È stato un anno di terribili perdite. Molte persone hanno perso i loro cari a causa della pandemia. Molti si sono ammalati, e alcuni stanno ancora male. I bambini hanno perso un anno di scuola. Milioni di persone hanno perso uno stipendio regolare. Alcuni hanno perso piccole attività che portavano avanti da decenni. Quasi tutti noi abbiamo perso abbracci, incontri, viaggi e la gioia di ritrovarsi insieme nel nostro ristorante preferito, e molto altro ancora.
Eppure
quest’anno ci ha anche insegnato molto. Per quanto possa apparire strano, la
pandemia di covid-19 ci ha regalato anche alcune cose buone, e ammetterlo non
toglie nulla alle nostre attuali difficoltà. Riconoscerle, anzi, aumenta la
possibilità che la nostra società possa emergere da questo calvario più
esperta, più agile e più preparata al futuro.
Ecco i tre
modi in cui il mondo è cambiato in meglio in questo terribile anno.
1. Ora sappiamo come codificare i nostri vaccini
Forse lo
sviluppo che avrà le implicazioni più profonde per le future generazioni sono
gli incredibili progressi nelle biotecnologie dell’Rna messaggero (mRna)
sintetico.
Abbiamo
ottenuto i nostri vaccini molto velocemente: il precedente record per lo
sviluppo di un vaccino era di quattro anni, ed era stato stabilito negli anni
sessanta. Stavolta abbiamo messo a punto vari vaccini efficaci contro il
covid-19 in meno di un anno. La fortuna ha velocizzato il processo. Per esempio
è noto che è difficile sviluppare, e infatti ancora non esiste, un vaccino
contro il retrovirus dell’hiv. Per il covid-19 il processo è stato più
semplice, agevolato da milioni di dollari di denaro pubblico e da un senso di
urgenza planetario, e accelerato dagli effetti tragici del virus: poiché la
pandemia imperversava, avevamo a disposizione un numero elevato di casi per le sperimentazioni.
È stato quindi più facile ottenere rapidamente dei risultati.
Ma in tutto
questo ci sono stati anche passi avanti storici. La nuova tecnologia a mRna su
cui si basano vari vaccini – in particolare quello della Pfizer con la Biontech
e quello della Moderna – rappresenta una svolta scientifica e tecnica epocale.
Oggi è possibile codificare i nostri vaccini, e
grazie ai progressi scientifici e della produzione industriale è possibile
produrli su larga scala e capire in che modo somministrarli alle nostre cellule
nel giro di pochi mesi.
Tutto questo
è una novità. Né la Moderna né la Biontech avevano un singolo prodotto
approvato sul mercato prima del 2020. Entrambe hanno in pratica progettato il
proprio vaccino al computer, in un fine settimana del gennaio 2020: per quello
della Biontech ci sono volute, letteralmente, solo poche ore. Entrambe le
aziende disponevano di vaccini potenziali, progettati almeno quattro settimane
prima dell’annuncio del primo decesso da covid-19 negli Stati Uniti. La Moderna
stava producendo lotti di vaccini da usare per test clinici più di un mese
prima che l’Organizzazione mondiale della sanità dichiarasse la pandemia. Nel
2021 le aziende prevedono complessivamente di produrre miliardi di dosi
di vaccino straordinariamente efficaci.
Conosciamo
il principio alla base della vaccinazione: quando il nostro sistema immunitario
incontra un virus, può imparare a combatterlo e a ricordarsi come farlo anche
in seguito. I vaccini forniscono al nostro sistema immunitario l’allenamento di
cui ha bisogno, ma si tratta comunque di una lotta impari. Fino a oggi la
maggior parte dei vaccini in uso conteneva virus indeboliti o completamente
disattivati oppure, più di recente, subunità proteiche: vale a dire pochi
frammenti del virus, chiamati antigeni.
Abbiamo
raggiunto straordinari livelli di efficacia e sicurezza con queste tecniche,
che però hanno ancora delle controindicazioni. Nel 1955 alcuni lotti
difettosi di un
vaccino indebolito contro la poliomielite uccisero dieci bambini e centinaia
rimasero paralizzati. Da allora abbiamo fatto in modo di non ripetere quel
tragico fallimento, ma produrre vaccini a partire dall’agente patogeno stesso
significa ancora dover maneggiare il
virus nel processo produttivo. I vaccini a subunità più recenti sono molto
promettenti, ma presentano a loro volta degli ostacoli. Identificare la giusta
subunità (o antigene) può essere difficile, e questi vaccini tendono a
produrre risposte
immunitarie più deboli. Gli antigeni, inoltre, non si trovano certo al supermercato. Vanno allevati in sistemi cellulari come il
lievito o il batterio E. coli:
sostanzialmente si modifica la loro genetica per fargli produrre gli antigeni
desiderati, raccogliendo poi quel che è venuto fuori. Funziona, ma è più lento
del processo a mRna.
I vaccini a
mRna funzionano in maniera diversa. Nel loro caso, gli scienziati osservano la
sequenza genetica di un virus, ne identificano una parte fondamentale – come la
proteina spike, che il virus usa come una chiave che si fissa ai
recettori delle cellule per sbloccarle e penetrare al loro interno – producono
le istruzioni per ottenere solo questa parte, e poi inviano queste istruzioni
alle nostre cellule. In fondo è proprio quello che fa un virus: assume il
controllo del funzionamento delle nostre cellule per riprodursi. Solo che, in
questo caso, diciamo alle nostre cellule di produrre solo la porzione spike, in modo che alleni il nostro sistema
immunitario con qualcosa che non può infettarci, perché le altre parti del
virus sono assenti! Prima di quest’anno, era questo il sogno alla base delle
tecnologie a mRna sintetico: un sogno a cui credevano poche persone, fatto di
difficili sfide, e che poteva offrire solo le sue promesse. Quest’anno è
diventato realtà.
Le nostre
cellule dispongono di un notevole tipo di software – il wetware, il cervello umano – che usa le istruzioni nel dna presente nei
nuclei delle nostre cellule per produrre proteine. Se si pensa alle proteine
assemblate come a una struttura fatta con il Lego, il dna è come il libretto
d’istruzioni. Ma qualcuno deve leggere quelle istruzioni e assemblare
correttamente i vari pezzetti. Nella cellula, una parte fondamentale di questo
processo è l’rna messaggero: una molecola a singolo filamento, che ha vita
breve e che porta le istruzioni dal dna nel nucleo alla fabbrica che produce
proteine all’esterno.
Nel 2020
abbiamo capito come produrre Rna messaggero con precisione, programmando
l’esatto codice desiderato, producendolo in scala (una stampante di Rna
messaggero!) e trovando il modo d’iniettarlo nelle persone in modo che il
fragile mRna arrivi nelle nostre cellule.
Il primo
passo è stata pura programmazione informatica: Uğur Şahin, l’amministratore
delegato della Biontech, si è seduto di fronte al suo computer e ha inserito il
codice genetico della proteina spike del
misterioso virus emerso a Wuhan. I dipendenti della Moderna avevano fatto lo
stesso il fine settimana prima che la sequenza genomica fosse resa pubblica, il
10 gennaio. Il potenziale vaccino della Modera era stato chiamato mRna-1273
perché in esso erano stati codificati tutti i 1.273 amminoacidi presenti nella
proteina spike del sars-cov-2: il codice era così piccolo
da poter essere rappresentato per intero con meno di metà dei caratteri che
entrano in una pagina con interlinea singola.
Il resto del
processo si è basato su importanti innovazioni scientifiche e industriali, di
origine piuttosto recente. L’mRna messaggero è fragile: si disintegra
facilmente, com’è giusto che faccia. Le nanoparticelle lipidiche in cui è
avvolto per usarlo come sistema di consegna sono state approvate solo nel 2018.
Inoltre la proteina spike virale
cambia notoriamente forma: ne prende una prima di fondersi con le nostre
cellule e poi un’altra. Quest’ultima forma, quella post-fusione, non ha funzionato
bene per lo
sviluppo di vaccini, e solo di recente gli scienziati hanno capito come
stabilizzare la spike di un virus nella forma
che questa ha prima della fusione.
Nuovi strumenti
Ora che questo processo è in atto, si è aperta una serie di possibilità.
Potremmo presto avere vaccini per molte altre malattie contro cui lottiamo.
Sono già in corso dei tentativi, per esempio, per un vaccino a mRna contro la
malaria, provocata da un parassita che ogni anno uccide centinaia di migliaia
di persone, soprattutto bambini, ed è notoriamente difficile da combattere con
i vaccini.
Potremmo
finalmente ottenere anche una nuova serie di strumenti contro il cancro (sia la
Moderna sia la Biontech stavano lavorando su trattamenti per il cancro prima di
passare ai vaccini contro i coronavirus). La difficoltà, nel caso del cancro, è
che in esso sono le nostre stesse cellule ad andare in tilt. È davvero
difficile trovare il modo di uccidere solo le cellule cancerose di un paziente
senza uccidere anche quelle sane, e quindi anche il paziente. Ma l’mRna
sintetico può essere programmato per contenere solo la mutazione specifica
esistente nelle cellule cancerose di un dato paziente – e se le cellule
cancerose mutano ulteriormente, anche le nuove possono essere prese di mira.
Questo può
permetterci, finalmente, di passare da un modello di medicina in cui i farmaci
sono identici per tutte le persone di un gruppo particolare, a terapie mirate e
individualizzate. Inoltre queste tecnologie sono adatte a una produzione su più
piccola scala ma abbastanza economica: uno sviluppo che può aiutarci a trattare
le malattie rare che colpiscono solo poche migliaia di persone ogni anno, e che
sono quindi solitamente ignorate dalle tecnologie mediche orientate al mercato
di massa.
Non è inoltre
una coincidenza che questi due vaccini a mRna siano stati i più veloci a
sbarcare sul mercato. Possono essere prodotti rapidamente e, fatto
fondamentale, aggiornati in maniera straordinariamente veloce. Şahin, l’ad di
Biontech, ritiene che sei settimane siano un tempo sufficiente perché l’azienda
cominci a produrre nuovi richiami per ogni nuova eventuale variante di
covid-19. La Pfizer e la Moderna stanno entrambe già
lavorando su
richiami che prendono di mira con più precisione le nuovi varianti individuate
finora, e l’Agenzia per gli alimenti e i medicinali (Fda) statunitense ha
dichiarato di poter approvare rapidamente questi aggiornamenti dei farmaci.
2. Abbiamo realmente imparato a usare le
infrastrutture digitali
Internet,
una diffusa connettività digitale, le nostre tante app: è facile dimenticare
quanto tutto questo sia nuovo per noi. Zoom, l’onnipresente servizio video che
è diventato sinonimo di lavoro durante la pandemia, e del quale molti di noi
sono comprensibilmente un po’ stufi, ha meno di dieci anni. Lo stesso vale per
quelle connessioni a banda larga che hanno permesso a miliardi di persone di
accedere a servizi d’intrattenimento video in streaming e di rimanere in
contatto con familiari e colleghi. La connettività a internet è lungi
dall’essere perfetta o distribuita equamente, ma è diventata più rapida e
diffusa nell’ultimo decennio. Senza di essa, la pandemia sarebbe stata molto
più avvilente e dispendiosa.
La
tecnologia ha inoltre mostrato come potremmo far funzionare meglio la nostra
società in tempi normali.
La trasformazione del lavoro
Si pensi, per esempio, al diffondersi della telemedicina durante la pandemia.
La scorsa estate, mentre mi trovavo a poche ore da casa, sono stata di nuovo
vittima dei debilitanti dolori al collo di cui già avevo sofferto, circa cinque
anni fa, durante un altro viaggio. Li ho riconosciuti subito: dolori netti,
costanti che partivano dal punto in cui il mio collo si unisce alla spalla
destra: il più piccolo movimento mi faceva sentire come se un esercito di
piccole lance avvelenate mi stesse colpendo in quella zona.
La volta
precedente mi era stato detto che non era possibile fare niente senza prima
vedere di persona il mio dottore, molti giorni dopo. Adesso non è più così: il
mio dottore e io ci siamo connessi immediatamente grazie a un nuovo portale per
i pazienti, che aveva la possibilità di organizzare videoconferenze e che era
diventato disponibile con la pandemia. Ho descritto il problema e mostrato il
mio limitato raggio di movimento. Il dottore ha concluso la chiamata dicendo
che avrebbe spedito una ricetta per dei corticosteroidi da assumere per via
orale a una vicina farmacia. Appena un’ora dopo, e meno di un giorno dopo
l’emergere dei sintomi, ero seduta nella mia auto, nel parcheggio della
farmacia, che fissavo la scatola di medicinali in preda alla meraviglia. In
passato avevo provato dolori intensi per vari giorni, tanto da cominciare ad
avere allucinazioni per mancanza di sonno. Stavolta il sollievo era proprio lì,
nelle mie mani.
Negli Stati
Uniti, secondo i centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc),
la telemedicina è
aumentata del 50 per cento nel primo trimestre del 2020, rispetto allo stesso periodo del 2019.
Chiaramente queste consultazioni non sono adatte a tutte le situazioni ma, se
giustificate, possono facilitare molto l’accesso alle cure mediche delle
persone, senza che queste debbano preoccuparsi del trasporto, dei figli piccoli
o di sottrarre troppo tempo al lavoro. L’accesso da remoto all’assistenza
medica è da tempo una richiesta delle persone con
disabilità e di
quelle che vivono nelle zone rurali, per le quali recarsi in un ambulatorio può
essere un peso ulteriore.
Anche il
lavoro si è trasformato. All’improvviso centinaia di milioni di persone in
tutto il mondo hanno dovuto inventarsi un modo di fare le cose senza andare in
ufficio. A quanto pare la cosa, per molti colletti bianchi, non è solo
possibile, ma ha anche vari vantaggi.
Il pendolarismo, per fare un esempio, è malsano: è
uno spreco di tempo e rischia di aumentare la nostra
sedentarietà, una
condizione legata a molti disturbi. Fatto forse peggiore di tutti, guidare è
una delle attività più pericolose che svolgiamo ogni giorno. La gara per
cercare di evitare lunghi tragitti casa-lavoro distorce il valore degli
immobili e può aggravare le diseguaglianze, poiché le persone con più soldi
pagano somme più alte per vivere vicino ai centri di lavoro, dove altri non
possono più permettersi di abitare.
Non
sorprende che molti dei miei amici più fortunati – quelli in grado di lavorare
da casa e non colpiti direttamente dal covid-19 – abbiano raccontato quanto
siano migliorate le loro vite senza doversi spostare per andare al lavoro e con
una maggiore flessibilità.
L’importanza della socialità
Sono tanti inoltre gli eventi che sono diventati più inclusivi. Per tutto lo
scorso anno ho potuto partecipare a conferenze e incontri ai quali sarei
mancata, a meno di avere grandi disponibilità di tempo o di poter sostenere le
spese di viaggio. Ho anche tenuto conferenze nelle quali ho interagito con
persone di tutto il mondo, che altrimenti non sarebbero mai potute essere in
quella “stanza”. E mi sono accorta che una varietà più ampia di esperti può
apparire in televisione, ora che abbiamo normalizzato il fatto di parlare
dall’ufficio di casa, dal salotto o perfino dalla camera da letto. In un mondo
diviso da passaporti, disuguaglianze di reddito, limiti di tempo, e
opportunità, perché non incorporare le videoconferenze nei nostri eventi più di
quanto facessimo prima? Perché non accettavamo domande dal pubblico che non era
presente nella stanza? Dovremmo continuare a farlo anche dopo la pandemia.
Mi mancano
naturalmente le conversazioni fortuite che scaturivano nei convegni e in altri
eventi in carne e ossa: non solo durante le conferenze, ma anche nei corridoi,
o a colazione prima di un evento. È vero che questi incontri sono per molti una
forma di socialità, e non sto sostenendo che sia opportuno eliminarli. Non
credo neanche che non dovremmo più tornare in ufficio, o ignorare i problemi
che derivano dal lavorare fuori da un ufficio: soprattutto le minacce
all’equilibrio casa-lavoro. Essere nello stesso ufficio permette anche
conversazioni che vanno oltre le questioni di lavoro in senso stretto, e i
legami che incoraggiano. Può darsi che non saremo mai in grado di replicare
digitalmente questi aspetti positivi, ma dovremmo comunque offrire un qualche
accesso remoto a quanti altrimenti sarebbero completamente esclusi.
3. Abbiamo liberato il vero spirito della revisione
paritaria e della scienza aperta
Il 10
gennaio 2020 un virologo australiano, Edward Holmes, aveva pubblicato un breve e semplice
tweet: “Avviso a
tutti, una prima sequenza genomica del coronavirus dell’epidemia di Wuhan è
adesso disponibile qui su Virological.org”. Un microbiologo rispose “si
comincia”, con una gif di aerei che decollavano. E così è effettivamente
cominciato un impressionante anno di attività scientifica aperta, rapida,
collaborativa, dinamica e sì, anche caotica, fatta di modalità di
collaborazione che sarebbero state impensabili anche solo alcuni decenni fa.
Holmes aveva
annunciato che in Cina uno scienziato, Zhang Yongzhen, si era precipitato a
sequenziare il genoma del misterioso virus proveniente da Wuhan: la sua équipe
aveva lavorato praticamente senza sosta, completando la sequenza appena quaranta ore
dopo che un
campione del virus era arrivato in una scatola di ghiaccio secco nel suo
ufficio di Shanghai. Senza aspettare un’approvazione o un permesso ufficiale,
Zhang aveva inoltre rapidamente condiviso il risultato con un consorzio di
ricercatori in Australia, dando loro il via libera perché lo pubblicassero in
rete in una pagina aperta.
La revisione
paritaria – quella effettuata da colleghe e colleghi di scienza – rimane,
giustamente, il fondamento del processo scientifico: la scienza è buona quando
i componenti di una comunità dediti al progresso della conoscenza possono
esaminare scoperte, replicare risultati, testare teorie e mettersi
vicendevolmente alla prova.
Un obbligo scomparso
Tuttavia la revisione paritaria, peer review, come
processo formale – come si svolge oggi – è diversa dall’idea e dallo spirito
della visione tra pari, peer view. Esistono
riviste scientifiche che applicano la revisione paritaria e nelle quali gli
scienziati possono pubblicare le loro scoperte. Ma, per quanto sorprendente
possa apparire la cosa, molte di queste riviste – soprattutto quelle più
prestigiose, che possono favorire la carriera di una scienziata o di uno
scienziato – sono di proprietà di aziende con finalità di lucro, anche se le
valutazioni paritarie sono fatte gratuitamente e volontariamente su articoli
proposti da persone di scienza che, a loro volta, non sono pagate dalle
riviste.
Ancora
peggio, dopo aver seguito la procedura formale in queste riviste con finalità
di lucro, questi articoli diventano poi disponibili solo a pagamento, il che
significa che queste aziende fanno pagare somme indecenti alle biblioteche
delle università, i cui scienziati hanno contribuito gratuitamente all’articolo
e alla revisione paritaria. Le aziende impediscono anche ai lettori comuni di
accedervi, a meno che non paghino per farlo. Queste aziende fanno inoltre
pagare a scienziate e scienziati il privilegio di rendere questi articoli “ad
accesso libero”: articoli, lo ripetiamo, scritti proprio da coloro che non
traggono alcun beneficio finanziario da queste letture a pagamento!
Non stupisce
che queste aziende continuino a ottenere grandi profitti mentre molti
accademici sono in rivolta contro una procedura che impedisce la diffusione del
sapere. Sfortunatamente gli scienziati e le scienziate – soprattutto se a
inizio carriera – sentono l’obbligo di continuare a partecipare al sistema,
perché ottenere la pubblicazione del proprio articolo è vitale per le
assunzioni, le promozioni e il prestigio.
Ma ora, non
più. Quando è cominciata la pandemia, è stato impossibile continuare con questo
vecchio gioco, lento e chiuso, e la comunità scientifica si è lasciata andare.
La revisione paritaria – quella vera, non solo la sua versione superficiale,
ostaggio delle aziende con scopo di lucro – si è liberata delle sue
limitazioni. Una buona parte del mondo della ricerca ha cominciato a pubblicare
le sue scoperte come documenti di lavoro in prestampa, preprint – ovvero articoli che devono ancora
essere rivisti e approvati da pubblicazioni formali – caricandoli in pagine
scientifiche senza fine di lucro, liberamente accessibili. Questi documenti di
lavoro sono stati discussi apertamente e appassionatamente, spesso sui social
network: non necessariamente il luogo ideale per la cosa, ma è quel che avevamo
a disposizione.
Vero spirito scientifico
A volte la pubblicazione di dati è stata anche più veloce: alcuni dei più
importanti dati iniziali sulla risposta immunitaria alla preoccupante variante
britannica sono venuti da un thread di Twitter di un affaticato
ma generoso ricercatore del Texas. È stata
una dimostrazione di vero spirito scientifico: il laboratorio del ricercatore
rinunciava al prestigio di essere il primo a pubblicare i risultati in un
articolo, permettendo agli altri di mettersi al lavoro il più velocemente
possibile. Gli articoli spesso sono passati anche da una revisione paritaria
classica, e hanno finito per essere pubblicati in riviste, ma la pandemia ha
spinto molte di queste aziende a rinunciare a farsi pagare per la lettura. E
inoltre i documenti di lavoro da cui sono scaturiti gli articoli definitivi
sono rimasti disponibili a tutti.
Anche le
collaborazioni si sono ampliate in modalità difficilmente immaginabili senza i
nuovi strumenti digitali, che permettono una rapida condivisione e
collaborazione, e senza quel sentimento di urgenza che è stato capace di
annullare le rigide separazioni disciplinari.
Per esempio,
all’inizio del 2020, dopo che avevo cominciato a scrivere della necessità d’indossare
una mascherina, è
risultato evidente che avevamo bisogno anche di articoli scientifici
dettagliati che analizzassero le basi scientifiche dell’efficacia delle mascherine nel
ridurre la trasmissione in una comunità.
L’argomento
toccava questioni attinenti a varie discipline, tra cui le malattie infettive,
lo studio degli aerosol e la sociologia. Per questo mi sono associata a un
gruppo di scienziati, dottori, ricercatori e analisti dei dati di tutto il
mondo, per scrivere insieme un articolo accademico. È stata un’esperienza
assolutamente inedita, dall’inizio alla fine. Molte attività scientifiche
coinvolgono équipe internazionali, ma stavolta abbiamo cominciato a collaborare
in maniera praticamente improvvisata: i coautori vivevano in città tanto diverse
quanto Città del Capo, in Sudafrica; Pechino, in Cina; Chapel Hill (io!) e
Stanford, negli Stati Uniti; e Oxford, nel Regno Unito. Avremmo in seguito
pubblicato nella rivista scientifica più citata al mondo, la statunitense Pnas
(Proceedings of the national academy of sciences), che ha più di cent’anni. Ma
la maggior parte degli strumenti che abbiamo usato – revisione condivisa di
articoli scientifici, videoconferenze e altre forme d’incontro – appena pochi
anni fa non erano altrettanto disponibili o facili da usare.
Come molti
altri, non abbiamo aspettato una revisione paritaria formale per condividere le
nostre scoperte. Abbiamo rapidamente caricato il nostro articolo su un server
di preprint, in modo che potesse essere oggetto di
revisione paritaria aperta da parte della comunità scientifica, e di domande e
commenti da altri attori rilevanti, tra cui politici e perfino persone comuni
che cercavano di capirci qualcosa in questi tempi confusi. E le reazioni sono
arrivate rapidamente: abbiamo ricevuto lunghe e premurose email, e correzioni e
commenti su Twitter, che si sono rivelati estremamente utili. Ma anche
contributi molto meno utili, tra cui gli sfoghi di persone non meglio
identificate che se la prendevano con noi.
Ho
cominciato a suddividere per categorie le reazioni alle sezioni sulle quali
avevo lavorato, come hanno fatto molti dei miei collaboratori. Ancor prima che
il primo giro di revisioni paritarie fosse completato, abbiamo usato le
reazioni per generare una nuova versione, più solida, che abbiamo aggiunto al
server. Poi abbiamo ricevuto il nostro primo giro di revisioni paritarie, che
abbiamo trovato a sua volta molto utile. Abbiamo ulteriormente aggiornato
l’articolo, riproponendo la nuova versione alla Pnas, e abbiamo atteso il
secondo giro di revisione paritaria (che ha avuto bisogno di vari mesi, ma è
stata anch’essa molto utile). Alla fine, quasi un anno dopo, sono arrivate
l’approvazione e la pubblicazione formale.
Devo
ammettere che la versione finale dell’articolo pubblicato fa una bella figura
nel mio curriculum, ma la nostra versione di lavoro era già stata scaricata più
di qualsiasi altro articolo su quel server. È stato citato centinaia di volte,
anche dalle riviste mediche e scientifiche più prestigiose al mondo; ha
contribuito al dibattito scientifico globale; e ha svolto un ruolo fondamentale
nell’imposizione delle mascherine. Per festeggiare ci siamo anche concessi
un’ora di relax, in cui abbiamo parlato delle nostre vite, sfide, e della
nostra nuova e condivisa amicizia.
Questo processo
di revisione paritaria aperta è veloce, dinamico e – diciamolo – caotico. Non è
privo di controindicazioni. Troppi titoli sensazionalistici sono nati dalla
fretta di giornalisti che si sono precipitati a scrivere di documenti di lavoro
non sufficientemente soppesati, senza aspettare che il processo di revisione e
commenti aperti facesse il proprio lavoro. La cosa può generare
confusione nell’opinione
pubblica. E l’esplosione dei documenti di lavoro è talvolta dipinta come la
fine della revisione paritaria formale.
È vero
invece il contrario. Nessun processo che permette di saperne di più su come
sono prodotte le salsicce può evitare di guardare ai suoi elementi meno
gustosi, ma dobbiamo cercare di cambiare il modo in cui ci rapportiamo alla
scienza, non di tornare al mondo lento e artefatto di prima della pandemia.
Dovremmo adottare questo straordinario e solido processo fatto di scienza
aperta e maggiore revisione paritaria, oltre che il suo dinamismo, pur
continuando a stabilire nuovi strumenti di sicurezza che ne contengano
l’energia.
La pandemia
è scoppiata in un momento di convergenza tra tecnologia digitale e medica e
dinamiche sociali, che hanno rivelato un enorme potenzialità positiva per le
persone. Niente cancellerà le perdite che abbiamo subìto. Ma quest’anno
terribile ci ha spinto a miglioramenti straordinari nella vita umana, grazie a
nuove biotecnologie, a una maggiore esperienza degli aspetti positivi della
connettività digitale e a un processo scientifico più dinamico.
Ciò detto,
evitiamo che accada di nuovo.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul mensile statunitense The Atlantic.
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