sabato 3 aprile 2021

Tre lezioni positive della pandemia - Zeynep Tufekci

 

È stato un anno di terribili perdite. Molte persone hanno perso i loro cari a causa della pandemia. Molti si sono ammalati, e alcuni stanno ancora male. I bambini hanno perso un anno di scuola. Milioni di persone hanno perso uno stipendio regolare. Alcuni hanno perso piccole attività che portavano avanti da decenni. Quasi tutti noi abbiamo perso abbracci, incontri, viaggi e la gioia di ritrovarsi insieme nel nostro ristorante preferito, e molto altro ancora.

Eppure quest’anno ci ha anche insegnato molto. Per quanto possa apparire strano, la pandemia di covid-19 ci ha regalato anche alcune cose buone, e ammetterlo non toglie nulla alle nostre attuali difficoltà. Riconoscerle, anzi, aumenta la possibilità che la nostra società possa emergere da questo calvario più esperta, più agile e più preparata al futuro.

Ecco i tre modi in cui il mondo è cambiato in meglio in questo terribile anno.

1. Ora sappiamo come codificare i nostri vaccini

Forse lo sviluppo che avrà le implicazioni più profonde per le future generazioni sono gli incredibili progressi nelle biotecnologie dell’Rna messaggero (mRna) sintetico.

Abbiamo ottenuto i nostri vaccini molto velocemente: il precedente record per lo sviluppo di un vaccino era di quattro anni, ed era stato stabilito negli anni sessanta. Stavolta abbiamo messo a punto vari vaccini efficaci contro il covid-19 in meno di un anno. La fortuna ha velocizzato il processo. Per esempio è noto che è difficile sviluppare, e infatti ancora non esiste, un vaccino contro il retrovirus dell’hiv. Per il covid-19 il processo è stato più semplice, agevolato da milioni di dollari di denaro pubblico e da un senso di urgenza planetario, e accelerato dagli effetti tragici del virus: poiché la pandemia imperversava, avevamo a disposizione un numero elevato di casi per le sperimentazioni. È stato quindi più facile ottenere rapidamente dei risultati.

Ma in tutto questo ci sono stati anche passi avanti storici. La nuova tecnologia a mRna su cui si basano vari vaccini – in particolare quello della Pfizer con la Biontech e quello della Moderna – rappresenta una svolta scientifica e tecnica epocale. Oggi è possibile codificare i nostri vaccini, e grazie ai progressi scientifici e della produzione industriale è possibile produrli su larga scala e capire in che modo somministrarli alle nostre cellule nel giro di pochi mesi.

Tutto questo è una novità. Né la Moderna né la Biontech avevano un singolo prodotto approvato sul mercato prima del 2020. Entrambe hanno in pratica progettato il proprio vaccino al computer, in un fine settimana del gennaio 2020: per quello della Biontech ci sono volute, letteralmente, solo poche ore. Entrambe le aziende disponevano di vaccini potenziali, progettati almeno quattro settimane prima dell’annuncio del primo decesso da covid-19 negli Stati Uniti. La Moderna stava producendo lotti di vaccini da usare per test clinici più di un mese prima che l’Organizzazione mondiale della sanità dichiarasse la pandemia. Nel 2021 le aziende prevedono complessivamente di produrre miliardi di dosi di vaccino straordinariamente efficaci.

Conosciamo il principio alla base della vaccinazione: quando il nostro sistema immunitario incontra un virus, può imparare a combatterlo e a ricordarsi come farlo anche in seguito. I vaccini forniscono al nostro sistema immunitario l’allenamento di cui ha bisogno, ma si tratta comunque di una lotta impari. Fino a oggi la maggior parte dei vaccini in uso conteneva virus indeboliti o completamente disattivati oppure, più di recente, subunità proteiche: vale a dire pochi frammenti del virus, chiamati antigeni.

Abbiamo raggiunto straordinari livelli di efficacia e sicurezza con queste tecniche, che però hanno ancora delle controindicazioni. Nel 1955 alcuni lotti difettosi di un vaccino indebolito contro la poliomielite uccisero dieci bambini e centinaia rimasero paralizzati. Da allora abbiamo fatto in modo di non ripetere quel tragico fallimento, ma produrre vaccini a partire dall’agente patogeno stesso significa ancora dover maneggiare il virus nel processo produttivo. I vaccini a subunità più recenti sono molto promettenti, ma presentano a loro volta degli ostacoli. Identificare la giusta subunità (o antigene) può essere difficile, e questi vaccini tendono a produrre risposte immunitarie più deboli. Gli antigeni, inoltre, non si trovano certo al supermercato. Vanno allevati in sistemi cellulari come il lievito o il batterio E. coli: sostanzialmente si modifica la loro genetica per fargli produrre gli antigeni desiderati, raccogliendo poi quel che è venuto fuori. Funziona, ma è più lento del processo a mRna.

I vaccini a mRna funzionano in maniera diversa. Nel loro caso, gli scienziati osservano la sequenza genetica di un virus, ne identificano una parte fondamentale – come la proteina spike, che il virus usa come una chiave che si fissa ai recettori delle cellule per sbloccarle e penetrare al loro interno – producono le istruzioni per ottenere solo questa parte, e poi inviano queste istruzioni alle nostre cellule. In fondo è proprio quello che fa un virus: assume il controllo del funzionamento delle nostre cellule per riprodursi. Solo che, in questo caso, diciamo alle nostre cellule di produrre solo la porzione spike, in modo che alleni il nostro sistema immunitario con qualcosa che non può infettarci, perché le altre parti del virus sono assenti! Prima di quest’anno, era questo il sogno alla base delle tecnologie a mRna sintetico: un sogno a cui credevano poche persone, fatto di difficili sfide, e che poteva offrire solo le sue promesse. Quest’anno è diventato realtà.

Le nostre cellule dispongono di un notevole tipo di software – il wetware, il cervello umano  che usa le istruzioni nel dna presente nei nuclei delle nostre cellule per produrre proteine. Se si pensa alle proteine assemblate come a una struttura fatta con il Lego, il dna è come il libretto d’istruzioni. Ma qualcuno deve leggere quelle istruzioni e assemblare correttamente i vari pezzetti. Nella cellula, una parte fondamentale di questo processo è l’rna messaggero: una molecola a singolo filamento, che ha vita breve e che porta le istruzioni dal dna nel nucleo alla fabbrica che produce proteine all’esterno.

Nel 2020 abbiamo capito come produrre Rna messaggero con precisione, programmando l’esatto codice desiderato, producendolo in scala (una stampante di Rna messaggero!) e trovando il modo d’iniettarlo nelle persone in modo che il fragile mRna arrivi nelle nostre cellule.

Il primo passo è stata pura programmazione informatica: Uğur Şahin, l’amministratore delegato della Biontech, si è seduto di fronte al suo computer e ha inserito il codice genetico della proteina spike del misterioso virus emerso a Wuhan. I dipendenti della Moderna avevano fatto lo stesso il fine settimana prima che la sequenza genomica fosse resa pubblica, il 10 gennaio. Il potenziale vaccino della Modera era stato chiamato mRna-1273 perché in esso erano stati codificati tutti i 1.273 amminoacidi presenti nella proteina spike del sars-cov-2: il codice era così piccolo da poter essere rappresentato per intero con meno di metà dei caratteri che entrano in una pagina con interlinea singola.

Il resto del processo si è basato su importanti innovazioni scientifiche e industriali, di origine piuttosto recente. L’mRna messaggero è fragile: si disintegra facilmente, com’è giusto che faccia. Le nanoparticelle lipidiche in cui è avvolto per usarlo come sistema di consegna sono state approvate solo nel 2018. Inoltre la proteina spike virale cambia notoriamente forma: ne prende una prima di fondersi con le nostre cellule e poi un’altra. Quest’ultima forma, quella post-fusione, non ha funzionato bene per lo sviluppo di vaccini, e solo di recente gli scienziati hanno capito come stabilizzare la spike di un virus nella forma che questa ha prima della fusione.

Nuovi strumenti
Ora che questo processo è in atto, si è aperta una serie di possibilità. Potremmo presto avere vaccini per molte altre malattie contro cui lottiamo. Sono già in corso dei tentativi, per esempio, per un vaccino a mRna contro la malaria, provocata da un parassita che ogni anno uccide centinaia di migliaia di persone, soprattutto bambini, ed è notoriamente difficile da combattere con i vaccini.

Potremmo finalmente ottenere anche una nuova serie di strumenti contro il cancro (sia la Moderna sia la Biontech stavano lavorando su trattamenti per il cancro prima di passare ai vaccini contro i coronavirus). La difficoltà, nel caso del cancro, è che in esso sono le nostre stesse cellule ad andare in tilt. È davvero difficile trovare il modo di uccidere solo le cellule cancerose di un paziente senza uccidere anche quelle sane, e quindi anche il paziente. Ma l’mRna sintetico può essere programmato per contenere solo la mutazione specifica esistente nelle cellule cancerose di un dato paziente – e se le cellule cancerose mutano ulteriormente, anche le nuove possono essere prese di mira.

Questo può permetterci, finalmente, di passare da un modello di medicina in cui i farmaci sono identici per tutte le persone di un gruppo particolare, a terapie mirate e individualizzate. Inoltre queste tecnologie sono adatte a una produzione su più piccola scala ma abbastanza economica: uno sviluppo che può aiutarci a trattare le malattie rare che colpiscono solo poche migliaia di persone ogni anno, e che sono quindi solitamente ignorate dalle tecnologie mediche orientate al mercato di massa.

Non è inoltre una coincidenza che questi due vaccini a mRna siano stati i più veloci a sbarcare sul mercato. Possono essere prodotti rapidamente e, fatto fondamentale, aggiornati in maniera straordinariamente veloce. Şahin, l’ad di Biontech, ritiene che sei settimane siano un tempo sufficiente perché l’azienda cominci a produrre nuovi richiami per ogni nuova eventuale variante di covid-19. La Pfizer e la Moderna stanno entrambe già lavorando su richiami che prendono di mira con più precisione le nuovi varianti individuate finora, e l’Agenzia per gli alimenti e i medicinali (Fda) statunitense ha dichiarato di poter approvare rapidamente questi aggiornamenti dei farmaci.

2. Abbiamo realmente imparato a usare le infrastrutture digitali

Internet, una diffusa connettività digitale, le nostre tante app: è facile dimenticare quanto tutto questo sia nuovo per noi. Zoom, l’onnipresente servizio video che è diventato sinonimo di lavoro durante la pandemia, e del quale molti di noi sono comprensibilmente un po’ stufi, ha meno di dieci anni. Lo stesso vale per quelle connessioni a banda larga che hanno permesso a miliardi di persone di accedere a servizi d’intrattenimento video in streaming e di rimanere in contatto con familiari e colleghi. La connettività a internet è lungi dall’essere perfetta o distribuita equamente, ma è diventata più rapida e diffusa nell’ultimo decennio. Senza di essa, la pandemia sarebbe stata molto più avvilente e dispendiosa.

La tecnologia ha inoltre mostrato come potremmo far funzionare meglio la nostra società in tempi normali.

La trasformazione del lavoro
Si pensi, per esempio, al diffondersi della telemedicina durante la pandemia. La scorsa estate, mentre mi trovavo a poche ore da casa, sono stata di nuovo vittima dei debilitanti dolori al collo di cui già avevo sofferto, circa cinque anni fa, durante un altro viaggio. Li ho riconosciuti subito: dolori netti, costanti che partivano dal punto in cui il mio collo si unisce alla spalla destra: il più piccolo movimento mi faceva sentire come se un esercito di piccole lance avvelenate mi stesse colpendo in quella zona.

La volta precedente mi era stato detto che non era possibile fare niente senza prima vedere di persona il mio dottore, molti giorni dopo. Adesso non è più così: il mio dottore e io ci siamo connessi immediatamente grazie a un nuovo portale per i pazienti, che aveva la possibilità di organizzare videoconferenze e che era diventato disponibile con la pandemia. Ho descritto il problema e mostrato il mio limitato raggio di movimento. Il dottore ha concluso la chiamata dicendo che avrebbe spedito una ricetta per dei corticosteroidi da assumere per via orale a una vicina farmacia. Appena un’ora dopo, e meno di un giorno dopo l’emergere dei sintomi, ero seduta nella mia auto, nel parcheggio della farmacia, che fissavo la scatola di medicinali in preda alla meraviglia. In passato avevo provato dolori intensi per vari giorni, tanto da cominciare ad avere allucinazioni per mancanza di sonno. Stavolta il sollievo era proprio lì, nelle mie mani.

Negli Stati Uniti, secondo i centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc), la telemedicina è aumentata del 50 per cento nel primo trimestre del 2020, rispetto allo stesso periodo del 2019. Chiaramente queste consultazioni non sono adatte a tutte le situazioni ma, se giustificate, possono facilitare molto l’accesso alle cure mediche delle persone, senza che queste debbano preoccuparsi del trasporto, dei figli piccoli o di sottrarre troppo tempo al lavoro. L’accesso da remoto all’assistenza medica è da tempo una richiesta delle persone con disabilità e di quelle che vivono nelle zone rurali, per le quali recarsi in un ambulatorio può essere un peso ulteriore.

Anche il lavoro si è trasformato. All’improvviso centinaia di milioni di persone in tutto il mondo hanno dovuto inventarsi un modo di fare le cose senza andare in ufficio. A quanto pare la cosa, per molti colletti bianchi, non è solo possibile, ma ha anche vari vantaggi.

Il pendolarismo, per fare un esempio, è malsano: è uno spreco di tempo e rischia di aumentare la nostra sedentarietà, una condizione legata a molti disturbi. Fatto forse peggiore di tutti, guidare è una delle attività più pericolose che svolgiamo ogni giorno. La gara per cercare di evitare lunghi tragitti casa-lavoro distorce il valore degli immobili e può aggravare le diseguaglianze, poiché le persone con più soldi pagano somme più alte per vivere vicino ai centri di lavoro, dove altri non possono più permettersi di abitare.

Non sorprende che molti dei miei amici più fortunati – quelli in grado di lavorare da casa e non colpiti direttamente dal covid-19 – abbiano raccontato quanto siano migliorate le loro vite senza doversi spostare per andare al lavoro e con una maggiore flessibilità.

L’importanza della socialità
Sono tanti inoltre gli eventi che sono diventati più inclusivi. Per tutto lo scorso anno ho potuto partecipare a conferenze e incontri ai quali sarei mancata, a meno di avere grandi disponibilità di tempo o di poter sostenere le spese di viaggio. Ho anche tenuto conferenze nelle quali ho interagito con persone di tutto il mondo, che altrimenti non sarebbero mai potute essere in quella “stanza”. E mi sono accorta che una varietà più ampia di esperti può apparire in televisione, ora che abbiamo normalizzato il fatto di parlare dall’ufficio di casa, dal salotto o perfino dalla camera da letto. In un mondo diviso da passaporti, disuguaglianze di reddito, limiti di tempo, e opportunità, perché non incorporare le videoconferenze nei nostri eventi più di quanto facessimo prima? Perché non accettavamo domande dal pubblico che non era presente nella stanza? Dovremmo continuare a farlo anche dopo la pandemia.

Mi mancano naturalmente le conversazioni fortuite che scaturivano nei convegni e in altri eventi in carne e ossa: non solo durante le conferenze, ma anche nei corridoi, o a colazione prima di un evento. È vero che questi incontri sono per molti una forma di socialità, e non sto sostenendo che sia opportuno eliminarli. Non credo neanche che non dovremmo più tornare in ufficio, o ignorare i problemi che derivano dal lavorare fuori da un ufficio: soprattutto le minacce all’equilibrio casa-lavoro. Essere nello stesso ufficio permette anche conversazioni che vanno oltre le questioni di lavoro in senso stretto, e i legami che incoraggiano. Può darsi che non saremo mai in grado di replicare digitalmente questi aspetti positivi, ma dovremmo comunque offrire un qualche accesso remoto a quanti altrimenti sarebbero completamente esclusi.

3. Abbiamo liberato il vero spirito della revisione paritaria e della scienza aperta

Il 10 gennaio 2020 un virologo australiano, Edward Holmes, aveva pubblicato un breve e semplice tweet: “Avviso a tutti, una prima sequenza genomica del coronavirus dell’epidemia di Wuhan è adesso disponibile qui su Virological.org”. Un microbiologo rispose “si comincia”, con una gif di aerei che decollavano. E così è effettivamente cominciato un impressionante anno di attività scientifica aperta, rapida, collaborativa, dinamica e sì, anche caotica, fatta di modalità di collaborazione che sarebbero state impensabili anche solo alcuni decenni fa.

Holmes aveva annunciato che in Cina uno scienziato, Zhang Yongzhen, si era precipitato a sequenziare il genoma del misterioso virus proveniente da Wuhan: la sua équipe aveva lavorato praticamente senza sosta, completando la sequenza appena quaranta ore dopo che un campione del virus era arrivato in una scatola di ghiaccio secco nel suo ufficio di Shanghai. Senza aspettare un’approvazione o un permesso ufficiale, Zhang aveva inoltre rapidamente condiviso il risultato con un consorzio di ricercatori in Australia, dando loro il via libera perché lo pubblicassero in rete in una pagina aperta.

La revisione paritaria – quella effettuata da colleghe e colleghi di scienza – rimane, giustamente, il fondamento del processo scientifico: la scienza è buona quando i componenti di una comunità dediti al progresso della conoscenza possono esaminare scoperte, replicare risultati, testare teorie e mettersi vicendevolmente alla prova.

Un obbligo scomparso
Tuttavia la revisione paritaria, peer review, come processo formale – come si svolge oggi – è diversa dall’idea e dallo spirito della visione tra pari, peer view. Esistono riviste scientifiche che applicano la revisione paritaria e nelle quali gli scienziati possono pubblicare le loro scoperte. Ma, per quanto sorprendente possa apparire la cosa, molte di queste riviste – soprattutto quelle più prestigiose, che possono favorire la carriera di una scienziata o di uno scienziato – sono di proprietà di aziende con finalità di lucro, anche se le valutazioni paritarie sono fatte gratuitamente e volontariamente su articoli proposti da persone di scienza che, a loro volta, non sono pagate dalle riviste.

Ancora peggio, dopo aver seguito la procedura formale in queste riviste con finalità di lucro, questi articoli diventano poi disponibili solo a pagamento, il che significa che queste aziende fanno pagare somme indecenti alle biblioteche delle università, i cui scienziati hanno contribuito gratuitamente all’articolo e alla revisione paritaria. Le aziende impediscono anche ai lettori comuni di accedervi, a meno che non paghino per farlo. Queste aziende fanno inoltre pagare a scienziate e scienziati il privilegio di rendere questi articoli “ad accesso libero”: articoli, lo ripetiamo, scritti proprio da coloro che non traggono alcun beneficio finanziario da queste letture a pagamento!

Non stupisce che queste aziende continuino a ottenere grandi profitti mentre molti accademici sono in rivolta contro una procedura che impedisce la diffusione del sapere. Sfortunatamente gli scienziati e le scienziate – soprattutto se a inizio carriera – sentono l’obbligo di continuare a partecipare al sistema, perché ottenere la pubblicazione del proprio articolo è vitale per le assunzioni, le promozioni e il prestigio.

Ma ora, non più. Quando è cominciata la pandemia, è stato impossibile continuare con questo vecchio gioco, lento e chiuso, e la comunità scientifica si è lasciata andare. La revisione paritaria – quella vera, non solo la sua versione superficiale, ostaggio delle aziende con scopo di lucro – si è liberata delle sue limitazioni. Una buona parte del mondo della ricerca ha cominciato a pubblicare le sue scoperte come documenti di lavoro in prestampa, preprint – ovvero articoli che devono ancora essere rivisti e approvati da pubblicazioni formali – caricandoli in pagine scientifiche senza fine di lucro, liberamente accessibili. Questi documenti di lavoro sono stati discussi apertamente e appassionatamente, spesso sui social network: non necessariamente il luogo ideale per la cosa, ma è quel che avevamo a disposizione.

Vero spirito scientifico
A volte la pubblicazione di dati è stata anche più veloce: alcuni dei più importanti dati iniziali sulla risposta immunitaria alla preoccupante variante britannica sono venuti da un thread di Twitter di un affaticato ma generoso ricercatore del Texas. È stata una dimostrazione di vero spirito scientifico: il laboratorio del ricercatore rinunciava al prestigio di essere il primo a pubblicare i risultati in un articolo, permettendo agli altri di mettersi al lavoro il più velocemente possibile. Gli articoli spesso sono passati anche da una revisione paritaria classica, e hanno finito per essere pubblicati in riviste, ma la pandemia ha spinto molte di queste aziende a rinunciare a farsi pagare per la lettura. E inoltre i documenti di lavoro da cui sono scaturiti gli articoli definitivi sono rimasti disponibili a tutti.

Anche le collaborazioni si sono ampliate in modalità difficilmente immaginabili senza i nuovi strumenti digitali, che permettono una rapida condivisione e collaborazione, e senza quel sentimento di urgenza che è stato capace di annullare le rigide separazioni disciplinari.

Per esempio, all’inizio del 2020, dopo che avevo cominciato a scrivere della necessità d’indossare una mascherina, è risultato evidente che avevamo bisogno anche di articoli scientifici dettagliati che analizzassero le basi scientifiche dell’efficacia delle mascherine nel ridurre la trasmissione in una comunità.

L’argomento toccava questioni attinenti a varie discipline, tra cui le malattie infettive, lo studio degli aerosol e la sociologia. Per questo mi sono associata a un gruppo di scienziati, dottori, ricercatori e analisti dei dati di tutto il mondo, per scrivere insieme un articolo accademico. È stata un’esperienza assolutamente inedita, dall’inizio alla fine. Molte attività scientifiche coinvolgono équipe internazionali, ma stavolta abbiamo cominciato a collaborare in maniera praticamente improvvisata: i coautori vivevano in città tanto diverse quanto Città del Capo, in Sudafrica; Pechino, in Cina; Chapel Hill (io!) e Stanford, negli Stati Uniti; e Oxford, nel Regno Unito. Avremmo in seguito pubblicato nella rivista scientifica più citata al mondo, la statunitense Pnas (Proceedings of the national academy of sciences), che ha più di cent’anni. Ma la maggior parte degli strumenti che abbiamo usato – revisione condivisa di articoli scientifici, videoconferenze e altre forme d’incontro – appena pochi anni fa non erano altrettanto disponibili o facili da usare.

Come molti altri, non abbiamo aspettato una revisione paritaria formale per condividere le nostre scoperte. Abbiamo rapidamente caricato il nostro articolo su un server di preprint, in modo che potesse essere oggetto di revisione paritaria aperta da parte della comunità scientifica, e di domande e commenti da altri attori rilevanti, tra cui politici e perfino persone comuni che cercavano di capirci qualcosa in questi tempi confusi. E le reazioni sono arrivate rapidamente: abbiamo ricevuto lunghe e premurose email, e correzioni e commenti su Twitter, che si sono rivelati estremamente utili. Ma anche contributi molto meno utili, tra cui gli sfoghi di persone non meglio identificate che se la prendevano con noi.

Ho cominciato a suddividere per categorie le reazioni alle sezioni sulle quali avevo lavorato, come hanno fatto molti dei miei collaboratori. Ancor prima che il primo giro di revisioni paritarie fosse completato, abbiamo usato le reazioni per generare una nuova versione, più solida, che abbiamo aggiunto al server. Poi abbiamo ricevuto il nostro primo giro di revisioni paritarie, che abbiamo trovato a sua volta molto utile. Abbiamo ulteriormente aggiornato l’articolo, riproponendo la nuova versione alla Pnas, e abbiamo atteso il secondo giro di revisione paritaria (che ha avuto bisogno di vari mesi, ma è stata anch’essa molto utile). Alla fine, quasi un anno dopo, sono arrivate l’approvazione e la pubblicazione formale.

Devo ammettere che la versione finale dell’articolo pubblicato fa una bella figura nel mio curriculum, ma la nostra versione di lavoro era già stata scaricata più di qualsiasi altro articolo su quel server. È stato citato centinaia di volte, anche dalle riviste mediche e scientifiche più prestigiose al mondo; ha contribuito al dibattito scientifico globale; e ha svolto un ruolo fondamentale nell’imposizione delle mascherine. Per festeggiare ci siamo anche concessi un’ora di relax, in cui abbiamo parlato delle nostre vite, sfide, e della nostra nuova e condivisa amicizia.

 

Questo processo di revisione paritaria aperta è veloce, dinamico e – diciamolo – caotico. Non è privo di controindicazioni. Troppi titoli sensazionalistici sono nati dalla fretta di giornalisti che si sono precipitati a scrivere di documenti di lavoro non sufficientemente soppesati, senza aspettare che il processo di revisione e commenti aperti facesse il proprio lavoro. La cosa può generare confusione nell’opinione pubblica. E l’esplosione dei documenti di lavoro è talvolta dipinta come la fine della revisione paritaria formale.

È vero invece il contrario. Nessun processo che permette di saperne di più su come sono prodotte le salsicce può evitare di guardare ai suoi elementi meno gustosi, ma dobbiamo cercare di cambiare il modo in cui ci rapportiamo alla scienza, non di tornare al mondo lento e artefatto di prima della pandemia. Dovremmo adottare questo straordinario e solido processo fatto di scienza aperta e maggiore revisione paritaria, oltre che il suo dinamismo, pur continuando a stabilire nuovi strumenti di sicurezza che ne contengano l’energia.

La pandemia è scoppiata in un momento di convergenza tra tecnologia digitale e medica e dinamiche sociali, che hanno rivelato un enorme potenzialità positiva per le persone. Niente cancellerà le perdite che abbiamo subìto. Ma quest’anno terribile ci ha spinto a miglioramenti straordinari nella vita umana, grazie a nuove biotecnologie, a una maggiore esperienza degli aspetti positivi della connettività digitale e a un processo scientifico più dinamico.

Ciò detto, evitiamo che accada di nuovo.

 

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul mensile statunitense The Atlantic.

 

da qui

Nessun commento:

Posta un commento