaborazioni
e prassi mutualistiche, come quelle che avevano accompagnato gli esordi del
movimento operaio, ovviamente adattate ai tempi nostri. Dentro cui
rivendicazioni come reddito di base, riduzione del tempo di lavoro, salario
minimo, servizi sociali e istruzione pubblica ma autogestita sono sì strumenti
di rottura con gli assetti in atto, ma richiedono fin da ora la presa in
carico, in forme condivise, del tempo e delle potenzialità che possono
liberare.
Come ci si arriva? O, meglio, come procedere lungo questa strada? Che non
ha come “sbocco” una conciliazione finale tra individui, interessi, fedi e
classi diverse, e nemmeno tra la nostra specie e il mondo della natura, bensì
la conquista di una condizione ogni volta da rinnovare che non cesserà di
essere problematica e conflittuale.
Occorre forse convincere prima tutti che non c’è altra via, perché i
disastri ambientali e sociali in corso ci fanno già vedere, e in parte vivere,
le forme che potrà assumere l’estinzione della vita umana sulla Terra? No. Non
ha funzionato nei cinquant’anni e più di allarme sulle condizioni del pianeta;
non funziona né funzionerà neanche ora.
Oppure bisogna aspettare un collasso del sistema? Collassi del genere li
abbiamo già attraversati, li stiamo attraversando e saranno sempre più
frequenti: sono diventati la condizione stessa di esistenza del sistema. Che
ogni volta ha proseguito per la sua strada, anche rinunciando a qualcuna delle
sue funzioni: occupazione, redditi decenti, welfare, sicurezza; ma anche a
qualche linea di approvvigionamento delle sue unità produttive e di tante
esistenze umane. E’ una deriva sotto i nostri occhi anche con questa pandemia.
Ma è in quei vuoti che deve sapersi inserire l’iniziativa di chi lavora a
rovesciare il mondo giorno per giorno: occupare spazi, sostituire funzioni,
ridimensionare le catene di approvvigionamento, proporre e imporre soluzioni
alternative allo sfruttamento e al profitto nel lavoro e nel welfare: le
pratiche sperimentate sono tante; i risultati, finora, scarsi e “di nicchia”;
ma concorrono tutti a mettere a punto una prospettiva generale per orientarci
là dove la crisi colpisce di più.
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